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BLOG NOTES

DUE GRANDI PER TRE GRAZIE

10/25/2019

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CANOVA - THORVALDSEN - La nascita della scultura moderna
Gallerie d'Italia, piazza della Scala, Milano
​25 ottobre 2019 - 15 marzo 2020

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Il primo colpo d'occhio è folgorante: nel grande e bellissimo salone cui si accede alle Gallerie d'Italia, in una suggestiva penombra, spiccano due gruppi di tre donne nude candide e abbracciate, circondati da un'ellissi di altre bianche figure danzanti. Gallerie d'Italia offre un altro spaccato dell'arte italiana tra Sette e Ottocento: l'impianto è simile a quello della mostra che un paio d'anni fa mise a confronto Canaletto e il nipote Bellotto, due vedutisti che hanno legato la loro fama soprattutto a Venezia, l'uno discepolo dell'altro, che spesso trattarono i medesimi soggetti con lo stesso stile, al punto da rendere quasi indistinguibili le opere dell'uno da quelle dell'altro. Stavolta il confronto diretto riguarda due scultori, massimi rappresentanti del neoclassicismo, che a Roma duellarono l'uno con l'altro, affrontando di frequente gli stessi soggetti, spesso prelevati dalla mitologia o dal pantheon delle divinità greco-latine. Protagonisti assoluti della mostra sono infatti Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, originari il primo del Veneto, il secondo della Danimarca: provenendo da Venezia l'uno e da Copenaghen l'altro, i due incrociano le proprie strade, le proprie folgoranti carriere, la loro arte e la loro industria a Roma, tappa obbligatoria dei grand tour dei giovani intellettuali europei dell'epoca. Con un'operazione per certi versi analoga a quella compiuta da Palladio due secoli prima, la scultura canoviana intuisce, asseconda e dà impulso allo spirito dei tempi, ridonando al mondo moderno, che presto conoscerà l'illuminismo e il razionalismo, ma anche la Rivoluzione e gli sconvolgimenti del bonapartismo, il mito limpido e confortante di un'antichità ideale e idealizzata. Canova nasce 13 anni prima di Thorvaldsen (1757-1770), arriva a Roma 18 anni prima del danese (1779-1797), muore 22 anni prima (1822-1844). A cinque anni d'età viene affidato al nonno scalpellino e scultore, che gli insegna a lavorare la pietra. Recalcitrante davanti alle teorie, impara dall'esperienza e dalla conoscenza delle opere degli antichi, arrivando a rivoluzionare le tecniche scultoree del tempo, nonché a rifondare l'iconografia della sua epoca. Tra arte, artigianato e industria, Canova giunse ad operare in grandi capannoni, con una moltitudine di operai ed artigiani ai suoi ordini, e con strumenti innovativi. I calchi in gesso delle sculture che verranno poi tradotte in marmo, generati a loro volta da matrici, venivano punteggiati da numerosi chiodi che fissavano con precisione plastica e geometrica misure e proporzioni della figura da realizzare: una tecnica che potremmo definire di standing capture suggestivamente analoga a quella usata nel cinema della cgi, la motion capture, che attraverso sensori distribuiti sul corpo dell'attore permette di ricostruirne digitalmente figura e movimenti.
Thorvaldsen ne seguì a breve distanza le orme artistiche, tecniche e tematiche. I due rivaleggiarono in fama e bravura, operando nel campo della ritrattistica e dell'arte funeraria, e sbizzarrendosi nel ripercorrere e reinventare le figure di un mondo antico e disponibile, che permise ai due di resuscitare un universo candido (le sculture dell'antichità in realtà erano dipinte, ma sono arrivate all'epoca moderna spogliate dai colori e restituite ad un'essenzialità monocroma che ne esalta la vocazione apollinea), di uomini e donne dai corpi perfetti e nudi, dove l'orgia drammatica e movimentata della scultura barocca si acquieta in una nuova dimensione di cristallina bellezza.
Le tre grazie, Ebe, Venere, Apollo, Amore e Psiche, i pastori dell'Arcadia, ma anche la neodivinità di Napoleone Bonaparte: le figure si sdoppiano nella mostra, che, attingendo a prestiti dall'Ermitage di San Pietroburgo, dalla gipsoteca Thorvaldsen di Copenaghen e da altre collezioni pubbliche e private, mette a diretto confronto le versioni di Canova e di Thoraldsen. Le figure dell'italiano sono in genere più mosse, più morbide, più vive, più consapevolmente carnali pur sotto la sontuosa e smagliante levigatezza delle superfici (per osservare la differenza si possono anche osservare i capelli dei personaggi, più mossi e fluidi in Canova, più corposi e rigidi quelli del danese). E' ipnotico e affascinante, specie se visto da dietro, il gioco sinuoso delle braccia, delle mani e delle dita delle tre grazie di Canova. Come è delicato il trattamento del tema di Amore e Psiche, con due giovani allacciati e le dita di lei a trattenere delicatamente le ali di una grande farfalla, mentre in Thorvaldsen i due giovani sono intenti a scrutare dentro una ciotola (non fosse tonda ci immagineremmo sui loro volti il bagliore del display di uno smartphone). Le pose del danese, pur realizzate con grande maestria, sono in generale più statiche, il movimento si solidifica e si bilancia, mentre la rinuncia agli ultimi veli lascia i corpi completamente e definitivamente nudi, e privati anche del gioco grafico e ondoso dei panneggi che ancora velano qualche particolare del corpo nelle statue del Canova. L'allestimento della mostra, nei bellissimi spazi del palazzo della Banca Commerciale Italiana dove sono esposte figure a tutto tondo, basso e altorilievi, dipinti e medaglie, è impeccabile, con luci soffuse e superficie specchianti scure che esaltano la luminosa presenza iconica delle figure scolpite, senza privarle del gioco delle ombre che ne sottolinea la plastica tridimensionalità. I pannelli esplicativi guidano alla lettura della mostra (curata da Fernando Mazzocca e Stefano Grandesso) attraverso un percorso che privilegia gli accostamenti tematici, e in cui le opere di colleghi e seguaci e ancor più i numerosissimi ritratti, sia scultorei che pittorici, dedicati ai due artisti testimonia direttamente della gloria e del prestigio di cui godettero nella società del loro tempo. Molto interessante e da non perdere poi il video presentato nell'ultima sala del percorso espositivo, in cui vengono dettagliatamente spiegate le tecniche e le procedure di lavorazione seguite da Canova, una sculptorstar che alla fine riservava a sé solo la progettualità e i ritocchi finali ad opere che ancora oggi ci appaiono sublimi nella loro classica ricerca di perfezione.
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TRA MARY POPPINS E WOODSTOCK: IL ROSETO DELLE DELIZIE E DELLE MERAVIGLIE

5/25/2019

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NOTTURNI AL ROSETO, Villa Reale Monza, 24 e 25 maggio 2019
​DAL MARMO AL MISSILE, Orangerie Villa Reale di Monza, 23 maggio-13 ottobre 2019

