SANI! - TEATRO TRA PARENTESI di e con Marco PaoliniE' tornato a teatro anche Marco Paolini, uno dei più grandi artisti del teatro di narrazione italiano. Torna a suo dire cambiato, dopo l'infuriare della pandemia, il lockdown, la chiusura forzata dei luoghi di spettacolo (e di tanto altro), il periodo di inattività con il cervello che non smette di funzionare, e lo spettacolo di un mondo che non era difficile immaginare tanto fragile, ma che della propria vulnerabilità ha dato un esempio talmente convincente da sembrare una sinistra prova generale. Sembrano scaturire tutti da qui, lungo diversi ma alla fine non inconciliabili rivoli, i racconti che vanno a riempire il teatro tra parentesi di Sani!. “Sani” è una formula di saluto in uso in alcune zone del Veneto, ma qui suona anche come un auspicio per il futuro, e ancora come un'esclamazione di sollievo, al ritrovarsi di nuovo vivi, in una sala gremita, ad assistere di nuovo all'antico rito collettivo del teatro. Si parla così di teatri e luoghi di spettacolo chiusi; ma siamo tornati indietro nel 1983, a seguito del disastroso incendio nel Cinema Statuto di Torino. Paolini partecipò a quel tempo all'organizzazione di uno spettacolo teatrale che doveva servire a raccogliere fondi e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla situazione degli operatori dello spettacolo, soprattutto i più piccoli e i più penalizzati. Ne scaturisce il racconto di un'avventura rocambolesca dove si mescolano l'inesperienza, l'ingenuità, la cieca fiducia nel potere della cultura, attraversata dalla figura lunare e inaccessibile di Carmelo Bene, inconsapevole testimonial (retribuito) della fallimentare iniziativa. E' il momento più godibile e divertente dello spettacolo, dove il racconto della débâcle si ammanta di umorismo e autoironia. Perché il prologo dello spettacolo è più hard, con Paolini che, sullo sfondo di un troneggiante simbolico castello di carte (il castello delle cose, una torre di Babele tanto esorbitante quanto facile a rovinare ad un tocco di dita o a un soffio d'aria), dà i numeri, raccontando di come il peso di tutti i manufatti umani abbia ormai raggiunto (e si prepara a superarlo, in una crescita esponenziale inarrestabile), l'intero peso della biomassa terrestre, ovvero l'insieme di tutti le forme di vita presenti sul pianeta. Sono delineati così i due binari su cui corre lo spettacolo (e che innervano il percorso artistico di Paolini, tra l'autobiografia sentimentale degli Album personali e le narrazioni civili di eventi collettivi, come ne Il racconto del Vajont o in Parlamento chimico), tra la dimensione delle memorie personali e quella dei grandi temi: il mondo che cambia o meglio che scivola lungo una china rovinosa, tra pandemia, cambiamenti climatici, e un'Europa che smarrisce e tradisce i propri valori. C'è quindi un alto ufficiale sovietico (Stanislav Evgrafovic Petrov) che, nello stesso 1983, con la propria capacità di giudizio e la propria volontà evita la risposta ad un presunto attacco militare americano (che in realtà era un abbaglio del sistema di difesa russo), scongiurando un'apocalisse nucleare. C'è una donna comune che in mezzo alle macerie del terremoto di Gemona offre senza battere ciglio (come il pescatore di De Andrè) quel che poco che le rimane, un po' di vino, un caffè caldo e corretto: un'eroina della resilienza prima che fosse creato il termine (e che, se il termine fosse esistito, non ne avrebbe capito il significato). C'è un sogno di Giorgio Gaber (raccontato nell'album E pensare che c'era il pensiero, un titolo che suona oggi di grande e desolante attualità), con un uomo su una zattera che si interroga se far posto ad un naufrago che rischia di affogare o dargli una remata in testa per non correre rischi (e sullo stesso uomo che si ritrova in mare rischiando di affogare mentre l'altro sulla zattera si chiede se accoglierlo o dargli una remata in testa per risolvere il problema). C'è un uomo che in un racconto di Raymond Carver deve descrivere ad un cieco una cattedrale, e c'è Antoni Gaudì, che progettò la Sagrada Familia senza avere la speranza di vederla mai finita, capace di vedere il futuro oltre il limite della propria esistenza. Da storie apparentemente slegate emerge quindi chiaro il messaggio. Bisogna essere capaci di ricominciare; bisogna essere resilienti, coraggiosi, in