Dopo una stagione di jazz piuttosto duro e puro la stagione del centro culturale “Valmaggi” di Sesto San Giovanni (ogni anno una decina di concerti di ottima qualità ad ingresso incredibilmente gratuito) si conclude, come ormai è quasi una tradizione, con la musica unlimited (definizione sua) del grande Michele Di Toro. Di nero vestito (ma un esagerato faretto rosso all’inizio lo fa sembrare quasi un marziano), solo in pedana con il suo pianoforte, il musicista e compositore pescarese ha regalato un’altra serata di grande musica alla città di Sesto, al centro “Valmaggi” (condotto con ammirevole passione dall’inossidabile Domenico Palmiotto e dal suo fedele team) e ai suoi fedeli frequentatori. Il programma del concerto ha radunato una dozzina di brani che il pianista ha dichiarato stargli particolarmente a cuore, e che spaziano attraverso generi, paesi e tempi, dall’800 mitteleuropo all’oggi, dal blues statunitense alla canzone italiana, dall’omaggio alla Spagna all’Argentina di Piazzolla. L’anima pianistica di Di Toro è decisamente romantica, e con il romanticismo nelle sue diverse declinazioni ha flirtato per la maggior parte del programma, mettendo subito in soggezione il pubblico con l’essenziale ma maestosa malinconia del Chiaro di luna di Beethoven. Si saltano epoche, temi, paesi, ma si rimane in un mood sentimentale con l’elegiaco tema di Deborah scritto da Morricone per il C’era una volta in America di Sergio Leone. Dopo una parentesi blues la malinconia si colora di sfumature francesi, ma con accenti swing, con l’esecuzione di Les feuilles mortes (scritta in origine dal musicista di origine ungherese Kosma per il film Mentre Parigi dorme, con testo scritto da Jacques Prévert). Dalla Parigi del ’46 si salta quindi all’Argentina, con la passione bruciante, ossessiva e disperata del Libertango di Piazzolla, in un’esecuzione intensa e appassionata, salutata da applausi altrettanto appassionati. Il programma prevede anche tre brani dello stesso Di Toro, che sfiorano il minimalismo (“psichedelico” lo definisce autoironicamente l’autore) di Echolocation (che sarebbe il sonar biologico utilizzato dai pipistrelli per orientarsi nello spazio), per culminare nel lirismo del brano più famoso del musicista, La favola continua, dove una melodia facilmente leggibile si accompagna a un grande afflato poetico. La musica classica (che non fa solo parte del bagaglio formativo di Di Toro, ma è tuttora un suo campo di ricerca), torna con il Preludio n. 15 op. 28 di Chopin, chiamato anche La goccia d’acqua per l’iterarsi ossessivo di un accordo in La bemolle intorno al quale si snoda la melodia, che passa dai toni lievi a quelli più gravi e drammatici per riaquietarsi e rasserenarsi nella parte finale. Completano il programma uno standard jazzistico immortale come All the Things You Are e l’omaggio di Chick Corea alla Spagna, Spain appunto, introdotta da un preludio ispirato al Concerto di Aranjuez. Richiamato a gran voce sul palco, Michele Di Toro offre ancora due bis: la drammatica e struggente L’importante è finire, portata al successo da Mina e richiesta dal pubblico (per la precisione da mio papà), che qui e là si intreccia con le note di Nel blu dipinto di blu, e con un una versione con accelerazioni ragtime di Puttin’ On the Ritz, composta da Irvin Berlin e resa celebre da Fred Astaire. Passando con disinvoltura da un genere all’altro, a volte nello stesso brano (molto celebre il brano in cui mescola Mozart e ragtime...), il virtuosismo di Di Toro dimostra sempre un rispetto quasi religioso delle composizioni originarie: pur affrontandole sempre nell’ottica dell’improvvisazione jazzistica e donando un’impronta personale ad ogni brano che affronta, il pianista non abbandona mai le melodie alla base del brano lanciandosi in astratte improvvisazioni. Grande apprezzamento del pubblico presente, che ovviamente spera di rivedersi per l’occasione anche il prossimo anno...