Chi poteva mettere insieme Mary Poppins e Woodstock? Nessuno, penso, tranne che la mente visionaria di Saul Beretta e della sua Musicamorfosi, sempre impegnati a cercare abbinamenti arditi e bizzarri, a cercare il cortocircuito che può nascere anche dall'accostamento apparentemente più incongruo.
I due temi, o meglio sarebbe dire le due suggestioni, sono i fili conduttori dei Notturni al roseto edizione 2019: immaginate il Roseto della Villa Reale di Monza, nel tripudio della sua fioritura reinventato dall'allestimento delle luci, dove siete circondati da una miriade di cespugli sui quali le rose assumono tutte le forme, le dimensioni e i colori che la natura e l'inventiva e la perizia dell'uomo ha loro concesso; immaginate lo sfondo sontuoso della settecentesca Villa Reale di Monza, reso ancora più suggestivo da una sapiente illuminazione; immaginate infine di aggirarvi di notte per i vialetti, tra fiori e specchi d'acqua, spostandovi di postazione postazione in una sorta di giardino delle meraviglie (Into the Wonderland si sente come a casa propria...).
Non c'è obbligo di coerenza, neppure cronologica (Mary Poppins è del '64, il festival di Woodstock si tenne nel '69). La fantasia è al potere; incontriamo una banda degli ottoni composta da spazzacamini neri di vestiti e di fuliggine, che accompagnano tre Mary Poppins immacolate armate di cappellino, valigia e ombrellini. Poi si sente oltre a quello delle rose un profumo musicale d'Oriente, ed è Sazed Ul Alam che rende omaggio col suo sitar al santone Sri Swami Satchidananda che aprì il festival di Woodstock il 15 agosto 1969 con parole di amore e speranza. Quindi ci si imbatte nel Border Trio, dove Giovanni Falzone rilegge energicamente Woodstock come gli pare, con la sua tromba e gli occhiali scuri (anche metaforici) di Miles Davis. In un angolo è parcheggiato un furgoncino Volkswagen vintage, già trasformato in una gelateria ma stasera, ancora, in un palcoscenico tascabile dove sono inscatolati Nicoletta Tiberini con ukulele e Valerio Scrignoli alla chitarra, a raccontarci in una dimensione intimistica il folk-rock di quegli anni. Nello spazio performance principale infine è saldamente installato l'Hills Side Power Trio (nel sito di Notturni ribattezzato con lapsus freudiano, forse per le origine partenopee del gruppo, Pover): i fratelli Giuseppe e Gennaro Scarpato con Giorgio Santini rievocano in purezza chitarra-basso-batteria, senza effetti, senza basi, senza elettronica, i fantasmi di Woodstock: di chi c'era e di chi non c'era, Cocker e Clapton, Hendrix e Santana, i Beatles e The Band. Rock dell'età dell'oro, energia, passione e perizia tecnica; ma se si alzano appena gli occhi sopra le loro teste, si vede un'eterea Mary Poppins in bianco volteggiare nell'aria, affiancata da spazzacamini nero fumo, mentre altre tre tate in abiti candidi poco più in là eseguono coreografie misteriose, siedono a terra o cadono sull'erba, come in un quadro impressionistico-psichedelico o in Pic-nic a Hanging Rock.
Non finisce qui: ci si può infilare in testa cuffie luminose e wireless e fare una visita visionaria alla Villa Reale, oppure visitare la mostra nell'Orangerie della Villa. Il titolo, “dal marmo al missile”, denuncia anche qui la difficoltà di trovare un unico filo conduttore. Si parlerebbe del rapporto tra tradizione e innovazione, ma è difficile trovare una ragion d'essere a una mostra che, annoverando anche opere interessanti, provenienti dalle raccolte della Fondazione Cariplo e da collezioni locali, accosta sarcofaghi etruschi e macchine da corsa, ritratti di ottocentesco gusto borghese e l'illusionistico “Uomo che guarda l'orologio” di Pistoletto, vedute della spiaggia di Alassio e tagli di Fontana su una lastra di rame, un circolo di pietre di Long e gli impacchettamenti di Christo.
Si torna fuori, si gira ancora affascinati nel giardino delle delizie e delle meraviglie, aspettando la mezzanotte, graziati dal cielo nero e dai fulmini forieri di tempesta che gravavano sul parco all'apertura dei cancelli.
Si esce nel mondo reale, già con la nostalgia e con la voglia di essere ancora sorpresi, l'anno prossimo, da cosa inventerà la prossima volta Saul Beretta. Altre musicamorfosi: più che contaminazioni, le sue iniziative assomigliano a delle vere trasformazioni ovidiane, dove la musica cambia e si cambia, si ribalta, si reinventa, in un continuo spiazzante e ludico trasformismo.

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LA FORMA E LA DISSIPAZIONE

3/11/2019

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GABRIELE POLI, Personale.
​Centro culturale Valmaggi, via dei Partigiani 84, Sesto San Giovanni.
Fino al 17 marzo, orari 16-19, domenica anche 10-12.

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Per Gabriele Poli, milanese, quello a Sesto San Giovanni è un ritorno: per alcuni anni infatti era stato legato alla città grazie alla sua opera di insegnamento presso la Civica scuola d'arte “Federico Faruffini”, e nella città ha già esposto, anche nello stesso centro culturale “Sergio Valmaggi” che oggi ospita la sua personale.
Colore, forma, energia, materia: gli elementi che sono i componenti di gran parte della pittura che conosciamo, nei quadri di Poli hanno ciascuno una propria presenza e un proprio modo di imporsi a chi guarda.
Il colore si stende a falde, si spezza e si raggruma in nodi di materia dove al pigmento si uniscono e si mescolano materiali eterogenei, escrescenze che emergono dalla superficie e premono verso l'esterno; le campiture di colore a loro volta sono screziate da quelli che sembrano dei lampi di energia che ne vivificano la tessitura, mentre qua e là emerge dal fondo della tela l'evocazione di qualcosa che prende forma e chiede di essere riconosciuto.
La tensione verso una forma sembra in effetti essere la contraddizione irrisolta, ma feconda, che anima la pittura di Poli, e che si riflette in quella tra l'attrazione per l'informale e la nostalgia per la forma che spinge l'artista a confrontarsi con la scultura antica e con la pittura classica, fino ad arrivare alle esperienze figurative del '900.
Da una parte i titoli richiamano paesaggi irriconoscibili, dove la “campagna” sembra differenziarsi dalle “aree dismesse” che le stanno a fianco solo per le differenze tonali. Sorprende pertanto l'emergere nella percezione delle figure di ciclisti che corrono le “tappe cromatiche”, esplorate quadro dopo quadro dalle diverse possibili angolazioni, figure di tensione e di energia che percorrono e infrangono le campiture di colore con un raffreddato impeto futurista.
Una competizione quasi agonistica con la pittura dinamica che trova un contraltare nel confronto con la pittura statica, scolpita in una luce eterna, da Caravaggio. Ecco allora delinearsi il doppio arco bianco di un Narciso che emerge dal buio per specchiarsi in un lago d'ombra, screziato di terra e di ocra, non frequenti in una pittura che sembra altrove ignorare le tenebre e l'oscurità caravaggesche; o il triangolo abbacinante del tronco di un Davide che regge la maschera decapitata di Golia sullo sfondo di un gioco di rombi violacei che secano un fondo di puro nero.
La ricerca di Poli si spinge anche più indietro, in un'antichità classica di aspirazione monumentale che già però mette in crisi l'apollinea staticità classica con l'impeto dinamico e dirompente delle forme dionisiache, dove Laocoonte e i suoi figli, nello stupefacente gruppo marmoreo arrivato sino a noi dalla cultura ellenistica, si dibattono nelle spire mortali dei serpenti.
Da Agesandro a Caravaggio, dal Gericault di un'instabile zattera di naufraghi fino a Boccioni, Dottori, Depero e ai tanti altri futuristi che amarono dipingere la velocità di ciclisti e motociclisti, attraverso i suoi d'aprés Poli ripercorre la storia della figurazione seguendo il filo della dialettica costante tra la luce e la sua assenza, tra la potenza del colore (in un percorso che da Caravaggio conduce anche - sempre cercando dei padri nobili - in prossimità di un Bacon privo di tragedia) e la sua negazione (le tinte smorzate e rubate all'oscurità del Merisi, il colore perduto della statuaria classica), tra l'aspirazione alla forma conclusa e la dissipazione energetica della materia.