grado di giudicare rettamente sulla bilancia il valore della vita umana e dei beni materiali; bisogna essere uomini e donne capaci di opporsi al male con la propria individuale volontà, di spingere lo sguardo oltre il futuro e di avere la forza e la visionarietà di progettarlo. Sono le fondamenta de La fabbrica del futuro, un progetto che Paolini ci invita a cercare e seguire nei prossimi mesi. Il consumato talento affabulatorio di Paolini si conferma ineccepibile come sempre, anche nell'apparente dispersività dei temi; meno riuscite a mio parere le canzoni (sulle stesse tematiche) che intervallano i quadri dello spettacolo, quando Paolini fa un passo indietro per lasciare spazio al musicista Lorenzo Monguzzi e alla cantante italo-etiope Saba Anglana, una presenza scenica comunque suggestiva per vocalità ed eleganza.
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Anche quest'anno Jazzmi è passato con una ventata di grande musica e se ne è andato troppo presto (anche se visti i tempi non era nemmeno scontato che arrivasse). Una valanga di concerti in città, in una moltitudine di luoghi, con un'incredibile varietà di declinazioni di quello che può stare sotto l'etichetta jazz, la possibilità di ascoltare mostri sacri e giovani talenti, ma anche di scoprire angoli inediti di una città che ha da offrire sempre più di quanto sembri. Quest'anno abbiamo ascoltato otto concerti nell'arco di una settimana circa, quasi tutti ad ingresso libero, in sei diverse location. L'ultimo giorno del festival, domenica 31, è stata una giornata ricca di soddisfazioni e di godimento musicale, con tre concerti ospitati in Villa Necchi Campiglio. La villa, nelle vicinanze della fermata della metropolitana di Palestro, risale agli anni '30 ed è ora proprietà del Fai che organizza visite guidate nei suoi interni e nel parco circostante. In effetti, per la precisione, i concerti si sono tenuti nell'ex-campo da tennis della villa, ora chiuso in una specie di serra tutta vetrata (soffitto compreso), ad offrire una sorta di auditorium moquettato e riscaldato, con vista sullo splendido giardino carico d'autunno della villa. Purtroppo non c'erano sedie, ma solo sottili cuscinetti blu sul pavimento. E sentire tre concerti, sia pure di un'oretta l'uno, seduti sul pavimento, almeno alla nostra età, si avvicina abbastanza all'idea di un supplizio. Per fortuna la musica offriva un'ampia consolazione alla scomoda ospitalità. Partiamo da quella che per quanto mi riguarda è stata la rivelazione dell'anno. Il gruppo si chiama Lorr, e Lorr, alias Laura Salvi, ha in realtà un'aria da brava ragazza prima della classe, vestita con maglioncino e jeans, occhiali e cerchietti alle orecchie. E in più è timida, e le sue presentazioni dei brani naufragano regolarmente in un conclusivo “e... beh... niente”. Ma è l'autrice della maggior parte dei brani proposti, e appena comincia la musica si trasforma in una cantante grintosa, con una grande estensione vocale, e perfino movenze musicalmente sensuali. Gran belle canzoni, di quelle che piacerebbe vedere in qualche tipo di classifica, con composizioni che si impongono con naturalezza e autorevolezza già dal primo ascolto. Il genere è il soul con inflessioni british e il rythm'n'blues e oltre ai brani composti dalla frontwoman nella scaletta appaiono alcuni brani dell'ispiratrice anglo-giamaicana Jorja Smith. Alle spalle della cantante, un'implacabile macchina da musica con chitarra (Tommaso Caccia), basso (Giuseppe Viscomi), tastiera (Pietro Garcea, anche alla tromba) e batteria (Alex Canella). Il gruppo si è formato al Conservatorio di Milano e non ha ancora inciso nulla. Lorr mi dice che qualcosa è in preparazione, intanto stanno creando l'hype. Da tenere d'occhio; il pubblico li ha accolti con un calore che ha stupito loro stessi (“Siete probabilmente il pubblico più caloroso che abbiamo avuto”). Non è una sorpresa ma una nuova riconferma invece quella di Cosimo & The Hot Coals, che abbiamo già avuto il piacere di ascoltare diverse volte. Cosimo è in smoking, gli Hot Coals in giacca cravatta e panciotto. Sono giovani (anche loro vengono dal Conservatorio di Milano), ma la loro passione è il sound di New Orleans. Di ascolto in ascolto però si stanno sempre più staccando dal repertorio tradizionale per proporre sempre più brani originali, composti da loro, con testi