SQUID GAME (Ojing -eo-ge.im) di Hwan Dong-hyukSquid Game non mi è sembrata un'opera citazionista (ma sono pronto a ricredermi qualora qualcuno mi dimostrasse il contrario con argomenti fondati e non basati su semplici assonanze di trama o di genere – di As the Gods Will ho visto solo qualcosa su Youtube ma ad occhio mi sembra altro, come tono e intenzioni). Bisogna quindi procedere con cautela nel chiedersi se la serie sia caratterizzata da un fattore K, che non è quello che caratterizza le espressioni della nuova cultura coreana come il k-pop o il k-drama. Detto altrimenti e in termini diretti: c'è un fattore Kubrick che percorre sotterraneamente gli episodi della serie? So che molti ritengono Squid Game come un semplice prodotto di consumo, svilito (ma perché?) dall'essere prodotto da Netflix e dall'aver ottenuto un successo globale e planetario e inorridiranno di fronte a quello che sto per scrivere. Eppure a me è sembrato di cogliere alcuni indizi e mi piace parlarne e ricavarne qualche altro spunto di riflessione su Squid Game, che, non dimentichiamolo – e non è una cosa scontata per una serie tv – è un'opera d'autore, essendo stata interamente scritta e diretta da Hwang Dong-yuk. DIVISECominciamo dall'indizio più generico e meno probante, le divise. Il cinema di Kubrick è abitato e a volte fittamente popolato da personaggi in divisa o appartenenti all'ambiente bellico: da Spartacus a Barry Lyndon o Orizzonti di gloria, dalle uniformi de Il dottor Stranamore a quelle di Full Metal Jacket, fino alle tute da astronauta di 2001 o alle tenute indossate perfino dagli anarchici cultori dell'ultraviolenza di Arancia meccanica. Ebbene, anche Squid Game è abitato per almeno sette noni del suo svolgimento quasi esclusivamente da personaggi in uniforme. Come in ogni ambiente concentrazionario, l'uso della divisa accomuna tanto i carcerieri che i carcerati (entrambi volontari, si badi bene). Nell'uno e nell'altro caso, la divisa rappresenta un ruolo/funzione all'interno di un sistema fittamente regolato e codificato. Quello di Squid Game è un mondo di uniformi (nel senso proprio e figurato del termine), di identità ridotte a semplici numeri (come nei campi di concentramenti nazisti), ma splittato in due: quello comunitario ed egualitario (ma competitivo fino all'ultimo sangue) dei concorrenti e quello gerarchico ma impersonale dei sorveglianti. C'è forse un'eco dell'eterno incubo che percorre la penisola coreana in questa rappresentazione, quasi che nel regno dello Squid Game si fondessero in maniera implosiva l'egualitarismo spersonalizzante nordcoreano e la spietata competizione neocapitalistica sudcoreana (sono l'unico che quando sentiva la voce femminile che annunciava i giochi correva col pensiero a Ri Chun-hee, l'ineffabile speaker della tv di Stato nordcoreana?) MASCHEREPerfino il lead manager della situazione, Frontman, si distingue dagli altri solo per una variante dell'uniforme e della maschera. Solo i Vip, nel mondo dello Squid Game, sono al di sopra delle regole e dell'obbligo di divisa, eppure anch'essi celano quasi per vezzo la propria identità dietro preziose maschere scintillanti che li trasformano in una sorta di divinità insieme animalesche ed iperuranie. E qui entriamo a piedi pari in un territorio che sembra più esplicitamente kubrickiano. Le maschere dei Vip sembrano rimandare in modo abbastanza diretto a quelle che nascondono l'identità delle very important people che popolano l'orgia di Eyes Wide Shut. Qui come là, i ricchi godono di piaceri proibiti, immersi nel lusso e nella segretezza, mentre gli “altri” sono ridotti a “cavalli da corsa” da abbattere se non arrivano primi al traguardo, o come corpi da usare, da godere e da scartare alla prima trasgressione (allontanandoci in un'altra deriva associativa si può arrivare fino al punto di non ritorno dell'universo mortifero del Salò pasoliniano con i suoi Signori e la sua corte di sgherri aguzzini). SPAZIOUn altro aspetto è la passione per gli spazi geometrici e astratti che caratterizzavano i film di Kubrick, e sui quali esiste un'intera letteratura. Gli spazi di un'astronave, i corridoi di un albergo deserto, la superficie della luna sulla quale è comparso un monolite nero, una camerata con le brande dei soldati: tutti gli spazi fisici di Kubrick si trasformano in spazi mentali e a volte metafisici. Anche in Squid Game gli interni si fanno metaforici, scatole craniche, gabbie invisibili dove i potenti chiudono i bisognosi per farne oggetto di spettacolo, di gioco e di scempio; gli scenografi hanno dipinto sui muri falsi orizzonti, come in The Truman Show e trasformato il sole in cielo in uno sterile globo pieno di soldi insanguinati. C'è una trovata visiva (tra le molte altre) legata all'uso degli spazi che mi ha colpito in modo particolare. Il dormitorio dei concorrenti è affollato all'inizio di 456 letti, affastellati gli uni sugli