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L'ARTE DEL RIFUGIO

2/12/2019

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IGLOOS di Mario Merz
fino al 24 febbraio al Pirelli Hangar Bicocca, via Chiese 2, Milano

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Nel visitare la mostra Igloos di Mario Merz, in una piovosa domenica di febbraio, al quarto mese di esposizione, abbiamo trovato un discreto numero di visitatori che si aggiravano tra le capanne semicilindriche appoggiate sui pavimenti di cemento dell'enorme navata dell'hangar Bicocca.
Condizioni metereologiche a parte, mi sono chiesto il perché del successo di una mostra che non offre al visitatore l'immediata godibilità di altre esposizioni.
Indubbiamente l'ingresso gratuito (se non si rimane pienamente soddisfatti per lo meno non bisogna rimpiangere l'esborso per il biglietto) e l'autorevolezza dell'Hangar Bicocca come contenitore-diffusore dell'arte contemporanea sono due fattori determinanti, ma validi per qualsiasi esposizione all'interno di questo grande spazio posto ai confini con Sesto San Giovanni.
Più nello specifico, forse giocano a favore di Merz il rappresentare un'arte contemporanea già storicizzata (le opere esposte vanno dal 1968 all'anno della morte dell'artista, il 2003), già certificata dal sistema museale ed espositivo delle grandi istituzioni artistiche internazionali e già predigerito dal sistema di ricezione del pubblico dell'arte contemporanea; e nello stesso tempo (come d'altra parte molte mostre dell'Hangar) il proporre un'arte concettuale ma materica, tangibile e, ancora meglio, fotografabile (e quindi spendibile sui profili dei social network...).
Che cosa noi visitatori profani cogliamo e portiamo con noi, oltre a qualche ermetica foto, è difficile a dirsi. Proverò qui ad azzardare qualche riflessione a caldo.

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La mostra espone (per la prima volta in numero così cospicuo), una trentina di igloo, delle capanne semisferiche disseminate lungo l'ampia navata dell'Hangar.
Quella di Merz è un'operazione artistica semplicissima all'apparenza (Merz è annoverato tra gli esponenti dell'Arte Povera), ma complessa nella sua composizione, in cui entrano pittura, scultura, architettura, poesia, scienza matematica. Se la prima è presente solo come equivalente segnico, o come arricchimento, dei materiali di copertura - ma che portano ad un altro livello l'esplicitazione dell'intervento umano nella costruzione della struttura -, a dominare sono soprattutto la seconda e la terza, per la loro natura, a differenza delle altre, di arti tridimensionali.
E' evidente infatti, immediatamente e a chiunque, che gli igloo dialogano con lo spazio circostante (e, in un allestimento come quello dell'Hangar, tra loro, ciascuna autonoma ma componente nell'insieme di una specie di disabitato villaggio arcaico). L'elemento principale che si percepisce guardando le opere è quello della tensione tra esterno e interno, tra dentro e fuori. Il concetto principale che gli igloo esprimono è quello del riparo, come prototipo e archetipo di qualsiasi costruzione (e condizione) umana destinata a fornire rifugio, alloggio, abitazione. E se il rifugio (dove sono compresenti materiali antichi e naturali - come l'argilla, la pietra, il legno - e moderni e lavorati - come le lastre di vetro, i tondini di ferro, le reti metalliche, i sacchetti di plastica, i morsetti) è il significante, il significato che per primo emerge è quello della precarietà.
Le lastre di vetro spezzate o quelle irregolari d'ardesia e di marmo, formano coperture discontinue, frammentarie, che non garantiscono l'inviolabilità degli interni, penetrabili dalla luce e dagli sguardi così come permeabili da eventuali agenti esterni. Sono spazi provvisori, già abbandonati (luoghi senza strada, come titola un lavoro del '94, solo raramente abitati dall'artista, come Is space bent or straight?, del 1973, oggi occupato da una macchina da scrivere con un foglio ancora inserito), come il gigantesco nido di fascine di legno accostato all'igloo di Architettura fondata dal tempo, architettura sfondata dal tempo (1981): abitazione fragile (almeno all'apparenza), effimera e temporanea, che dell'igloo rappresenta quasi un prototipo naturale e rovesciato, con la sua concavità contrapposta alla convessità dell'igloo.
Ma fin dalle prime opere composte nel '68 Merz fa dialogare i propri rifugi non solo con la natura, ma con un esterno che non è solo ambiente ma è anche società e storia. I tubi al neon, materiale contemporaneo per eccellenza, compongono scritte che si appoggiano all'esterno della cupola dell'igloo, rivolta verso lo spettatore. Da una frase di un generale vietnamita negli anni della guerra del Vietnam (Igloo di Giap, 1968), a un accenno alla riflessione sull'oggettualità e sul consumismo negli anni della contestazione (Object cache-toi, stesso anno), si passa poi alla dimensione letteraria e poetica, con le citazioni in alcune opere di versi di Ezra Pound, che sposano in certo modo le strutture celibi delle capanne, mentre blocchi di vecchi giornali impacchettati alludono ancora ad un sedimento linguistico, stavolta inerte, che ha un valore plastico quasi archeologico, ma ormai illeggibile.
Alla diversità dei materiali e delle tecniche si lega la dialettica tra le linee e le superfici, che entrano anch'esse in relazioni complesse, dove giocano il concavo e il convesso, il dritto e il curvo, i vuoti e i pieni della reticolarità, il chiaro e lo scuro, la campitura della pittura e la grafia della scrittura corsiva, la regolarità e l'irregolarità, il liscio e lo scabro, il pulviscolare e il ramificato, le masse e le superfici, e così via.

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Ma se la materia è inerte, si può dire che invece il ruolo vivificatore, di rottura, sia affidato soprattutto all'uso del neon, che, oltre che nelle scritte di cui si è detto, torna ancora (a iniziare dai primi anni 70, per ricorrere poi costantemente fino alle ultime opere), per comporre sequenze numeriche di Fibonacci (successioni di numeri in cui il terzo di ogni segmento è sempre dato dalla somma dei due precedenti). E' un elemento in contraddizione con l'aspirazione (quasi sempre frustrata) alla chiusura e alla con-clusione degli igloo (già significativamente perforati e penetrati a volte da lance e tubi luminosi), e che allude invece ad una crescita costante e potenzialmente infinita, la cui natura astratta si riflette nella lettura dei fenomeni naturali e organici. La progressione implacabile e inarrestabile dei numeri di Fibonacci (come in forma più umile ma materica lo sgocciolio continuo in La goccia d'acqua, 1987) sembra quasi farsi scherno delle strutture pericolanti degli igloo, che si trovano a essere contemporaneamente simboli di costruzione e di edificazione, testimoni muti dell'attività dell'homo faber, e nello stesso tempo emblemi di disgregazione e di decadenza, di incompiutezza e di fallacità dell'umano operare (sarebbe stato interessante far dialogare gli igloo con le torri celesti di Kiefer, che si elevano eterne e precarie, sghembe e significanti, nella navata accanto).