in italiano e musica in rigoroso stile hot jazz. Cosimo è sempre più mattatore, con baffetti, capelli impomatati, la voce perfetta per il ruolo e un talento per la tromba, a metà tra scanzonato speakeasy e elegante vaudeville, tra la tromba di Armstrong e l'strionismo di Cab Calloway, tra il citazionismo e l'ironia di Buscaglione e Carosone. Tra una canzone sui luoghi comuni e una sull'onnisapienza d'epoca Covid, ma sempre con souplesse e leggerezza, Cosimo (Pignataro) trova disinvolte spalle per le sue gag nei complici Martin Di Pietro (piano) e Stefano Della Grotta (chitarra e banjo), mentre nelle retrovie Mirko Boles e Michele Capasso al contrabbasso e alla batteria svolgono con serietà e competenza il loro dovere ritmico. Bis, ovviamente, con When the Saints Go Marchin' In e pubblico in visibilio. Il loro ultimo album si intitola, appunto, Speakeasy. Si sono incontrate al Conservatorio di Ferrara le tre ragazze che hanno scelto l'accattivante nome di Le Scat Noir per il loro progetto tutto al femminile. Si tratta sostanzialmente di un trio vocale, ma solo Ginevra Benedetti si limita a usare la voce, mentre Sara Tinti suona anche la tastiera e Natalia Abbascià usa il violino suonandolo con l'archetto, a pizzico, o a percussione. Il trio usa comunque anche la bocca, le mani, il petto, le guance per produrre il proprio sound e il proprio ritmo. Le Scat Noir fondono nel loro programma, amalgamandolo col loro stile particolare, generi diversi, passando con disinvoltura dal gospel alla canzone brasiliana (con un Djvan già rifatto dai Manatthan Trasfer), dalla Nuvolari di Dalla (che speravo di sentire eseguire da Servillo e orchestra nel concerto di cui parlerò dopo, magari come bis fuori programma) alle canzoni popolari franco-canadesi, dalle composizioni originali (una sulla preparazione della zuppa di cipolle) fino a It Don't Mean a Thing di Duke Ellington, tutto con armonizzazioni originali e audaci, del tutto prive di timore reverenziali verso i mostri sacri. A volte effervescenti e a volte lunari, secondo le loro stesse parole - capaci di ammettere di essersi impappinate, con il sorriso sulle labbra e il divertimento nell'anima - tre belle e intrepide voci complementari che lasciano il pubblico ammirato. Gli Arianna Masini & the City Flowers, gruppo formatosi nella Civica Scuola di Jazz, si presentano invece con una formazione essenzialista alla Carmel, con voce, contrabbasso (e basso elettrico) e batteria. Il programma prevede un pout pourri che spazia tra composizioni originali anche in italiano (come quella in cui si mescola fame d'amore e fame di pasta al sugo; evidentemente le compositrici amano mescolare musica e riflessioni sentimental-culinarie) e in inglese, qualche standard jazz, un'ampia parentesi brasiliana e alcuni hit celeberrimi come Via con me di Conte o un brano dei Police. Arianna ha una gran bella voce e una notevole grinta, ma a lasciarmi qualche perplessità è stata proprio qualche scelta di repertorio e il trattamento riservato ai brani più famosi: va bene accelerarli, ma a volte si rasenta la sbrigatività, con la chiusura dei versi quasi tronchi in calando, come se prevalesse l'urgenza di tirare avanti. E' comunque una voce che mi farebbe piacere risentire. Il concerto si è tenuto nel bar dello Sheraton Milano San Siro, che ospita il ristorante di Javier Zanetti e sorge sul margine verde della città, dove si possono incontrare anatre e scoiattoli. In un'altra area verde, il parco che circonda l'ex-istituto psichiatrico Paolo Pini, che ora ospita un ristorante gestito da Olinda, abbiamo ascoltato all'aperto la Lazy Sloths Jazz Band, un gruppo molto giovane che avevamo incrociato al loro esordio in Jazzmi due anni fa. Stavolta sono non poco penalizzati dall'afonia del loro ironico portavoce, Giacomo Bertazzoni, che per fortuna però conserva il fiato necessario da dedicare al proprio sassofono e comunica con il pubblico con appositi cartelli con scritto “Salve” o “Grazie”. Jazz della tradizione di New Orleans, con basso tuba, chitarra e banjo oltre al sax. Una band simpatica, che necessiterebbe, visto anche il genere prescelto, un'iniezione supplementare di energia e calore. Allo Sheraton Diana Majestic abbiamo ascoltato invece il programma di standard di jazz moderno proposto dall'Impressions Duo composto da Simona Daniele alla voce e Lorenzo