Un’altra notevole serata di musica venerdì sera al Valmaggi. Se il pianoforte romantico di Michele Di Toro, protagonista assoluto del concerto precedente, era da ascoltare a occhi chiusi, questo concerto andava ascoltato a bocca aperta. Si chiama infatti Open Mouth Blues Orchestra la big band che venerdì si è esibita al Valmaggi, strabordando per numero dei componenti ed energia dalla pedana riservata ai musicisti. In un programma parlato, in cui alla musica si alternavano brani letterari ispirati alla poetica del blues, l’orchestra si è trovata stretta nell’ora e mezza canonica del Valmaggi per scorrazzare nei suoi ampi territori, da Nobody’s Fault by Mine, incisa per la prima volta da Blind Willie Johnson negli anni ’20, per arrivare ai Beatles di Hey Jude, ma con una predilezione per gli anni ’70, dal soul blues di Respect Yourself degli Staples Singers al blues moderno di The Price You Got to Pay to Be Free composta da Cannonball Aderley o al Theme de Yoyo dell’Art Ensemble of Chicago, uno dei cavalli di battaglia della Ombo. Sassofoni di varie tonalità, trombe, flicorno, chitarre elettriche, basso elettrico, batteria, percussioni, pianoforte, organo hammond, moog, una voce maschile, due femminili, e inoltre sirene, corni, trombette, megafono: raramente si ha l’occasione di ascoltare una formazione così articolata e complessa, con un alto potenziale di suono e di energia, in una dimensione raccolta da piccolo club (e per sopraggiunta a ingresso gratuito!). Difficile stare fermi, insomma; il pubblico compassato del Valmaggi ha resistito ma ha dimostrato di gradire con applausi e richiesta di bis a orario ormai sforato. Ecco comunque il calendario dei prossimi appuntamenti della rassegna del centro culturale di via Partigiani 84 a Sesto San Giovanni, che tiene conto di alcuni cambiamenti nelle formazioni e nelle date: VEN 03/02/2017 Ore 21.30 FIVE FRIENDS in Barock&Roll - Omaggio ai Gentle Giant (rock progressive): Matteo Paparazzo batteria - Luca Spalletta chitarra - Elisa La Marca voce - Tony Alemanno basso - Alessandro Mattioli tastiere VEN 10/02/2017 Ore 21.30 FRANCESCA AJMAR TRIO (Brasil jazz): Francesca Ajmar voce - Fausto Beccalossi fisarmonica Tito Rantzer Mangialajo contrabbasso VEN 17/02/2017 Ore 21.30 STEFANO SERNAGIOTTO QUARTET (hard-bop) Stefano Sernagiotto - sax tenore-Martino Vercesi chitarra- Gianluca Alberti – contrabbasso - Alessio Pacifico – batteria. VEN 24/02/2017 Ore 21.30 DAVIDE CORINI TRIO (composizione originali, Evans, Monk e standard): Davide Corini piano-Luca Garlaschelli contrabbasso – Massimo Pintori batteria VEN 03/03/2017 Ore 21.30 quartetto “sextet” di MASSIMO MINARDI (rivisitazioni a due chitarre) Massimo Minardi chitarra / Geppo Spina chitarra / Tito Mangialajo contrabbasso / Massimo Pintori batteria VEN 10/03/2017 Ore 21.30 FRANK QUARTET Frank Altamura sax alto- Stefano Pennini pianoforte - Stefano Scopece contrabbasso - Ermanno Principe batteria VEN 17/03/2017 Ore 21.30 JAZZITALYANDO (grandi successi italiani in jazz) Carmen Nacci voce – Dario Lutrino piano – Stefano Scopece contrabbasso
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SMITH & WESSON di Alessandro Baricco. Regia di Gabriele Vacis. Teatro stabile del Veneto, Teatro stabile di TorinoSmith & Wesson prende spunto da una storia vera, quella di Annie Edson Taylor, una vedova sessantreenne che nel 1901, al fine di raggranellare un po’ di denaro per affrontare una più serena vecchiaia si gettò dalle cascate del Niagara all’interno di una botte. Fu il primo essere umano a compiere l’assurda impresa; sopravvisse, ma venne truffata dal proprio agente che le rubò i denari e... la botte! Baricco sembra da sempre interessato a esplorare quel confine in cui la realtà sembra precorrere la fantasia, superarla