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MIA PHOTO FAIR 2018E’ vero che viviamo in una situazione di costante sovraesposizione alle immagini e che la Mia non fa granché per rimediare a questa situazione, radunando oltre 90 gallerie fotografiche italiane ed estere, dando spazio a centinaia di autori ed esponendo quindi, nello spazio unico di The Mall in piazza Bo a Milano, un numero incalcolabile di fotografie. Troppe per l’osservazione attenta che molte di esse meriterebbero; ma abbastanza per farsi un’idea delle tendenze della fotografia contemporanea: tra omaggi ad altri Paesi (un’attenzione particolare era dedicato quest’anno all’Ungheria), grandi classici, maestri contemporanei come Steve McCurry o Sebastiao Salgado, nuove star emergenti, e tante fotografi meno conosciuti ma spesso meritevoli d’interesse. Nell’impossibilità di rendere conto di tutto o di molto, tento comunque una cavalcata inconsulta e approssimativa (tralasciando in linea di massima i grandissimi, di cui tutto è già stato detto) attraverso il mare di immagini presenti nella mostra-mercato (se avete delle pareti da riempire preparatevi per l’anno prossimo, è anche un’ottima occasione per fare acquisti). La scelta delle gallerie si concentra sulla foto d’arte e di ricerca, trascurando quindi deliberatamente, o sfiorando appena, il reportage, la foto di cronaca, la foto di moda, la foto naturalistica (anche se su quest’ultima si focalizza in modo interessante la selezione di alcune gallerie, come ad es. Made4Art o Still fotografia, che espone tra l’altro i drammatici alberi di Ninni Pepe). Parlando del rapporto tra fotografia e arte, è bizzarro notare come se da una parte l’arte figurativa contemporanea (un’illuminante panoramica è stata recentemente fornita da un’altra fiera milanese, l’Affordable Art Fair) scende a contaminarsi spesso e molto volentieri con la pop culture e il kitsch della cultura di massa, la fotografia, in un movimento speculare e contrario, aspira a elevarsi e a nobilitarsi ispirandosi o citando la grande arte del passato. Più volte citati i paesaggi metafisici alla De Chirico o alla Savinio (le sculture che Romana Zambon fotografa al centro di cave di marmo, posponendo paesaggi marini, gli scenari di Wang Ping), Mauro Davoli ispira le proprie nature morte a Caravaggio, evocandole dal buio con lame di luce, e Francesca Moscheni vira al nero composizioni alla Morandi; Alfa Castoldi ritrae una Danae klimtiana, mentre si colloca tra Guttuso e la pittura fiamminga il collage del brasiliano Vik Muniz, dove le grandi figure sono composte da minuscoli ritagli fotografici, e si richiama addirittura al Beato Angelico il marocchino Mounir Fatmi, che fa intervenire gli angeli in una sala operatoria. Quella africana in effetti è una presenza piuttosto sorprendente e interessante. Citando Picasso con After les demoiselles d’Avignon, Siwa Mgoboza, con i propri coloratissimi afro-set tessili, si è aggiudicato l’onore di fornire l’immagine simbolo dell’edizione 2018 di Mia. Citazionista anche l’operazione di Uohe Okpa-Iroha, che innesca uno spassoso e raffinato corto circuito culturale inserendo la propria presenza di uomo di colore all’interno dei fotogrammi della saga mafiosa italo-americana de Il Padrino. Tra dandysmo e riflessione sull’impatto della tecnologia sul continente africano, Maurice Mbikayi, congolese di nascita e sudafricano d’adozione, pone al centro delle sue immagini dei folletti rivestiti con tastiere e cavi da computer. Dichiaratamente metaforiche le immagini di Gosette Lubondo, che ritrae vari personaggi di colore all’interno di un simbolico vagone ferroviario fermo e in disuso. Ad alcuni autori sta stretta addirittura una delle caratteristiche naturali e intrinseche della fotografia, la bidimensionalità. Mario Crisci ad esempio rende cubista la faccia di Picasso, estrudendola dalla superficie alla terza dimensione; Alfred Drago Rens con la serie Tutto quadra costruisce sulle foto delle sorte di piramidi a gradoni in carta fotografica, mettendo in risalto (oltre che con aree di colore) i punti focali delle foto (di repertorio). Miranda Gibilisco osa ancora di più, conferendo alla sua foto d’acqua un’evocativa ondulazione che allude al movimento marino. La ricerca di un’alternativa alla piattezza della foto tradizionale passa anche per la scelta di supporti non convenzionali: Jacopo Di Cera realizza un bel lavoro sul terremoto di Amatrice fotografando macerie e riproducendole su carte increspate e dissestate che danno volume e movimento alla memoria del sisma. Manuel Felisi stampa invece i propri alberi su blocchi di cemento armato, mischiando grafismo e matericità, natura e manufatto, il disegno della fotografia e quello della materia, dove dalla granulosità del cemento emerge l’ulteriore trama del metallo che la innerva. Interagisce con superficie murali anche la fotografia di Anna Maria Tulli, che dalle foto di muri ricava le silhouette di uno zoo fantasmatico stampate su plexiglass. Se Lucrezia Roda ricerca la realtà e la bellezza della materia nei metalli, fino alla dimensione microscopica, il musicista Pietro Pirelli sottrae invece il peso della materia elaborando oggetti/ambienti dove l’immagine fotografica scaturisce dall’interazione della luce con acqua e corpi, messi in movimento dalle onde sonore. Dall’astrattismo informale delle scie di colore di Michael E. Crawford, si passa alle colorate grafie di Glores, che riprende insegne giocando su luci ombre