Barcella alla chitarra acustica ed elettrica. Una formazione minimale, con spazio per lo scat e le improvvisazioni della vocalist. La sala dove si tiene il concerto è abbastanza fredda, ma poco più in là il Diana nasconde il suo gioiello più prezioso, il bel giardino privato dove prendere un aperitivo in una piccola e affascinante giungla addomesticata nel centro di Milano. Veniamo infine ai fuoriclasse. Rincrociamo Gianni Coscia e Gianluigi Trovesi in una location insolita, la chiesa di Santa Barbara di San Donato Milanese, una costruzione di quegli anni '50 in cui sorgeva Metanopoli, che cita nella facciata le cattedrali toscane e che contiene all'interno uno dei più grandi mosaici d'Europa e uno stupendo soffitto che sembra composto di tappeti etnici, concepito da Andrea Cascella. Coscia e Trovesi sono due maestri ottuagenari (facendo la media dell'età), che non hanno più nulla da dover dimostrare e che propongono con eleganza e sicurezza un programma interamente ispirato alla musica degli anni '30 e 40, girando intorno alle suggestioni contenute nel romanzo di Umberto Eco - ampiamente autobiografico – La fiamma della regina Loana, cui forniscono un'apocrifa colonna sonora intitolata naturalmente La musica della regina Loana. Un omaggio sentito e doveroso: sia Coscia che Eco sono originari di Alessandria e coltivarono una grande amicizia e lo scrittore dedicò vari scritti al percorso musicale del duo. Il fisarmonicista e il sassofonista giocano il loro collaudato e affiatato interplay non solo attraverso gli strumenti, ma anche con un continuo scambio di battute contrassegnato da cultura, ironia e bonomia, rileggendo a modo loro alcuni episodi musicali, sia americani che italiani, del periodo pre- e postbellico: da Basin Street Blues a Moonlight Serenade, da un medley di canzoni italiane d'epoca (durante il fascismo il jazz in Italia era ufficialmente proibito, ma a Coscia sarebbe molto piaciuto che queste canzoni “travestite” diventassero degli standard jazzistici come meritavano), fino all'inno dei sommergibilisti che gli amici intonavano nelle serate goliardiche a casa Eco. In una sede più tradizionale, nell'enorme Teatro Dal Verme, era ambientato invece il concerto dedicato ad un album storico della canzone d'autore italiana, Anidride solforosa, musicato da Lucio Dalla su testi del poeta bolognese Roberto Roversi. Era il 1975, e la musica pop incontrava inevitabilmente l'impegno politico e sociale. Concerto bellissimo. Unico elemento scenico uno schermo con ciminiere disegnate che si colorano di rosso o di blu; Mario Tronco (ora direttore dell'Orchestra di Piazza Vittorio, già tra i componenti originari della Piccola Orchestra Avion Travel) arrangia i brani avvolgendoli in un sound che ha l'energia del presente e il fascino delle perimentazioni di Dalla; e Peppe Servillo resuscita i versi di Roversi facendogli omaggio della sua istrionica ma raffinata teatralità. Il sodalizio Dalla-Roversi dura lo spazio di tre album. Poi il rigore di Roversi comincia a stare stretto a Dalla che cerca una dimensioni più accessibile e popolare. Per cui mentre io spero in un bis con Nuvolari, presente nel successivo album Automobili, Servillo salta a Disperato Erotico Stomp, quasi un'irriverente rivendicazione di libertà e disimpegno del “nuovo” Lucio Dalla.
In bilico tra Avion Travel e Orchestra di piazza Vittorio, oltre a Servillo in scena e Tronco dietro, nel gruppo sul palco (tutti in tuta da metalmeccanico) ci sono Peppe D'Argenzio (sax), Marcello Tirelli (tastiere), Emanuele Bultrini (chitarra), Pino Pecorelli (basso), Davide Savarese (batteria) e Kyung Me Lee (i fan di Zoro la vedono ogni venerdì in tv nella Propaganda Orchestra). SQUID GAME (Ojing -eo-ge.im) di Hwan Dong-hyukSquid Game non mi è sembrata un'opera citazionista (ma sono pronto a ricredermi qualora qualcuno mi dimostrasse il contrario con argomenti fondati e non basati su semplici assonanze di trama o di genere – di As the Gods Will ho visto solo qualcosa su Youtube ma ad occhio mi sembra altro, come tono e intenzioni). Bisogna quindi procedere con cautela nel chiedersi se la serie sia caratterizzata da un fattore K, che non è quello che caratterizza le espressioni della nuova cultura coreana come il k-pop o il k-drama. Detto altrimenti e in termini diretti: c'è un fattore Kubrick che percorre sotterraneamente