altri in alti castelli. Nel finale, i letti sono rimasti tre in uno stanzone nudo e spoglio, a ricordare senza parole l'enormità dello sterminio compiuto. Come nei lager, dove contiamo un sopravvissuto ogni moltitudine, come una foresta d'uomini rasa al suolo e cancellata. Sui muri, una volta resi invisibili dall'affollamento delle brande, si vedono ora i disegni stilizzati delle prove da affrontare. I giochi letali, tenuti segreti fino all'ultimo, impedendo qualsiasi strategia preventiva di preparazione o di alleanza, erano sempre stati beffardamente lì, sotto gli occhi di non è stato capace di vederli. MUSICAE poi c'è Strauss. Se la colonna sonora è firmata da Jung Jae-li, che ha già prodotto quella di Parasite e la versione di Fly Me on the Moon eseguita dall'orchestrina meccanica al termine del penultimo episodio richiami più i teatrini di Davi Lynch che le opere di Kubrick, ormai è davvero impossibile ascoltare Il bel Danubio blu senza pensare all'uso geniale della musica che faceva Kubrick (per chi fosse interessato, ne avevo parlato in un breve articolo che trovate qui); se Kubrick lo associava alla danza siderale di un futuro già in atto, Squid Game lo usa a contrasto, contrapponendone l'elegante armonia al proprio universo di violenza e morte. I marines di Full Metal Jacket sono forzati e plagiati a credersi natural born killers; messi in riga come bambini, condotti al massacro (proprio e altrui) sulle note di una canzonetta dedicata a Topolino, l'eroe di tutti i bambini; e i detenuti di Squid Game sono indotti a scannarsi in ambienti e modi tutti ispirati all'infanzia, bimbi inermi condannati a massacrarsi a vicenda - in un lager travestito da kindergarten - dal signore delle mosche del capitalismo. UN VECCHIO CHE MUOREMa se ancora non vi ho convinto, entrate nella nona e ultima puntata, quando il protagonista si reca ad un appuntamento misterioso ed entra in un piano completamente vuoto dell'edificio. Nello spazio deserto c'è solo un letto, con un vecchio morente sdraiato sotto le lenzuola. Il punto di caduta verso la reminiscenza kubrickiana qui è vertiginoso, una citazione in purezza che segna però il punto massimo di vicinanza e nel medesimo tempo di distanza dal modello di Kubrick. Quando l'astronauta Bowman in 2001 Odissea nello spazio, al termine di un viaggio oltre i confini dell'universo approda in un'abbagliante stanza rococò, dove trova un vecchio in fin di vita nel letto, è se stesso che incontra. E' l'Uomo vecchio che muore, prima che nasca l'Uomo nuovo. Quando Seong Gi-hun invece trova il vecchio nel letto, è per incontrare l'Altro. I due sono agli antipodi (Seong è l'ultimo giocatore, il n. 456; il vecchio Oh Il-nam è il primo, il n. 1 – il suo stesso nome è quello che spesso viene attribuito in Corea ai primogeniti), sia sulla scala sociale che nella qualità morale: Seong Gi-hun è l'uomo debole, ma intrinsecamente buono; Oh Il-nam è l'uomo reso onnipotente dal denaro, ma che ha la fantasia e la crudeltà di poter concepire la morte di 455 esseri umani per puro diletto e come rimedio alla noia dell'esistenza e della ricchezza.
Se Bowman deve diventare vecchio e morire per far nascere l'Uomo del futuro, Alex di Arancia meccanica deve diventare buono a forza per poi ritrovare la propria incoercibile natura cattiva. Ma Squid Game non si spinge a tanto; quella che appare come la citazione più esplicita svilisce la morale (negativa) di Kubrick e la conduce ad un finale che da una parte suscita un barlume di speranza nella natura umana, ma che, con una parola che detesto, si potrebbe definire buonista, tra buone azioni e musiche improvvisamente retoriche. Quando Seong Gi-hun si reca dal parrucchiere dopo l'incontro fatale con il vecchio, pensavo di vederlo uscire con i capelli rasati come lui, pronto a prenderne il posto nella cabina di regia dello Squid Game, contagiato dal male in cui è stato immerso e costretto a dibattersi. Non è così; semplicemente si colora i capelli con un'improbabile tinta rossa, perde un aereo, si prepara forse a combattere lo Squid Game in una futura prossima stagione. Anche se non si può mai dire, e la scrittura di Hwang Dong-yuk ci ha insegnato ad aspettarci molte sorprese (il web già pullula di ipotesi e previsioni ardite). Non c'è nulla di più alieno del concetto di sequel per il cinema di Kubrick, ogni film del quale era un'opera unica e irripetibile, che si inseriva ogni volta in un genere differente per riscriverlo e portarlo al suo apice. Ma i tempi sono cambiati, ed ecco, se Squid Game tornerà un giorno, io sarò comunque lì ad attenderlo. Su Squid Game leggi anche "Il gioco della paura"
1 Commento
Orlando Ragnisco
11/3/2021 04:39:57 pm
Non ho mai pensato vedendolo a K come Kubrick. Ma debbo dire che i parallelismi e le analogie ci sono tutti.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
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