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Isolata in quella che rappresenta una sorta di abside terminale della navata dell'edificio industriale, sullo sfondo di una vertiginosa scala a chiocciola che potrebbe a buon diritto interagire concettualmente con lei, la grande opera Senza titolo del 1987 rappresenta in certo senso la summa di molti degli elementi fin qui individuati, portando a compimento e nello stesso tempo a nuovo scompiglio molte delle contraddizioni presenti nelle opere di Merz: l'igloo si raddoppia in un gioco dialettico di interni ed esterni; le fascine di legno allineate verticalmente nel centro sono in stridente contraddizione con le curvature delle nervature in ferro; la natura (l'opera era stata oltretutto concepita per essere esposta all'aperto, nei giardini della Fondazione Serralves di Porto) pare trionfare con la presenza alla sommità della grande cupola di un maestoso cervo impagliato, la cui iconica vitalità è radicalmente negata dalla sua mortale fissità; la progressione di Fibonacci è citata, ma con una sola sua componente (il numero 10946), che sembra porre un termine funereo allo stesso concetto di flusso infinito e di crescita continua.
Un'opera dunque quasi testamentaria, non ultima nella produzione dell'artista (datata 1998), ma giustamente posta a conclusione e a suggello del percorso espositivo.

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PARIGI ERA UN TEATRO, DOVE SI PAGAVA IL BIGLIETTO CON IL PROPRIO TEMPO PERSO

7/12/2018

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ROBERT DOISNEAU - PESCATORE D'IMMAGINI
Palazzo delle Paure, Lecco, fino al 30 settembre

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Vale la pena di andare a vedere una mostra di Robert Doisneau? Le sue immagini sono talmente famose, pubblicate e ripubblicate, esposte in talmente tante occasioni, che sembra quasi inutile.
Ma andare a riguardare (o a scoprire!) le foto di Doisneau c'è sempre da imparare o da ripassare una lezione di vita e di fotografia, oltre che a passare un momento di piacere e di buonumeore.
Doisneau (di cui avevo già scritto in Hollybloog in occasione dell'uscita del documentario Robert Doisneau – La lente delle meraviglie) è un fotografo ribelle, che si fa licenziare come ritardatario dalle Renault dove ha trovato impiego, che fotografa con insofferenza i partigiani francesi salvo poi ritrovarsi tra le mani una documentazione preziosissima della liberazione di Parigi, insofferente della fotografia di moda e in posa, innamorato delle periferie e della gente comune.
Nelle sue foto non troverete la ricerca del sublime, dell'armonia, del bello, e neppure quella della composizione geometrica e perfetta; troverete forse di più: la magia di un gesto, di un'espressione effimera, di un'emozione. Doisneau è un vagabondo, un flâneur della fotografia, a zonzo nella sua Parigi, come uno studente che ha bigiato la scuola (ovvero il lavoro, o la sedentarietà delle persone serie, o la prigione degli impegni e delle responsabilità) con a disposizione, a quanto pare, tutto il tempo del mondo. Proprio il tempo sembra essere il suo strumento di lavoro principale, al pari delle macchine fotografiche di cui si serve (nel corso del tempo alterna la Leica, la Rolleiflex, la Hasselblad), e della sua curiosità verso l'umanità.
Come anche per Cartier-Bresson, Parigi è il teatro (sono parole sue: “Parigi è un teatro dove si paga il biglietto con il proprio tempo perso), il palcoscenico su cui si muove continuamente un'umanità alla ricerca della felicità, e Doisneau ne è lo spettatore paziente, in attesa di cogliere quel momento magico e prezioso in cui si manifesta. Un sorriso, un gesto, un bacio, uno sguardo obliquo, uno scherzo, un movimento, una smorfia: attraverso quel niente fugace che anima le sue foto Doisneau è capace di costruire un racconto, una storia, il bozzetto di un carattere, di un personaggio, di una relazione tra le persone.
Una volta è la torsione del collo dell'alunno seduto al banco nell'ultima fila della classe, per cercare di sbirciare l'orologio sulla parete alle sue spalle, mentre il suo compagno di banco fissa davanti a sé uno sguardo sbarrato e allucinato, nel corso di una mattinata di scuola che sembra non dovere finire mai; un'altra volta è la coppia matura davanti alla vetrina di un rigattiere, colta dall'interno: lo sguardo di lui obliquo a sbignare furtivo e compiaciuto il sedere di una donna nuda che si offre maliziosamente da un quadro esposto in vetrina, lei che ignara parla sussiegosa di chissà-che-cosa, mentre lui palesemente non l'ascolta perso nella sua deliziosa, innocente e peccaminosa rêverie erotica...
Il mondo di Doisneau è un mondo sostanzialmente anarchico, dove ognuno vive la sua vita (bambini, artisti da strada, lavoratori, vagabondi, amanti...) e dove la società e le sue istituzioni rimangono fuori campo, o se vi entrano, sono colte da uno sguardo irriverente e caustico: in una foto un bambino in costume da poliziotto sembra la caricatura degli autorevoli tutori dell'ordine, e in un'altra, quando il fotografo deve aspettare per riprendere un passante davanti ad un portone barocco scolpito come fosse l'ingresso all'inferno, alla fine scatta quando a passare con camminata sussiegosa è proprio un flic.
Talvolta a creare la poesia è il contrasto tra il contesto e le azioni o i personaggi in primo piano; spesso gli sfondi delle fotografie di Doisneau sono le macerie del dopoguerra, le periferie, le terre di nessuno ai margini o nei buchi del tessuto urbano, le case grigie, le strade trafficate, i bistrot popolari, i postriboli; eppure in questi ambienti degradati, dimessi, tristi, squallidi, il fotografo è in grado di cogliere la fiamma viva dell'umanità, il guizzo della voglia di vivere, di ridere, di amare, di godere, di giocare, di fare un salto o una capriola.
Ci si diverte insomma, guardando le sue foto; e insieme, inevitabilmente, ci si immalinconisce, pensando al contrasto tra la definita eternità di quegli scatti, e il tempo che passa e che è passato; alla fugacità e futilità delle vicende umane: a quei bambini che ora saranno vecchi, a quelle persone che ormai non ci sono più (nemmeno i grandi, ritratti per amicizia da Doisneau, come Picasso o Prévert), a quegli amori che saranno sfioriti, a quei baci perduti; provando nostalgia perfino per quelle vecchie e brutte case che saranno state abbattute, a quei locali malfamati che avranno chiuso i battenti, a quei tristi bordelli superati dai tempi. O meglio, per i fantasmi che un giorno li hanno abitati, che li hanno attraversati, amando, sorridendo per un attimo, sperando in una vita migliore che era appena di là da venire.


La mostra Pescatore d'immagini (un titolo che non mi piace molto, che allude ad un'attività in cui si uccide ciò che si ricerca, e nello stesso tempo ad un ambiente bucolico; mentre Doisneau ama i soggetti che riprende, gli dona anzi una virtuale immortalità, e si muove in contesti quasi sempre urbani), è esposta nel Palazzo delle Paure (pare che si chiami così perché ospitava gli uffici delle finanze e delle dogane), in pieno centro a Lecco, tra piazza XX settembre e lungolario.
Le foto esposte sono circa una settantina, esposte in poche sale luminose e accompagnate da sobri pannelli informativi e da alcune illuminanti citazioni sulla filosofia della fotografia dello stesso Doisneau. E' disponibile anche un'audioguida.
La mostra è aperta fino al 30 settembre, dalle 9.30 (feriali) o dalle 10 (sabato e festivi) fino alle 18, il giovedì anche dalle 21 alle 23; lunedì è chiusa. L'ingresso intero costa 9 euro, 7 e 5 i ridotti.