gli episodi della serie? So che molti ritengono Squid Game come un semplice prodotto di consumo, svilito (ma perché?) dall'essere prodotto da Netflix e dall'aver ottenuto un successo globale e planetario e inorridiranno di fronte a quello che sto per scrivere. Eppure a me è sembrato di cogliere alcuni indizi e mi piace parlarne e ricavarne qualche altro spunto di riflessione su Squid Game, che, non dimentichiamolo – e non è una cosa scontata per una serie tv – è un'opera d'autore, essendo stata interamente scritta e diretta da Hwang Dong-yuk. DIVISECominciamo dall'indizio più generico e meno probante, le divise. Il cinema di Kubrick è abitato e a volte fittamente popolato da personaggi in divisa o appartenenti all'ambiente bellico: da Spartacus a Barry Lyndon o Orizzonti di gloria, dalle uniformi de Il dottor Stranamore a quelle di Full Metal Jacket, fino alle tute da astronauta di 2001 o alle tenute indossate perfino dagli anarchici cultori dell'ultraviolenza di Arancia meccanica. Ebbene, anche Squid Game è abitato per almeno sette noni del suo svolgimento quasi esclusivamente da personaggi in uniforme. Come in ogni ambiente concentrazionario, l'uso della divisa accomuna tanto i carcerieri che i carcerati (entrambi volontari, si badi bene). Nell'uno e nell'altro caso, la divisa rappresenta un ruolo/funzione all'interno di un sistema fittamente regolato e codificato. Quello di Squid Game è un mondo di uniformi (nel senso proprio e figurato del termine), di identità ridotte a semplici numeri (come nei campi di concentramenti nazisti), ma splittato in due: quello comunitario ed egualitario (ma competitivo fino all'ultimo sangue) dei concorrenti e quello gerarchico ma impersonale dei sorveglianti. C'è forse un'eco dell'eterno incubo che percorre la penisola coreana in questa rappresentazione, quasi che nel regno dello Squid Game si fondessero in maniera implosiva l'egualitarismo spersonalizzante nordcoreano e la spietata competizione neocapitalistica sudcoreana (sono l'unico che quando sentiva la voce femminile che annunciava i giochi correva col pensiero a Ri Chun-hee, l'ineffabile speaker della tv di Stato nordcoreana?) MASCHEREPerfino il lead manager della situazione, Frontman, si distingue dagli altri solo per una variante dell'uniforme e della maschera. Solo i Vip, nel mondo dello Squid Game, sono al di sopra delle regole e dell'obbligo di divisa, eppure anch'essi celano quasi per vezzo la propria identità dietro preziose maschere scintillanti che li trasformano in una sorta di divinità insieme animalesche ed iperuranie. E qui entriamo a piedi pari in un territorio che sembra più esplicitamente kubrickiano. Le maschere dei Vip sembrano rimandare in modo abbastanza diretto a quelle che nascondono l'identità delle very important people che popolano l'orgia di Eyes Wide Shut. Qui come là, i ricchi godono di piaceri proibiti, immersi nel lusso e nella segretezza, mentre gli “altri” sono ridotti a “cavalli da corsa” da abbattere se non arrivano primi al traguardo, o come corpi da usare, da godere e da scartare alla prima trasgressione (allontanandoci in un'altra deriva associativa si può arrivare fino al punto di non ritorno dell'universo mortifero del Salò pasoliniano con i suoi Signori e la sua corte di sgherri aguzzini). SPAZIOUn altro aspetto è la passione per gli spazi geometrici e astratti che caratterizzavano i film di Kubrick, e sui quali esiste un'intera letteratura. Gli spazi di un'astronave, i corridoi di un albergo deserto, la superficie della luna sulla quale è comparso un monolite nero, una camerata con le brande dei soldati: tutti gli spazi fisici di Kubrick si trasformano in spazi mentali e a volte metafisici. Anche in Squid Game gli interni si fanno metaforici, scatole craniche, gabbie invisibili dove i potenti chiudono i bisognosi per farne oggetto di spettacolo, di gioco e di scempio; gli scenografi hanno dipinto sui muri falsi orizzonti, come in The Truman Show e trasformato il sole in cielo in uno sterile globo pieno di soldi insanguinati. C'è una trovata visiva (tra le molte altre) legata all'uso degli spazi che mi ha colpito in modo particolare. Il dormitorio dei concorrenti è affollato all'inizio di 456 letti, affastellati gli uni sugli altri in alti castelli. Nel finale, i letti sono rimasti tre in uno stanzone nudo e spoglio, a ricordare senza