MIELE di Ian McEwan e NUMERO 11 di Jonathan CoeHo letto recentemente (e casualmente; le mie letture sono più rabdomantiche che sistematiche) due romanzi scritti da due esponenti di primo piano della letteratura britannica dei nostri giorni. Si tratta di Numero 11, di Jonathan Coe (La famiglia Winshaw, La casa del sonno, La banda dei brocchi, Expo 58) e di Miele (il titolo originale è Sweet Tooth), di Ian McEwan (molti dei cui romanzi hanno ispirato trasposizioni cinematografiche: come Cortesie per gli ospiti, Lettera da Berlino, Il giardino di cemento, Espiazione, L’amore fatale, Chesil Beach). Mi è sembrato che i due libri avessero alcuni elementi in comune. Innanzitutto, cominciamo dal più visibile, i due romanzi offrono due notevoli affreschi della Gran Bretagna in due diversi momenti storici. Numero 11 è ambientato nell’Inghilterra di oggi, di cui mette in luce, dietro una narrazione apparentemente bonaria, piana e lineare (ma che non rinuncia a fughe nel pastiche poliziesco o nell’apologo horror di sapore lovercraftiano), al cui centro si trovano in genere persone che possiamo definire comuni, alcune grandi problematiche del Paese negli anni 2000: dalle menzogne governative sulla guerra in Iraq allo sfruttamento dei lavoratori stranieri; dagli abnormi accumuli di ricchezze della finanza (con riflessi sulla stessa composizione urbanistica londinese) all’acrimonia della destra conservatrice accanita contro qualsiasi cosa che assomigli al welfare. Ma Numero 11 si spinge più in là dei confini della propria isola, guardando alle storture del mondo contemporaneo globalizzato e interconnesso, dove i rapporti umani possono essere decisi da un messaggino scritto o letto troppo frettolosamente, dove l’immaginario si costruisce sull’irrealtà dei reality (è bene sottolineare l’ironia che fa sì che reality=irrealtà) e dove i social media possono diventare i vettori lungo i quali si incanalano e si ingigantiscono con effetto valanga l’odio, la frustrazione, l’invidia, la distruttività fine a se stessa. McEwan, dalla scrittura decisamente più complessa e ricercata, racconta invece - sotto le spoglie di una spy story sui generis - degli anni ’60-70, in un’Inghilterra alle prese con la guerra fredda (che si combatte soprattutto in campo ideologico e culturale) e con la questione irlandese; con l’austerity economica e con i sogni di emancipazione; indecisa tra la fedeltà ai costumi impaludati e ingessati del passato e la rivoluzione sociale e culturale di una nuova Inghilterra emergente, spesso velleitaria e inconcludente. Letti di seguito, i due romanzi possono quindi dare una panoramica di una buona parte della storia britannica degli ultimi decenni. Ma c’è un altro motivo di apparente assonanza, che mi induce ad accomunarli in un unico discorso. E’ in questo caso un’affinità (anche se in realtà si tratta di una dissimiglianza, come si vedrà) strutturale, narratologica. Entrambi i romanzi, in effetti, contengono al loro interno dei racconti, più o meno autonomi, che ne fanno parte integrante. Il romanzo corale alla Coe si dispiega qui in una serie di segmenti indipendenti, a malapena legati da alcuni personaggi che passano da un racconto ad un altro (e da rimandi discreti alla saga dei Winshaw). Si tratta di una composizione a mosaico, o parattatica (la consenquenzialità dei racconti è anche temporale), il cui scopo è evidentemente quello di fornire la rappresentazione di un tutto (la società britannica contemporanea, appunto, che si inserisce in quel gigantesco affresco del proprio Paese che Coe va costruendo pezzo per pezzo) attraverso la giustapposizione e la composizione di frammenti. McEwan si muove su un livello narratologico più sofisticato, in cui la stessa profusione di dettagli (il romanzo rischia in effetti la prolissità, cosa strana per uno scrittore che aveva esordito nella forma della short story con Primo amore, ultimi riti e Tra le lenzuola) ha un carattere eminentemente illusionistico. E’ una narrazione dove non tutto (per usare un eufemismo) è come appare, e non solo perché ci troviamo all’interno di un contesto vagamente spionistico, dove la menzogna, la dissimulazione e il travestimento sono all’ordine del giorno. La protagonista è una ragazza giovane e bella, appassionata di letteratura, che per conto dei servizi segreti inglesi deve irretire un giovane scrittore che a sua volta, ignaro di essere blandamente manovrato, può essere utile col suo lavoro alla causa dell’Occidente nella lotta contro l’ideologia sovietico-socialista. I racconti dentro il testo, stavolta, sono quelli opera dello scrittore interno al libro, incastonati nella narrazione principale. Ma si tratta in realtà di racconti dello stesso McEwan, prelevati dalle sue raccolte d'esordio, e qui ricollocati all’interno di un disegno narrativo superiore. Ma ancora, i racconti non sono riportati nella loro forma compiuta, così come McEwan li scrisse, ma in modo promiscuo, parte come il riassunto che ne fa (ma anche qui, con un effetto illusionistico) la protagonista, parte con le citazioni letterali dei testi originari che lei stessa riporta nella sua narrazione (in prima persona, elemento narratologico da non sottovalutare). Sembra quindi che lo stesso McEwan entri autobiograficamente, benché sotto mentite spoglie, nell'intreccio di Miele. A costo di risultare oscuro, non posso dire di più per non sciupare l’effetto voluto da McEwan, che svela le sue carte sono nelle ultime pagine del suo ponderoso romanzo (anche se, al dire il vero, personalmente ho avuto un’illuminazione rispetto alla sorpresa finale qualche decina di pagine prima della conclusione). Si tratta comunque di una costruzione a scatole cinesi, o appunto illusionistica, il cui scopo e senso (al di là della meticolosità descrittiva che si dispiega sia a livello psicologico, che a livello del contesto storico, politico, e socioculturale, che infine di quello della rappresentazione dall’interno dei meccanismi dell’intelligence e di un’insospettabile guerra culturale) sta tutto all’interno della tecnica e dell’intenzionalità narrativa. E’ una struttura concentrica che proprio sul senso della propria vettorialità costruisce la sua rivelazione intesa a sorprendere il lettore. Il romanzo arriva addirittura a decidere deterministicamente al proprio interno la logica della dislocazione della propria edizione rispetto a quella della effettiva redazione narrativa; ricordando un po’ quella tradizione del “manoscritto ritrovato” con cui tanti autori classici (da Cervantes a Potocki) sbalzavano la propria narrazione rispetto all’epoca narrata. Ma se ad esempio Scott o Manzoni usavano l’espediente per conferire credibilità e fondamento storico alla propria narrazione, evidentemente del tutto differente è l’intento del gioco di specchi di McEwan.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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