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TEMPUS FUGIT

4/23/2018

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#USCITA - Il progetto fotografico di Irene Vitrano in mostra allo Spazio Contemporaneo di Sesto San Giovanni fino al 29 aprile.

Foto
Irene Vitrano, di origine palermitana ma legnanese d’adozione, è una giovane fotografa che per il suo progetto #Uscita ha scelto la forma, e la finalità, del storytelling. Le sue immagini, seriali e apparentemente ripetitive, vogliono infatti raccontare di persone, di vite; vogliono appunto raccontare delle storie.
Uno scantinato anonimo dalle grezze pareti e dal pavimento di grigio cemento, una poltrona di pelle rossa, uno o più personaggi solitamente seduti, in posa. Tutto è apparentemente immobile, eppure il movimento e già insito nel titolo, ribadito in ogni foto da un cartello sulla parete. Movimento, cambiamento, uscita da una situazione di immobilità o di stallo, ma anche da una situazione di comfort.
I personaggi di Irene, ma sarebbe più corretto dire le persone, escono da un’età della vita, da un campo di gioco o da una pista da ballo, da una malattia crudele o addirittura si apprestano ad uscire dalla vita stessa.
Ma a tutti Irene ha concesso una frazione di secondo - e un'immagine duratura - di celebrità, un'iconografia istantanea della personalità.
Se il progetto è improntato al rispetto delle persone ritratte, e a un sentimento empatico nei loro confronti e nei confronti delle rispettive individualità e differenze, aleggia, forse a causa dell’ambientazione e del setting, un sentimento di vanitas vanitatum, dove conta quello che si vede - le facce, i vestiti, gli oggetti, gli animali perfino - ma altrettanto contano le cose che non si vedono: il passato e il presente raccolti nel nero del buio che incombe ai bordi della foto, i fantasmi, le illusioni e l'inconscio che aleggiano sotto il cono di luce bianca, pronti a dileguarsi o a divorare l'immagine, in una dimensione dove a fuggire, e a indicare la via d'uscita, malgrado la fissità consolatoria della fotografia, è sempre il Tempo.

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TROPPE FOTO PER UN UOMO SOLO

3/16/2018

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MIA PHOTO FAIR 2018

FotoFoto di Giorgio Lo Cascio
E’ vero che viviamo in una situazione di costante sovraesposizione alle immagini e che la Mia non fa granché per rimediare a questa situazione, radunando oltre 90 gallerie fotografiche italiane ed estere, dando spazio a centinaia di autori ed esponendo quindi, nello spazio unico di The Mall in piazza Bo a Milano, un numero incalcolabile di fotografie.
Troppe per l’osservazione attenta che molte di esse meriterebbero; ma abbastanza per farsi un’idea delle tendenze della fotografia contemporanea: tra omaggi ad altri Paesi (un’attenzione particolare era dedicato quest’anno all’Ungheria), grandi classici, maestri contemporanei come Steve McCurry o Sebastiao Salgado, nuove star emergenti, e tante fotografi meno conosciuti ma spesso meritevoli d’interesse.
Nell’impossibilità di rendere conto di tutto o di molto, tento comunque una cavalcata inconsulta e approssimativa (tralasciando in linea di massima i grandissimi, di cui tutto è già stato detto) attraverso il mare di immagini presenti nella mostra-mercato (se avete delle pareti da riempire preparatevi per l’anno prossimo, è anche un’ottima occasione per fare acquisti).
La scelta delle gallerie si concentra sulla foto d’arte e di ricerca, trascurando quindi deliberatamente, o sfiorando appena, il reportage, la foto di cronaca, la foto di moda, la foto naturalistica (anche se su quest’ultima si focalizza in modo interessante la selezione di alcune gallerie, come ad es. Made4Art o Still fotografia, che espone tra l’altro i drammatici alberi di Ninni Pepe).