parole l'enormità dello sterminio compiuto. Come nei lager, dove contiamo un sopravvissuto ogni moltitudine, come una foresta d'uomini rasa al suolo e cancellata. Sui muri, una volta resi invisibili dall'affollamento delle brande, si vedono ora i disegni stilizzati delle prove da affrontare. I giochi letali, tenuti segreti fino all'ultimo, impedendo qualsiasi strategia preventiva di preparazione o di alleanza, erano sempre stati beffardamente lì, sotto gli occhi di non è stato capace di vederli. MUSICAE poi c'è Strauss. Se la colonna sonora è firmata da Jung Jae-li, che ha già prodotto quella di Parasite e la versione di Fly Me on the Moon eseguita dall'orchestrina meccanica al termine del penultimo episodio richiami più i teatrini di Davi Lynch che le opere di Kubrick, ormai è davvero impossibile ascoltare Il bel Danubio blu senza pensare all'uso geniale della musica che faceva Kubrick (per chi fosse interessato, ne avevo parlato in un breve articolo che trovate qui); se Kubrick lo associava alla danza siderale di un futuro già in atto, Squid Game lo usa a contrasto, contrapponendone l'elegante armonia al proprio universo di violenza e morte. I marines di Full Metal Jacket sono forzati e plagiati a credersi natural born killers; messi in riga come bambini, condotti al massacro (proprio e altrui) sulle note di una canzonetta dedicata a Topolino, l'eroe di tutti i bambini; e i detenuti di Squid Game sono indotti a scannarsi in ambienti e modi tutti ispirati all'infanzia, bimbi inermi condannati a massacrarsi a vicenda - in un lager travestito da kindergarten - dal signore delle mosche del capitalismo. UN VECCHIO CHE MUOREMa se ancora non vi ho convinto, entrate nella nona e ultima puntata, quando il protagonista si reca ad un appuntamento misterioso ed entra in un piano completamente vuoto dell'edificio. Nello spazio deserto c'è solo un letto, con un vecchio morente sdraiato sotto le lenzuola. Il punto di caduta verso la reminiscenza kubrickiana qui è vertiginoso, una citazione in purezza che segna però il punto massimo di vicinanza e nel medesimo tempo di distanza dal modello di Kubrick. Quando l'astronauta Bowman in 2001 Odissea nello spazio, al termine di un viaggio oltre i confini dell'universo approda in un'abbagliante stanza rococò, dove trova un vecchio in fin di vita nel letto, è se stesso che incontra. E' l'Uomo vecchio che muore, prima che nasca l'Uomo nuovo. Quando Seong Gi-hun invece trova il vecchio nel letto, è per incontrare l'Altro. I due sono agli antipodi (Seong è l'ultimo giocatore, il n. 456; il vecchio Oh Il-nam è il primo, il n. 1 – il suo stesso nome è quello che spesso viene attribuito in Corea ai primogeniti), sia sulla scala sociale che nella qualità morale: Seong Gi-hun è l'uomo debole, ma intrinsecamente buono; Oh Il-nam è l'uomo reso onnipotente dal denaro, ma che ha la fantasia e la crudeltà di poter concepire la morte di 455 esseri umani per puro diletto e come rimedio alla noia dell'esistenza e della ricchezza.
Se Bowman deve diventare vecchio e morire per far nascere l'Uomo del futuro, Alex di Arancia meccanica deve diventare buono a forza per poi ritrovare la propria incoercibile natura cattiva. Ma Squid Game non si spinge a tanto; quella che appare come la citazione più esplicita svilisce la morale (negativa) di Kubrick e la conduce ad un finale che da una parte suscita un barlume di speranza nella natura umana, ma che, con una parola che detesto, si potrebbe definire buonista, tra buone azioni e musiche improvvisamente retoriche. Quando Seong Gi-hun si reca dal parrucchiere dopo l'incontro fatale con il vecchio, pensavo di vederlo uscire con i capelli rasati come lui, pronto a prenderne il posto nella cabina di regia dello Squid Game, contagiato dal male in cui è stato immerso e costretto a dibattersi. Non è così; semplicemente si colora i capelli con un'improbabile tinta rossa, perde un aereo, si prepara forse a combattere lo Squid Game in una futura prossima stagione. Anche se non si può mai dire, e la scrittura di Hwang Dong-yuk ci ha insegnato ad aspettarci molte sorprese (il web già pullula di ipotesi e previsioni ardite). Non c'è nulla di più alieno del concetto di sequel per il cinema di Kubrick, ogni film del quale era un'opera unica e irripetibile, che si inseriva ogni volta in un genere differente per riscriverlo e portarlo