o almeno farle una spietata concorrenza. Nel suo testo la donna temeraria ringiovanisce fino a un’ardimentosa ventitreanneità, incarnandosi in Rachel, aspirante giornalista in cerca di gloria e di una fortuna che, se non si presenta, o se viene negata da una società maschilista, va creata con le proprie mani e il proprio ingegno; e per compagni d’avventura, coinvolti dalla sua irruenza, le pone a fianco un recuperatore di cadaveri (le cascate sono meta, oltre che di lune di miele, di numerosi aspiranti suicidi) e un serafico truffatore ricercato ma aspirante metereologo, i Wesson e Smith del titolo. Alla fine, dopo l’esito dell’impresa (che era anche tecnologica e economica), i due uomini si troveranno vestiti da guitti, a portare in giro per il Messico un baraccone di tirassegno, per adempiere ad una sorta di bizzarro voto e rendere un bizzarro omaggio al coraggio di Rachel, che come l’Amélie cinematografica aveva recitato le proprie idiosincrasie, i desideri e le piccole manie che fanno di ciascuno di noi un’identità irripetibile. La prima domanda è: cosa ha spinto Baricco a raccontare questa strana storia (poco teatrale inoltre, considerata la necessità di avere sulla scena una cascata)? La risposta, forse, più che nella morale interna che della storia trae la signora Higgins - e che riguarda l’elogio del rischio, dell’immaginazione, della follia, del talento, l’importanza del prendersi cura degli altri, la consolazione del ricordo – sta nel gusto ludico dell’affabulazione, nella sperimentazione giocosa dei toni e dei registi. Così la commedia parte come una buddy comedy, con il confronto tra il linguaggio aulico di Smith e le parole povere di Wesson, prende brio con l’arrivo di Rachel, gioca con il meccanismo delle conferenze stampa, accelera in ritmi screwball verso il climax, diventa astratto linguaggio visivo e sonoro nella scena del salto, precipita verso toni gravi con la comparsa della Higgins (personaggio che ha una pura funzione di racconto, quando la vocazione alla narrazione era la prerogativa vitale dell’aspirante giornalista Rachel), si risolve nella malinconia dolceamara e circense dell’epilogo. Forse allora la motivazione del testo sta nascosta in quello che appare un inserto marginale, la lettura o recitazione degli appunti di Smith, che, nel tentativo di rendere statistica la previsione del tempo meteorologico, accumula annotazioni sul suo taccuino, raccogliendo aneddoti da testimoni e documenti; ne nasce una sequenza di tranches de vie, brandelli di vita di uomini e donne non illustri, per citare Pontiggia, che lo spettacolo inscena con suggestioni visive e sonore (a cura di Indyca/Michele Fornasero e di Roberto Tarasco): il terreno della narrazione si spacca rivelando mille germogli potenziali, perché ogni vita è una o più storie, e ogni storia merita un racconto e qualcuno che la racconti. Meglio che può, “ogni volta come fosse la prima, o la più bella”; e stando attenti alle parole che si usano, perché le parole sono “piccole macchine molto esatte” da maneggiare con cura e con amore. La messinscena di Gabriele Vacis dribbla elegantemente la sfida della cascata e impernia la scena su un graticcio cubico, che cambiando inclinazione e altezza rispetto al palco diventa di volta in volta una baracca, un pontile, una music box, una botte, un baraccone di tirassegno. La regia asseconda le variazioni di registro volute da Baricco, sfruttando al meglio le occasioni umoristiche, assecondate dalla strana ma ben calibrata coppia formata da Natalino Balasso e Fausto Russo Alesi. Completano il cast Camilla Nigro nel ruolo di Rachel e Mariella Fabbris in quello della signora Higgins. NELLE SUE MANI. LE FOTOGRAFIE DI VIVIAN MAIER all'Arengario di Monza fino al 29 gennaioUltimissimi