e colori accesi, fino alle immagini di Carlo Borlenghi, che, fotografando suggestivamente vele e mare, ci riconduce da un’apparente astrazione a una dimensione realistica e naturalistica. La foto di paesaggio esposta raramente si accontenta di riprodurre la bellezza o aspetti anche insoliti della realtà e della natura. Alcuni autori puntano esplicitamente ad una sorta di estremizzazione del visibile, che diventa a volte una marginalizzazione o una ri-marginalizzazione del paesaggio stesso; a volte oscilla tra la sua negazione e la sua ricostruzione. Giacomo Montanaro con gli Interior Landscapes ed Enrico Cattaneo dissolvono ad esempio e ridisegnano paesaggi fantasmatici semplicemente mediante l’azione degli acidi su superfici sensibili; mentre alla fotografia zenitale (l’anno scorso rappresentata da Mario Sestini) di Rose, tutta giocata sui sorprendenti effetti grafici della verticalizzazione, risponde l’orizzontalità dei paesaggi di Luca Lupi, che relega la linea dell’orizzonte al margine inferiore dell’immagine, dominata da grandi cieli incolori. Altre volte il paesaggio tende invece a dissolversi nel chiarore (i boschi innevati di Hokkaido di Season Lao, i ghiacciai di Nicolò Aiazzi) o nel buio (Perdersi nella notte di Fausto Meli, Unreal di Giacomo Infantino). I colori saturi e accesi (contrastati da cieli neri) della Venezia di Carmela Cipriani sono una piacevole eccezione. Anche la natura si esprime spesso attraverso la sua negazione: gli ulivi afflitti dalla xylella di Ulderico Tramacere, i tronchi mozzati di Lorand Vakarcs, gli alberi riflessi nell’acqua di Pina Inferrera, diventando citazione nelle dita di Alfred Drago Rens da cui scaturiscono piante, fino a tradursi nel suo opposto nelle fotogeniche texture dell’ungherese Laszlo Meszaros, composte da rifiuti riciclabili. Un’analoga negazione o reinvenzione delle forme del reale viene proposta da molte foto di architettura, generando immagini spesso suggestive e spiazzanti: in piena Milano Robert Gligorov compie l’atto blasfemo di cancellare il Duomo da una grande foto ripresa dal fondo della piazza, dando vita ad uno spazio architettonico inedito e distopico. Altri autori edificano architetture oniriche e perturbanti, che mantengono un riferimento al reale ma lo falsificano, come nelle Utopie di Philippe Calandre (che richiamano le visioni di Bocklin) o nei paesaggi multiesposti di Davide Bramante. L’iraniano Gohar Dashti riprende ambienti dove le costruzioni umane, deserte, sono invase e pervase da una natura di ritorno. Marco Palmieri dissolve lo spazio architettonico o lo ridefinisce attraverso il raffinato gioco di linee disegnate da luce e ombra, mentre Nicole Ahland, dalla Germania, evoca fantasmi con tagli luminosi in ambienti dominati dalla penombra e Angela Lo Priore predilige il grafismo delle trombe delle scale, incastonando surrealisticamente nudi di donna all’interno di spirali-occhi. Tra astrattismo e interni desolati e in rovina (la Ceramica Lago in rovina di Alessandra Battaggi, gli interni del rumeno Stefan Badulescu o di Nicola Vinci), le architetture certificano spesso l’assenza dell’uomo, quasi negato dal rigore geometrico oppure scomparso dai luoghi (dal mondo?) un tempo abitati.
Di tutt’altro tipo l’approccio di Nicolas Boutruche, il quale, come in Grand Hotel, ritrae, per mezzo della composizione di molteplici scatti, grandi casellari architettonici affollati di figure umane nei più diversi atteggiamenti, con uno spirito ludico, dissacrante e divertente. Un atteggiamento satirico, più dichiaratamente politico, basato sulla composizione nello stesso quadro di molteplici figure, anima le fotografie fantastiche di Marco Guenzi. Natura e architettura si fondono spesso in una dimensione mentale, spesso legata alla memoria. La Galleria Alydem dedica i propri spazi a les grandes anonymes, fotografie d’archivio prive di paternità accertata, mentre Marco Rigamonti immerge i suoi alberi in bagni di aceto balsamico che li trasformano in immagini vintage e Beat Kuert espone montagne annotate da una scrittura minuta che allude a esplorazioni remote o immaginarie. Ancora all’immaginazione e al ricordo rimandano le immagini, tra intimi interni e altrove sospesi, di Vera Rossi o dell’israeliano Yuval Yairi, fino alle dichiarate whispering memories di Stefano Zardini. Corpo e volto umani sono al centro delle ricerche di molti altri fotografi: il cinese Sun Li rintraccia sembianze umane e una sorprendente espressività nei primi piani di telecamere di sorveglianza, mentre al contrario il suo celeberrimo connazionale Liu Bolin scompare in ogni sua immagine, completamente assorbito da sfondi anche molto complessi grazie alla minuziosa pittura mimetica su corpo e vestiti. Volto umano e identità vengono stravolti da deformazioni nelle foto di Bruno Metra, da corde e bende e fumo in quelle di Malena Mazza, si sdoppiano e si scindono nei doublefaced di Sebastiano Biniek, si fondono con la materia nei ritratti marmorei di Andrea Boyer, si sciolgono in cascate d’acqua nei bei ritratti del grande Tom Hoops, si metamorfizzano in identità animali negli scatti iperrealistici di Phil van Duyden. A Lady Tarin si devono le immagini più erotizzate; mentre tra i ritratti di Harry Benson spicca Trump Close Up Money, con un giovane Donald felice come un bambino sopraffatto da una bracciata delle amate banconote... |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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