IL TRADUTTORE di Biagio Goldstein Bolocan, ed. Feltrinelli1956, Milano. Mentre l'opinione pubblica è infiammata da grandi temi internazionali come i fatti d'Ungheria e la crisi di Suez, Cesare Paladini-Sforza, slavista e traduttore per la neonata casa editrice Feltrinelli, che ha palesi simpatie di sinistra, viene trovato assassinato nella propria casa-studio. Si scopre che stava lavorando su un libro particolare, scritto da un poeta semisconosciuto, che potrebbe essere sgradito alle autorità russe. Il libro (me la sento di spoilerare un'informazione che l'autore ha il vezzo di rivelare solo a pag. 206, ma che è già svelata sulla prima, la seconda e la quarta di copertina, quindi è un po' difficile non saperla da subito) è Il dottor Živago di Boris Pasternak, una grande storia d'amore ambientata negli anni della Rivoluzione. Ad indagare sull'omicidio si ritrova quindi non solo il commissario Guerini, omone probo e intellettualmente onesto, con simpatie comuniste ma tormentato da dubbi che vengono amplificati dalla repressione sovietica in Ungheria, ma anche agenti russi e americani, visto che il mistero potrebbe trovare ragione e soluzione sul grande scacchiere internazionale. Mantenendo la metafora, la scacchiera, i giocatori e le pedine che Biagio Goldstein Bolocan dispone ne Il traduttore (mescolando personaggi e situazioni vere – il libro fu effettivamente osteggiato dalle autorità sovietiche, venne premiato con un Nobel, mai ritirato, nel 1958 ma fu pubblicato in Russia solo nel 1988 – e fittizi – a cominciare dal traduttore e dal suo assassinio) sono a mio parere gli elementi più intriganti del libro, e quelli per cui vale la pena di affrontarne la lettura. BGB vanta in effetti diverse credenziali che lo qualificano per affrontare l'impresa: l'intenso impegno politico nell'organizzazione giovanile del Pci, il lavoro di insegnante e di scrittore di manuali scolastici di Storia e di editor per Mondadori (ma questo romanzo, ovviamente, lo pubbblica Feltrinelli, con una bella copertina che mescola giallo e arte contemporanea). Difficilmente si poteva pensare quindi a uno scrittore più idoneo per dipingere il contesto storico, i temi e l'atmosfera di quell'estate del '56. Ma contemporaneamente gli mancano altre qualifiche. Prima di tutto, non è un giallista. L'intreccio giallo-spionistico-editoriale-passionale (la relazione tra spionaggio e politica culturale è stato recentemente affrontato, pur se in in contesto e con intenzioni e risultati del tutto differenti in Miele, di Ian McEwan, di cui parlo in queste stesse pagine) non assume mai una dignità letterario-investigativa. Guerini è un commissario improbabile, e la sua indagine – checché ne possano pensare lui e l'autore - dà un'impressione di superficialità e inconcludenza. Mai d'altra parte, visto l'andazzo della detection, il mistero dell'assassinio avrebbero potuto vedere una soluzione se il caso, propiziato da un coacervo di combinazioni tra le più infondate narrativamente e meno credibili psicologicamente, non servisse bell'e pronta la soluzione allo sventato investigatore su una tavola apparecchiata, o dispiegata su un leggio. Peccato non poter dire di più per motivare il mio disappunto, ma l'eventuale lettore avrà modo di giudicare da sé. Saltano agli occhi inoltre la pretestuosità (parliamo sempre di risultati, non di intenzioni) di certi risvolti spionistici, e della presenza di alcuni personaggi inessenziali e alla fine ininfluenti rispetto alla narrazione. Dirò di più, sperando di non risultare troppo ingeneroso: il problema è che BGB non è neppure un grande narratore: sorvolando sulla relativa goffaggine dei dialoghi, anche la stessa ambientazione storica, che avrebbe potuto e dovuto essere uno dei punti di forza del romanzo, è contrassegnata un po' da una sorta di etichettatura di luoghi e situazioni: lì la latteria, qua la nebbia, da un'altra parte il tram, da un'altra ancora la partita col Milan di Liedholm o le discussioni sui fatti d'Ungheria, e così via: l'impressione generale è alla fine quella di un libro in costume (come potrebbe esserlo uno sceneggiato televisivo), più che di un libro calato e immerso nelle atmosfere dell'epoca. Inoltre BGB rinuncia anche alla mimesi linguistica, preferendo adottare un linguaggio attuale che accentua il senso di distanza del lettore dagli anni e dal contesto narrati: credo che né Guerini né alcuno dei suoi contemporanei avrebbe usato espressioni come “apparato desiderante” o “il sistema di attese che regge quel messaggio cifrato”. D'altra parte GBG, assecondando un'inclinazione analitica della cultura e della forma mentis intellettuale ebraica (dalla cabala a Sigmund Freud, da Woody Allen alla recente e bizzarra romantic comedy Un appuntamento per la sposa), si crede in dovere di dover spiegare ogni azione e ogni comportamento di ciascuno dei personaggi esplorandone minuziosamente il retroterra psicologico. L'epopea di Guerini (investigatore corpulento, placido, riflessivo, introverso, intuitivo, tutti aspetti che richiamano alla mente il suo monumentale collega francese) finisce per sembrare una specie di Maigret cui Simenon abbia aggiunto alle canoniche 150 pagine un altro centinaio di pagine di glosse psicologiche ed esplicative. Non proprio necessarie...
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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