giorni per andare a vedere all’Arengario di Monza Nelle sue mani, la bella mostra dedicata a Vivian Maier, già prorogata al 29 gennaio. Chi è Vivian Maier? chiederanno alcuni di voi. Effettivamente fino a pochi anni fa non lo sapeva nessuno. Finché nel 2007 John Maloof, figlio di un rigattiere, comprò ad un’asta, alla cieca, per poche centinaia di dollari, gli scatoloni accumulati dentro un deposito self storage di Chicago, appartenenti ad una cliente che non pagava più l’affitto. Dentro quegli anonimi scatoloni c’era uno sterminato patrimonio fotografico. Si parla di 120.000 negativi, più di diecimila stampe, e inoltre filmini, superotto, registrazioni. Sono le opere di Vivian Maier, realizzate prevalentemente tra gli anni ’50 e gli anni ’70. Ma, di nuovo, chi è Vivian Maier? Una baby sitter, segaligna, scontrosa, riservata. Che durante e dopo il lavoro, fotografava. Probabilmente grazie all’eredità di una prozia francese, Vivian, anzi la signorina Maier, come pretendeva di essere chiamata, negando la propria confidenza a chiunque, ha girato il mondo, tra Nordamerica, Asia, Africa, Europa; ma le sue fotografie ritraggono soprattutto la vita dell’America degli anni ’50 e ’60, a New York e Chicago, dove visse per la maggior parte della sua vita lavorando appunto come tata presso alcune famiglie della città. E il fatto è che Vivian Maier è un’artista. Le sue foto sono bellissime, in grado di stare alla pari con quelle di molti dei più grandi fotografi del ‘900. Quando Maloof, e altri che come lui si sono resi conto del valore che avevano tra le mani, si mettono alla ricerca dell’autrice di quelle foto, la signorina Maier è ricoverata in ospedale. Morirà da lì a poco, senza sapere mai che il suo immane talento, tenuto sempre gelosamente segreto, sta per essere finalmente rivelato al mondo. Le foto che la Maier scattava quasi di nascosto, la maggior parte con una Rolleiflex a pozzetto, una macchina che si teneva all’altezza della pancia guardando dall’alto nel mirino posto sul lato superiore della camera, rivelano una capacità d’intuizione, una rapidità e una sicurezza di esecuzione, un occhio fantastico per l’inquadratura, una grande abilità tecnica di realizzazione e ritraggono un formidabile spaccato della vita americana di quegli anni. Fotografia di strada, ritratti fulminanti, aneddoti poetici o umoristici, scene di famiglia (ma le famiglie sono sempre quelle degli altri), indagine sulla vita quotidiana, compresa quella degli ultimi (con una sensibilità sociale, così come con un senso dell’umorismo in altri scatti, che si rivela solo nelle sue fotografie, senza trovare riscontro nella sua vita schiva, solitaria, selvatica). Le foto del periodo Rolleiflex, in formato quadrato, sono in un bianco e nero stupendo; gli anni ’70 portano altri formati e il colore, in cui la capacità di cogliere i contrasti della Maier si attenua; negli anni ’80 il flusso delle fotografie apparentemente si arresta, sommando al silenzio della sua voce quello della sua visione. Apparentemente assente dalla vita, priva di legami e affetti, ridotta a occhio e macchina, la Maier paradossalmente è spesso presente nelle sue foto. Un’ombra proiettata sul terreno, un riflesso in un vetro (nella cui aura far affiorare magari qualcosa al di là, ancora una volta la vita degli altri), ma soprattutto immagini rimandate da uno o più specchi, che a volte sdoppiano e moltiplicano la sua figura in una fuga vertiginosa: una sorta di autoindagine edipica da parte di una donna che ha scelto di identificare la propria essenza con la capacità di guardare e di vedere. Come dice una citazione della fotografa Lisette Model riportata in mostra “La macchina fotografica è uno strumento per fare scoperte: non fotografiamo solo ciò che conosciamo, ma