al suo apice. Ma i tempi sono cambiati, ed ecco, se Squid Game tornerà un giorno, io sarò comunque lì ad attenderlo. Su Squid Game leggi anche "Il gioco della paura" SQUID GAME di Hwang Dong-hyukIo non ho ancora finito di vedere le nove puntate di Squid Game. Eppure credo di aver capito di cosa parla (posso dire di un esperto in materia). Squid Game parla della paura, la mette in scena, la tematizza, ne fa il sentimento dominante nei suoi personaggi, la istilla in chi guarda, spingendolo a riconoscerne le sue molteplici varianti. Tutto nel corso degli episodi concorre a parlare della paura. La situazione base del film (ci si cimenta in un gioco in cui che perde muore), il meccanismo che sottende alle prove da affrontare (i partecipanti non conoscono in anticipo le regole del gioco dal quale dipenderà la loro vita), la struttura della progressione eliminatoria (tutti dovranno lottare contro tutti), l'impersonalità della dominazione cui sono soggetti i partecipanti (tutti i loro sorveglianti vestono maschere impenetrabili). Ho provato a fare un catalogo delle paure, che ognuno può aggiornare o modificare a proprio piacimento. Squid Game mette in scena, a volte con una disarmante letteralità: la paura di non riuscire ad essere d'aiuto ai propri cari la paura di perder le persone che ci sono vicine la paura dell'ignoto la paura del futuro la paura di non sapere cosa ci aspetta la paura che la nostra vita vada alla deriva la paura che le cose non si possano più risolvere la paura di non saper valutare cosa è meglio per noi la paura di vivere in un mondo di cui non si comprendono le regole la paura di essere in balia di forze che ci trascendono la paura di dover competere con gli altri la paura di mettersi in gioco la paura di perdere la paura del fallimento la paura di non avere altra scelta la paura di sprecare la propria vita la paura di non riuscire a fidarsi la paura di non riuscire a riconoscere gli amici la paura di affezionarsi troppo la paura che qualcuno voglia farci del male la paura di essere traditi la paura di essere capaci di tradire, di mentire, di ingannare la paura di scoprirsi cattivi la paura di non essere cattivi abbastanza la paura di non essere abbastanza forti la paura di non essere abbastanza intelligenti la paura di non essere abbastanza furbi la paura di non essere abbastanza privi di scrupoli la paura di essere visti la paura di non avere tempo abbastanza la paura di fare un passo falso la paura di morire la paura di uccidere la paura degli altri la paura di se stessi Tranne forse la paura di ammalarsi e di morire (ma il lasso di tempo è troppo breve, e all'anziano n. 001 tocca dare corpo ad entrambe le possibilità) e le paure legate al sentimento amoroso e alla sessualità, credo che tutte le paure fondamentali che possono affliggere una persona siano rappresentate in uno spazio scenico e narrativo che resta eppure estremamente stilizzato e artificiale. Il piacere della paura (ma meglio sarebbe dire il piacere di provare paura potendola controllare, spegnendo un televisore, ad esempio, o chiudendo un libro, o rifugiandosi nella familiarità del proprio letto) è profondamente intimo nell'animo umano, presente fin nei miti degli antichi, nei racconti della tradizione folklorica orale, fino all'esplosione nella letteratura moderna e poi nel cinema. Ma Squid Game porta il discorso della paura su un altro piano, trascendendo dal gusto e dalla tecnica dello spaventoso, dell'orrendo, del raccapricciante, portandolo ad un livello quasi teorico; senza tema di mostrare la violenza e l'orrore, ma senza insistervi in modo morboso e compiaciuto. Nel catalogo della paura di Squid Game si potrebbero addirittura individuare delle sottosezioni o delle stratificazioni. C'è ad esempio la paura politica, del dominio e dell'assoggettamento, di vivere e recitare una parte nel teatro della crudeltà del capitalismo, di un mondo che ammette ricchezza estrema e povertà estrema, di una perversa società dello spettacolo che tratta uomini e donne come merce o come trastullo, pervasa da un disprezzo dell'umanità e delle sue debolezze che ha portato nella Storia al concepimento di enormi ed efficientissime strutture per lo sterminio di massa. C'è la paura sociale, quella dove l'inferno sono gli altri, dove gli individui sono inseriti in un sistema che li mette gli uni contro