Parlando del rapporto tra fotografia e arte, è bizzarro notare come se da una parte l’arte figurativa contemporanea (un’illuminante panoramica è stata recentemente fornita da un’altra fiera milanese, l’Affordable Art Fair) scende a contaminarsi spesso e molto volentieri con la pop culture e il kitsch della cultura di massa, la fotografia, in un movimento speculare e contrario, aspira a elevarsi e a nobilitarsi ispirandosi o citando la grande arte del passato. Più volte citati i paesaggi metafisici alla De Chirico o alla Savinio (le sculture che Romana Zambon fotografa al centro di cave di marmo, posponendo paesaggi marini, gli scenari di Wang Ping), Mauro Davoli ispira le proprie nature morte a Caravaggio, evocandole dal buio con lame di luce, e Francesca Moscheni vira al nero composizioni alla Morandi; Alfa Castoldi ritrae una Danae klimtiana, mentre si colloca tra Guttuso e la pittura fiamminga il collage del brasiliano Vik Muniz, dove le grandi figure sono composte da minuscoli ritagli fotografici, e si richiama addirittura al Beato Angelico il marocchino Mounir Fatmi, che fa intervenire gli angeli in una sala operatoria.
Quella africana in effetti è una presenza piuttosto sorprendente e interessante. Citando Picasso con After les demoiselles d’Avignon, Siwa Mgoboza, con i propri coloratissimi afro-set tessili, si è aggiudicato l’onore di fornire l’immagine simbolo dell’edizione 2018 di Mia. Citazionista anche l’operazione di Uohe Okpa-Iroha, che innesca uno spassoso e raffinato corto circuito culturale inserendo la propria presenza di uomo di colore all’interno dei fotogrammi della saga mafiosa italo-americana de Il Padrino. Tra dandysmo e riflessione sull’impatto della tecnologia sul continente africano, Maurice Mbikayi, congolese di nascita e sudafricano d’adozione, pone al centro delle sue immagini dei folletti rivestiti con tastiere e cavi da computer. Dichiaratamente metaforiche le immagini di Gosette Lubondo, che ritrae vari personaggi di colore all’interno di un simbolico vagone ferroviario fermo e in disuso.
Ad alcuni autori sta stretta addirittura una delle caratteristiche naturali e intrinseche della fotografia, la bidimensionalità. Mario Crisci ad esempio rende cubista la faccia di Picasso, estrudendola dalla superficie  alla terza dimensione; Alfred Drago Rens con la serie Tutto quadra costruisce sulle foto delle sorte di piramidi a gradoni in carta fotografica, mettendo in risalto (oltre che con aree di colore) i punti focali delle foto (di repertorio). Miranda Gibilisco osa ancora di più, conferendo alla sua foto d’acqua un’evocativa ondulazione che allude al movimento marino. La ricerca di un’alternativa alla piattezza della foto tradizionale passa anche per la scelta di supporti non convenzionali: Jacopo Di Cera realizza un bel lavoro sul terremoto di Amatrice fotografando macerie e riproducendole su carte increspate e dissestate che danno volume e movimento alla memoria del sisma. Manuel Felisi stampa invece i propri alberi su blocchi di cemento armato, mischiando grafismo e matericità, natura e manufatto, il disegno della fotografia e quello della materia, dove dalla granulosità del cemento emerge l’ulteriore trama del metallo che la innerva. Interagisce con superficie murali anche la fotografia di Anna Maria Tulli, che dalle foto di muri ricava le silhouette di uno zoo fantasmatico stampate su plexiglass. Se Lucrezia Roda ricerca la realtà e la bellezza della materia nei metalli, fino alla dimensione microscopica, il musicista Pietro Pirelli sottrae invece il peso della materia elaborando oggetti/ambienti dove l’immagine fotografica scaturisce dall’interazione della luce con acqua e corpi, messi in movimento dalle onde sonore.
Dall’astrattismo informale delle scie di colore di Michael E. Crawford, si passa alle colorate grafie di Glores, che riprende insegne giocando su luci ombre e colori accesi, fino alle immagini di Carlo Borlenghi, che, fotografando suggestivamente vele e mare, ci riconduce da un’apparente astrazione a una dimensione realistica e naturalistica.
La foto di paesaggio esposta raramente si accontenta di riprodurre la bellezza o aspetti anche insoliti della realtà e della natura. Alcuni autori puntano esplicitamente ad una sorta di estremizzazione del visibile, che diventa a volte una marginalizzazione o una ri-marginalizzazione del paesaggio stesso; a volte oscilla tra la sua negazione e la sua ricostruzione. Giacomo Montanaro con gli Interior Landscapes ed Enrico Cattaneo dissolvono ad esempio e ridisegnano paesaggi fantasmatici semplicemente mediante l’azione degli acidi su superfici sensibili; mentre alla fotografia zenitale (l’anno scorso rappresentata da Mario Sestini) di Rose, tutta giocata sui sorprendenti effetti grafici della verticalizzazione, risponde l’orizzontalità dei paesaggi di Luca Lupi, che relega la linea dell’orizzonte al margine inferiore dell’immagine, dominata da grandi cieli incolori. Altre volte il paesaggio tende invece a dissolversi nel chiarore (i boschi innevati di Hokkaido di Season Lao, i ghiacciai di Nicolò Aiazzi) o nel buio (Perdersi nella notte di Fausto Meli, Unreal di Giacomo Infantino). I colori saturi e accesi (contrastati da cieli neri) della Venezia di Carmela Cipriani sono una piacevole eccezione.
Anche la natura si esprime spesso attraverso la sua negazione: gli ulivi afflitti dalla xylella di Ulderico Tramacere, i tronchi mozzati di Lorand Vakarcs, gli alberi riflessi nell’acqua di Pina Inferrera, diventando citazione nelle dita di Alfred Drago Rens da cui scaturiscono piante, fino a tradursi nel suo opposto nelle fotogeniche texture dell’ungherese Laszlo Meszaros, composte da rifiuti riciclabili.
Un’analoga negazione o reinvenzione delle forme del reale viene proposta da molte foto di architettura, generando immagini spesso suggestive e spiazzanti: in piena Milano Robert Gligorov compie l’atto blasfemo di cancellare il Duomo da una grande foto ripresa dal fondo della piazza, dando vita ad uno spazio architettonico inedito e distopico. Altri autori edificano architetture oniriche e perturbanti, che mantengono un riferimento al reale ma lo falsificano, come nelle Utopie di Philippe Calandre (che richiamano le visioni di Bocklin) o nei paesaggi multiesposti di Davide Bramante. L’iraniano Gohar Dashti riprende ambienti dove le costruzioni umane, deserte, sono invase e pervase da una natura di ritorno. Marco Palmieri dissolve lo spazio architettonico o lo ridefinisce attraverso il raffinato gioco di linee disegnate da luce e ombra, mentre Nicole Ahland, dalla Germania, evoca fantasmi con tagli luminosi in ambienti dominati dalla penombra e Angela Lo Priore predilige il grafismo delle trombe delle scale, incastonando surrealisticamente nudi di donna all’interno di spirali-occhi.
Tra astrattismo e interni desolati e in rovina (la Ceramica Lago in rovina di Alessandra Battaggi, gli interni del rumeno Stefan Badulescu o di Nicola Vinci), le architetture certificano spesso l’assenza dell’uomo, quasi negato dal rigore geometrico oppure scomparso dai luoghi (dal mondo?) un tempo abitati.
Di tutt’altro tipo l’approccio di Nicolas Boutruche, il quale, come in Grand Hotel, ritrae, per mezzo della composizione di molteplici scatti, grandi casellari architettonici affollati di figure umane nei più diversi atteggiamenti, con uno spirito ludico, dissacrante e divertente. Un atteggiamento satirico, più dichiaratamente politico, basato sulla composizione nello stesso quadro di molteplici figure, anima le fotografie fantastiche di Marco Guenzi.
Natura e architettura si fondono spesso in una dimensione mentale, spesso legata alla memoria. La Galleria Alydem dedica i propri spazi a les grandes anonymes, fotografie d’archivio prive di paternità accertata, mentre Marco Rigamonti immerge i suoi alberi in bagni di aceto balsamico che li trasformano in immagini vintage e Beat Kuert espone montagne annotate da una scrittura minuta che allude a esplorazioni remote o immaginarie. Ancora all’immaginazione e al ricordo rimandano le immagini, tra intimi interni e altrove sospesi, di Vera Rossi o dell’israeliano Yuval Yairi, fino alle dichiarate whispering memories di Stefano Zardini.
Corpo e volto umani sono al centro delle ricerche di molti altri fotografi: il cinese Sun Li rintraccia sembianze umane e una sorprendente espressività nei primi piani di telecamere di sorveglianza, mentre al contrario il suo celeberrimo connazionale Liu Bolin scompare in ogni sua immagine, completamente assorbito da sfondi anche molto complessi grazie alla minuziosa pittura mimetica su corpo e vestiti. Volto umano e identità vengono stravolti da deformazioni nelle foto di Bruno Metra, da corde e bende e fumo in quelle di Malena Mazza, si sdoppiano e si scindono nei doublefaced di Sebastiano Biniek, si fondono con la materia nei ritratti marmorei di Andrea Boyer, si sciolgono in cascate d’acqua nei bei ritratti del grande Tom Hoops, si metamorfizzano in identità animali negli scatti iperrealistici di Phil van Duyden.
A Lady Tarin si devono le immagini più erotizzate; mentre tra i ritratti di Harry Benson spicca Trump Close Up Money, con un giovane Donald felice come un bambino sopraffatto da una bracciata delle amate banconote...
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LE "STAMPE URBANE" DI OLIVIA PAROLDI

2/24/2018

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IMPRESSIONS D'AUJOURD'HUI, Incisioni di OLIVIA PAROLDI
​Suquet de artistes, Cannes, fino al 22 aprile