anche ciò che non conosciamo”. Gli scatti dei suoi soggetti inoltre sono quasi sempre unici, senza prove e senza multipli: con risultati spesso incontrovertibili, definitivi; quella che sembra una straordinaria combinazione tra fortuna e infallibile istinto. Indubbiamente un surplus di fascino è conferito all’opera della Maier dallo iato intercorso tra il momento della loro realizzazione e quello della loro inedita visione: le foto nascono immediatamente come storiche, come temporalmente esotiche, più che vintage già inquadrate in una dimensione classica. Di questo patrimonio iconografico gigantesco, in buona parte ancora da esplorare, ma già esposto in mostre e musei, l’Arengario offre una piccola selezione (organizzata in sezioni: autoritratti, bambini, foto di strada, ritratti, scatti a colori, ecc.), ma sufficiente a rendere l’idea del suo talento. Il biglietto d’entrata, a 9 euro, include anche un’audioguida utile anche a contestualizzare l’opera dell’autodidatta ma non incolta Maier nella storia della fotografia; molto interessante anche il documentario della BBC Who took Nanny’s Pictures?, che però si viene sadicamente costretti a guardare all’impiedi (dura una settantina di minuti!). Sulla vicenda umana e artistica della Maier lo stesso John Maloof ha girato un altro bel documentario uscito anche in sala (a Milano si è visto più volte al Beltrade), intitolato significativamente Alla ricerca di Vivian Maier. Anche se la Maier, ormai, è definitivamente introvabile; per fortuna ci rimangono le sue fotografie. MICHELE DI TORO IN CONCERTO al centro culturale Valmaggi di Sesto San GiovanniSerata di musica eccellente venerdì sera al centro culturale Valmaggi di Sesto San Giovanni, come sempre peraltro quando Michele Di Toro ci omaggia di un passaggio nei dintorni. Pescarese di origine ma di casa anche a Milano (dove ha abitato per otto anni e dove torna più volte all’anno), pianista di formazione classica, appassionato di jazz, innamorato della musica tout court, Di Toro è uno di quei musicisti convinti che la musica non abbia confini: né di tempo, né di genere, né di livello. Nei suoi concerti, e nei suoi dischi, è consuetudine pertanto trovare l’uno accanto all’altro temi classici e standard jazzistici, canzoni italiane e colonne sonore, tutte rimescolate e amalgamate secondo uno stile originale e personale. Ogni suo concerto diventa un viaggio senza coordinate nell’universo della musica, accompagnato dalla cultura e dalla tecnica di Di Toro, che mescola magicamente memoria e improvvisazione, caos (apparente) e struttura, omaggio e personalità, forza e delicatezza, con un’abilità tecnica che lo rende capace di affrontare i ritmi più indiavolati del ragtime così come le armonie più dolci. L’altra sera abbiamo trovato un Di Toro molto più loquace rispetto alla sua consueta elegante laconicità (che fa pensare che Michele se lo volesse sarebbe probabilmente anche un ottimo divulgatore), forse un po’ meno innovatore e contaminatore (soprattutto per chi lo conosce già da tempo), e decisamente romantico nella scelta dei brani in programma, molti dei quali sono dei veri e propri suoi cavalli di battaglia. Il concerto si apre dunque con l’emblema del romanticismo pianistico, Chopin, di cui verrà riproposto più avanti un terzo brano, la Marcia funebre, dedicata alle vittime delle recentissime catastrofi naturali in Abruzzo e a Fabrizia Di Lorenzo, la ragazza di Sulmona morta nell’attentato di Berlino. Ma poi tutto si mescola o si accosta secondo l’ardita consuetudine ditoriana: succede così che le melodie di Piovani per La vita è bella scoprano delle affinità con la Caravan di Ellington, che il Rondò alla turca di Mozart entri in vertiginoso corto circuito con il ragtime di Scott Joplin, che sotto