gli altri (e di competitività e lotta per la sopravvivenza le società asiatiche ne sanno sicuramente almeno tanto quanto noi); dove i rapporti sociali sono pieni di insidie e di trappole, disseminate su un terreno ignoto; E ci sono le paure individuali, suscitate dal dovere di perseguire la nostra sopravvivenza e il nostro benessere, messe alla prova dalla necessità di misurare le proprie capacità e la propria interiorità, e fondate sull'incubo di conoscere se stessi. Metafora politica, sociale, esistenziale di Squid Game si fondono in una narrazione sostanzialmente lineare (anche se non mancano le sottostorie a movimentare e complicare l'intreccio quel tanto che basta), quasi meccanica nella sua progressione implacabile e inesorabile. I suoi elementi non sono nuovi, e di giochi letali e di sopravvivenza, di scommesse sulla vita e sulla morte, di spettacoli allestiti per gli amanti della sofferenza ne abbiamo visti molti e ne potremmo stilare interi elenchi. Ma Squid Game, di nuovo, non inventa forse nulla, ma lo ricrea ex-novo; non fa citazioni, ma inventa un universo che si impone per una la sua spietata coerenza e per una sua imperiosa dimensione visiva. Chi l'ha visto ricorderà probabilmente molto a lungo le sue labirintiche scalinate alla Escher color caramello; le sue spaventose e zuccherose stanze dei giochi; le sue giostre infantili e macabre; le tute scarlatte e le maschere nere e le divise da detenuti dai quali le macchie di sangue fratricida non scompariranno mai più; i recessi tenebrosi e la dimora sibaritica da dove si può assistere allo spettacolo della lotta, della sottomissione, del fallimento. Il suo spazio concentrazionario è un incrocio tra un lager (dove i deportati – aggiungendo orrore ad orrore – sono lì di propria volontà, a desiderare e a cooperare, se non a provocare direttamente, la morte dei propri compagni di sventura) e un kindergarten. I concorrenti sono come bambini in un sinistro giardino di infanzia eterna, incapaci di interferire col mondo dei grandi, perennemente soggetti a chi ha più soldi e più potere di loro. La stilizzazione disegna un mondo dove le differenze sono ridotte al minimo - i concorrenti-detenuti vestiti tutti uguali e i guardiani vestiti tutti uguali, gli uni e gli altri ridotti a numeri - dove la realtà è ridotta a forme (quadrati, cerchi, triangoli) e oggetti (biglie, funi, lastre di vetro trasparente) minimali, essenziali. Si arriva ad abolire il tempo e lo spazio esterno; nella dimensione di Squid Game non c'è giorno e notte, ma solo la routine gioco-pasti-coprifuoco; non c'è cielo, non c'è aria, non c'è altrove. Dall'alto non splende il sole, ma pende un grosso globo di plastica trasparente pieno di soldi generati dal sangue degli sconfitti (i nemici, gli avversari, gli amici, i ritrovati gganbu, quelli a cui si è imparato rapidamente a voler bene facendo fronte comune alle avversità), a ricordare quali sono le forze che governano il mondo e la società. La fiducia nella forza della propria scrittura e nell'inarrestabilità del proprio magnetico flusso narrativo si vede anche nella strutturazione degli episodi: se il quarto finisce proprio al culmine di un climax che aggancia al successivo (in maniera anche un po' scontata: è chiaro quale squadra dovrà uscire vincitrice dal gioco, pena l'azzeramento dell'intera narrazione), a stupire è il secondo; dopo un primo episodio che ci trascina rapidamente in media res, l'episodio seguente segna un'apparente stagnazione, in cui l'elemento fantastico sparisce, non si gioca a nessun gioco, tutto torna ad una (insopportabile) normalità. Quello che poteva segnare una pericolosa battuta d'arresto subito dopo la linea di partenza e ingenerare una caduta dell'interesse degli spettatori, è invece un contributo fondamentale alla “morale” dell'opera. La sceneggiatura disegna molto efficacemente i caratteri dei protagoniste, pur nella tipizzazione, e le dinamiche psicologiche e relazionali che si evolvono e si distorcono all'interno di un meccanismo di gioco crudele come un'arancia ad orologeria. Io ho ancora qualche puntata da vedere. E, ovviamente, ho paura di vederle. Su Squid Game leggi anche "Il fattore K": Squid Game vs Stanley Kubick BREATH GHOSTS BLIND di Maurizio Cattelan |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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