Foto
A Cannes c’è un nuovo luogo per l’arte: è stato ricavato nel Suquet, il quartiere vecchio sulla collinetta al termine della Croisette, tra ristorantini alla moda e vecchi case da realismo poetico. Il Suquet des artistes ha trovato casa nel vecchio obitorio, situato a sua volta tra una scuola, l’abside di una chiesa neogotica come – chissà perché, completamente fuori luogo – piacciono tanto qui in Costa azzurra, e un fantastico murales che copre tutta la facciata di una casa, ai piedi della quale Jacques Tati (impermeabile, cappellino e pantaloni troppo corti), con il proprio nipotino, di spalle, guarda i manifesti dei propri film, tra cui quello, appunto, di Mon oncle.
Il Suquet des artistes ospita ora e fino al 22 aprile una mostra personale di Olivia Paroldi. Nei locali, nei corridoi, nelle sale dalle volte a botte, la Paroldi espone le sue incisioni, definite “stampe urbane”: le opere in mostra sono stampate prevalentemente su tavole di legno, ma uno degli obiettivi dell’artista è appunto quello di togliere le incisioni dalle pareti delle gallerie e dalle pagine dei libri e renderle opere urbane, arte pubblica e di strada, sociale e politica quindi, disponibile agli sguardi di chiunque si trovi a passare di lì. La superficie stessa prescelta per ospitare l’opera, con la sua storia, la sua grana, si potrebbe dire il suo vissuto, entra a far parte e dialoga con l’opera stessa.
Sue opere, come dimostrano le fotografie e i video in mostra, sono state affisse a Cannes e nei suoi sobborghi (ma noi ne abbiamo trovato solo un paio di esemplari superstiti), ma anche in altre città francesi, italiane, e dell’Est. Sensibile alle tematiche relative all’infanzia, alle migrazioni, alle radici culturali e mitologiche (cui sono dedicate altrettante sezioni dell’esposizione), la Paroldi ha scelto in particolare luoghi di confine (in Italia Ventimiglia) o disposte lungo le rotte migratorie balcaniche.
Le sue sono immagini dai tratti decisi e forti, ma non prive di realismo figurativo e di ricchezza di dettagli e di sfumature. Prevale ovviamente il bianco e nero (guardando le stampe affisse inevitabile pensare all’effetto Banksy con i suoi stencil), ma sono presenti anche innesti di colore, che a volte si limitano a evidenziare alcuni tratti, a volte creano delle campiture a gouache dal cui sfondo emergono le figure tratteggiate in bianco e nero.
Le radici marinare di Cannes, la mescolanza delle radici storiche e di quelle mitologiche (con la presenza di animali marini), i giochi dell’infanzia (Paroldi conduce anche dei laboratori per bambini, di cui sono esposti alcuni esempi in mostra), la gioia della danza, la ricchezza dovuta alla mescolanza e al métissage culturale, il dramma delle migrazioni, che anch’esso vede spesso nelle opere dell’artista dei bambini quali protagonisti, sono i tempi prediletti della Paroldi.

Foto
In mostra anche le interessanti opere di altri giovani incisori, invitati grazie ai contatti dell’artista, e provenienti da diversi paesi e continenti, dall’italiana Liliana Bastia ad artisti europei, latinoamericani e giapponesi.

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L'ECO DI RAFFAELLO

2/1/2018

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RAFFAELLO E L'ECO DEL MITO
alla Gamec di Bergamo

Foto
Diciamo che la mostra Raffaello e l'eco del mito difficilmente appagherà la vostra sete di conoscenza riguardo questo pittore; piuttosto potrebbe costituire il punto di partenza per ulteriori visite e approfondimenti, o un modo di rinfrescare la memoria su uno dei pittori italiani più noti, figura emblematica del nostro Rinascimento (al punto che a metà dell'800 un gruppo di pittori inglesi si definì dei “Preraffalliti”, prendendo l'artista italiano come una sorta di spartiacque della pittura europea).
La mostra prende spunto dalla presenza all'Accademia Carrara, dal 1833, del San Sebastiano del pittore urbinate (che frequentò poi numerose corti del centro Italia, come Roma e Firenze, dove raccolse così ricche e numerose committenze da trasformare la propria bottega in una vera e propria officina artistica), per costruire intorno a questo ritratto un sistema ad anelli concentrici che comprende un nucleo di disegni e dipinti del pittore, per allargarsi al confronto con i suoi predecessori e i suoi contemporanei, per allontanarsi poi verso la riscoperta del suo valore nell'800 e le riflessioni storico-artistiche-mitiche sulla sua storia artistica e personale, fino alle citazioni nell'arte moderna e contemporanea.
Tra i maestri che precedettero di qualche anno la maturità di Raffaello e forse ne condizionarono le ricerche pittoriche vengono presentati in mostra tra gli altri il padre Giovanni Santi, presso la cui bottega Raffaello fece il suo apprendistato, il Perugino (presso la bottega del quale proseguì la sua formazione pittorica), di cui sono presenti in mostra tre opere molte belle, tra cui una Madonna in trono dai colori così vividi e smaglianti da sembrare dipinti appena poco fa, il Pinturicchio, con una Madonna e Santi molto delicato e raffinato, e il Berruguete, con un ritratto di Federico e Guidobaldo da Montefeltro, duchi da Urbino e tra i primi committenti del pittore.
L'elenco dei musei prestatori è impressionante, ma in realtà di Raffaello sono esposte solo quattro opere maggiori: oltre al San Sebastiano (un giovane aggraziato e dalla veste raffinata, lontano dall'iconografia martirologica e molto più vicino a quella convenzionale del “ragazzo con la freccia”, allegoria delle pene amorose, tema molto diffuso del quale ci sono in mostra versioni di altri autori rinascimentali), il ritratto di Elisabetta Gonzaga, una Madonna con bambino (la cosiddetta Madonna Diotallevi), e la celeberrima Fornarina, dai seni maliziosamente svelati, modella e amante del pittore, che si dice morto prematuramente, all'età di trentasette anni, consumato dagli eccessi erotici.
Inoltre sono esposte diverse predelle di pale d'altare, che essendo di piccole dimensioni e dovendo essere viste a distanza potevano essere realizzate con una pittura più sbrigativa, un crocefisso, e alcuni disegni realizzati dall'artista e dai suoi collaboratori di bottega.
Il resto della mostra è quello che il titolo annuncia come “l'eco del mito”, dalle opere di altri autori affini a quelle raffaellesche, si salta alla riscoperta dell'artista nel XIX secolo, con copie accuratissime, che danno fino alla lettura della didascalia l'illusione di trovarsi davanti ad alcuni suoi capolavori (come La scuola di Atene o la Madonna della seggiola, rifatte rispettivamente da Bezzuoli e da Mengs) o con opere di respiro romantico che traggono ispirazione dalla storia tra Raffaello e la sua Fornarina (avviso per gli amici sestesi: c'è anche un Faruffini), fino alla sezione che al piano intermedio propone una selezione di opere contemporanee che, in modo più o meno pertinente, citano in qualche modo l'eredità di Raffaello, a volte prendendolo semplicemente a pretesto di un dialogo – spesso provocatorio – con la classicità, tra “autoritratti come autoritratti” e fotografie di sansebastiani legati nel bosco (rispettivamente Vezzoli e Ontani), e con guest star prestigiose come Picasso e Christo.


La mostra è visitabile fino al 6 maggio.
La Gamec si trova di fronte all'Accademia Carrara (se arrivate in macchina cercate parcheggio lungo viale Giulio Cesare, se non ci sono partite allo stadio; se invece arrivate a Bergamo con una “Freccia” ed esibite il biglietto avete diritto allo sconto sul biglietto d'ingresso (10 euro anziché 12).
All'interno della Galleria, senza sovrapprezzo, potete visitare anche le collezioni di arte del XX secolo esposte a piano terra. Gli autori italiani sono in netta prevalenza: troverete tra gli altri Morandi, De Chirico, Sironi, Adami, Balla, Boccioni, Burri, ecc., oltre a diverse scultura di Manzù, fino a una beffarda cassaforte svaligiata “firmata” da Cattelan.
Se dopo la mostra avete voglia di visitare Bergamo alta, proprio da piazza Carrara parte una salita che vi porta alla Via alle mura, con belle viste, e quindi al centro storico.