le note glamour di uno standard molto frequentato come All the Things You Are affiorino i tasti ben temperati del clavicembalo bachiano, o che alle danze di una favola Disney o allo stride di Fats Waller si affianchi la drammaticità struggente e febbrile del Libertango di Piazzolla (oh, quando morirò seppellitemi al suono di questa musica...). Paradossalmente, per un concerto jazz, c’è ben poca America, mentre invece è molto presente l’Italia: da Estate di Bruno Martino, ormai diventato un amato standard internazionale, alla canzone napoletana (un’intensa interpretazione di Reginella in cui si alternano toni dolcissimi e altri più appassionati), al medley di colonne sonore di Morricone (oltre che del già citato Piovani), fino a una delle composizioni più belle dello stesso Di Toro, La favola continua. Che Di Toro stia tirando un po’ le fila del proprio vagabondaggio artistico attraverso epoche e stili si deduce anche dalla serie di incisioni Com(e)promesso (tento di rendere graficamente il doppio senso che esprime sia l’intenzione di accontentare le richieste dei fans sia la natura meticciata della musica di Di Toro), di cui esce ora il secondo volume, in cui sono raccolti molti dei brani eseguiti dal vivo; ma che la favola e la ricerca continuino lo dimostra il fatto che il pianista pescarese ha già inciso anche un disco dedicato a una sua personale reinterpretazione della musica di Mozart, che vedrà la luce solo l’anno prossimo. Al Valmaggi pubblico (attento e competente come al solito) entusiasta, e cd esauriti. A proposito, si annunciano dei cambiamenti nel programma della rassegna musicale del centro culturale: venerdì 3 marzo il quartetto di Massimo Minardi prende il posto della 70 Love Band e inoltre c’è un’inversione di date: Francesca Ajmar si esibirà il 10 febbraio mentre sarà Jazzitalyando a chiudere la rassegna il 17 marzo. E' iniziata ieri sera al centro culturale Valmaggi di Sesto San Giovanni una rassegna di musica jazz dal vivo. Giunta ormai all'ennesima edizione, grazie alla splendida tenacia dell'animatore del centro, Domenico Palmiotto, e con la direzione artistica di Stefano Scopece , la rassegna propone dieci concerti di musica jazz (e dintorni), ad ingresso gratuito (!), con cadenza settimanale, ogni venerdì sera alle ore 21.30 (fine concerto alle 23), fino al 17 marzo. La collocazione è sorprendente: uno scantinato sotto un palazzone della periferia sestese, vicino alla tangenziale e all'inceneritore; ma se quello che cercate è buona musica, un'acustica onesta e un pubblico che conosce l'etica dell'ascolto, e non il locale glamour e di tendenza, questo è il posto che fa per voi. Aperta ieri sera da un progetto guidato da Daniele Perini (che è praticamente nato nella casa sovrastante il centro culturale) e dedicato al jazz elettrico degli ultimi anni, la rassegna proseguirà venerdì 20 con un recital per piano solo di Michele Di Toro, a nostro parere uno dei migliori pianisti italiani in circolazione, in grado di passare nell'arco dello stesso brano, in pochi secondi e pochi fraseggi delle dita, dal ragtime alla classica, dal jazz al pop, con un tocco assolutamente personale. Da non perdere. Nelle settimane successive tra gli altri appuntamenti, tutti meritevoli di interesse, segnaliamo quelli con la Open Mouth Blues Orchestra, una trascinante big band (il 27 gennaio), il curioso appuntamento con i grandi successi della musica italiana in chiave jazzistica con i Jazzitalyando (il 10 febbraio) e il progetto sulla musica brasiliana di Francesca Aymar (che chiude la rassegna il 17 marzo). Ci vediamo al Valmaggi. Tutto il programma sul sito del centro culturale Valmaggi |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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