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DALLA PARTE DI CARAVAGGIO

12/2/2017

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L'ULTIMO CARAVAGGGIO - EREDI E NUOVI MAESTRI 
Gallerie d'Italia, Milano - 30 novembre 2017 > 8 aprile 2018

Foto
Gallerie d’Italia, in parallelo alla mostra Dentro Caravaggio che si tiene a Palazzo Reale, propone un’esposizione dedicata a L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri, intesa ad esplorare il panorama pittorico italiano contemporaneo e successivo al passaggio, veloce ma definitivo, di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, attraverso la penisola e nella pittura del suo tempo, destinato a lasciare una traccia indelebile nella storia della pittura mondiale.
La mostra si concentra in particolare su tre città, Napoli (all’epoca la più popolosa città italiana), Milano e Genova, dove operano i due geniali mecenati e collezionisti Marcantonio e Giovan Carlo Doria.
Il fulcro tematico, logistico e iconografico della mostra è rappresentato dal Martirio di Sant’Orsola (una martire bretone uccisa a colpi di freccia per essersi rifiutata al re unno Attila), presentato in tre interpretazioni diverse: quella di Caravaggio, dipinta a Napoli nel 1610 - pochi mesi prima della sua morte prematura, seguita ad una serie di peripezie e fughe dalla legge che lo inseguiva dopo che si era macchiato di diversi delitti – su commissione di Marcantonio Doria; quella di Bernardo Strozzi, dipinta qualche anno dopo a Genova per l’altro Doria, Giovan Carlo; e quella di Giulio Cesare Procaccini, milanese d’adozione ma anch’egli operante nell’orbita genovese, dipinta ancora qualche anno più tardi, intorno al 1620.
La differenza tra le altre opere salta gli occhi anche del profano: le figure di Caravaggio emergono al solito da una tenebra profondissima (si è accertato che il pittore stendeva il fondo scuro su tutta la superficie della tela, dipingendovi sopra solo le parti delle figure che dovevamo emergere alla luce, e lasciando intonso il resto della campitura), scolpite a macchie violenti da un secco taglio di luce la cui fonte invisibile è posta alla destra in alto al di fuori della cornice del quadro. Il carnefice con l’arco – la freccia è già scoccata - è un vecchio; un altro volto più giovane sporge proteso al di sopra della spalla della santa, tirato da un’oscena curiosità e dal timore di non riuscire a vedere bene il martirio. Un altro paio di volti sono illuminati solo in minima parte, riflessi freddi fanno balenare il metallo brunito delle armature. La pelle della santa - sul viso, sulle mani, sulla scollatura della veste - è grigiastra. Il viso chinato verso l’arma che la condanna a morte è quasi immobile, in un doloroso stupore, un’amara incredulità. L’onda rossa del mantello che sale dal basso guida lo sguardo dello spettatore alle mani raccolte al seno, dove spunta tra gocce di sangue l’asta di una freccia.
Nell’attimo cristallizzato  dal quadro si sta svolgendo una tragedia, e il buio onnipresente è insufficiente ad occultarla, una luce cruda ne rivela l’ineluttabilità quasi oscena.
A fianco c’è il martirio dello Strozzi. Anche qui lo sfondo è cupo, la luce cade più o meno dalla stessa direzione di quella caravaggesca, ma le figure principali sono meglio illuminate e i colori più caldi, il carnefice indossa un turbante bianco e rosso e una fusciacca rossa sul petto, la santa bene illuminata alza gli occhi al cielo con una smorfia di dolore, le braccia allargate, una mano in su e l’altra in giù. Già le figure sembrano in posa, la postura di Orsola è enfatica, la scena retorica. Più in là il terzo martirio, quello del Procaccini. Gli incarnati sono ancora più caldi, il viso e il collo della santa illuminati da luce bianca; lei alza lo sguardo e un braccio verso l’alto, l’arciere con il suo arco teso occupa più di metà del quadro imponendo una direttrice diagonale. I panneggi svolazzano, i rossi dei vestiti e i colori quasi bronzei dei personaggi impongono tonalità calde all’intero il quadro. Anche qui l’impostazione è teatrale, enfatica, le azioni e i sentimenti sottolineati. Ci sentiamo più dalle parti della reinvenzione manieristica e ludica della mitologia classica piuttosto che della sacra rappresentazione, o semplicemente della descrizione di un episodio atroce.
Più che di “eredi”, si tratta quindi in questi casi di quelli che il titolo della mostra designa “nuovi maestri”. Un abisso di sensibilità, di rigore, di ricerca del vero sembra separare il naturalismo austero del Caravaggio e l’enfasi già barocca degli altri due, sulla pittura dei quali l’esempio del primo sembra aver influito ben poco.
Parlo da profano, ma rivelo la mia partigianeria. Non amo molto la pittura del ‘500 e del ‘600 (e del ‘700), fatta eccezione per alcune insopprimibili, inevitabili eccezioni. Caravaggio è per sempre tra queste.
Della mostra perciò apprezzo soprattutto quello che si si mantiene vicino alla lezione epocale di Caravaggio, meno quello che si allontana da essa o non la tiene in considerazione, tendendo invece verso la deriva barocca. Giovanni Battista Caracciolo, detto il Battistello, a Napoli, mi sembra quello che meglio tra gli autori esposti raccoglie gli insegnamenti del Merisi. A dimostrarlo un paio di tele significative come il Cristo porta la croce, dove il protagonista eponimo è relegato di scorcio ad una zona male illuminata sulla destra del quadro, mentre il fuoco della rappresentazione è puntato in modo apparentemente incongruo sulla bianca schiena nuda di un seguace inginocchiato, che emerge dalla vampata rosso vivo del panno che gli cinge i fianchi. La lezione di verismo del maestro è rintracciabile fin nel particolare delle piante dei piedi sudicie in primo piano. Nel Battesimo di Cristo le figure sono isolate e sbalzate dal nero dello sfondo dalla pura luce, quasi in assenza di colori. Un altro fedele seguace appare Simon Vouet, autore di un Davide con la testa di Golia (soggetto già trattato più volte dal Merisi) che ritrae un eroe adolescente che volge altrove lo sguardo del volto dalle labbra carnose e sensuali. La ricerca sulla luce porta poi Mathias Stom, originario dei Paesi Bassi ma attivo nell’Italia settentrionale, a sperimentare sulla luce artificiale, come nei tre grandi quadri esposti in mostra, con le figure rese vivide e nitide dalla vampa delle torce (la stessa linea conduce ai dipinti a lume di candela del de La Tour, non presenti in mostra ma ammirati qualche anno fa a pochi metri da qui, a palazzo Marino) .
Tra le altre opere esposte, tuttavia, ho apprezzato anche alcuni lavori del Procaccini: impressionante l’Ultima cena (1618), dagli echi leonardeschi, innanzitutto per le sue dimensioni, con oltre 40 mq di superficie dipinta e figure a grandezza sovrannaturale, rinato dopo un accurato restauro che gli ha restituito vividezza e splendore. In una dimensione più intima, bello anche la Sacra famiglia, costruito su una diagonale luminosa formata dal corpo del bambino e dai visi della Madonna e di Giuseppe, collegati dal gioco degli sguardi incrociati, cui fa da contrappeso la verticale del braccio di Maria che la sostiene e le dà equilibrio.
Da sottolineare sempre, per chi già non la conoscesse,  la bellezza della cornice dell’esposizione, ospitata dall’ex-sede della Banca Commerciale Italiana, oggi sede di mostre temporanee oltre che della collezione d’arte di Intesa Sanpaolo. Il palazzo è opera di Luce Beltrami, che alla fine dell’800 rimaneggiò anche la facciata di palazzo Marino e ridisegnò piazza della Scala. Saloni sontuosi, scalinate monumentali, soffitti vetrati, decorazioni a stucco, profusione di ferro battuto (che protegge ancora anche quelli che furono gli sportelli bancari) garantiscono alle mostre delle Gallerie d’Italia un ambiente suggestivo che rappresenta un valore aggiunto alla visita.
 

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    Mauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà.

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