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BLOG NOTES

E LA CHIAMANO PERIFERIA - 2a parte

12/27/2017

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L'IMPROVVISATORE 2 - L'INTERVISTA al Teatro della Cooperativa
​di e con Paolo Rossi

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Al Teatro della Cooperativa di Renato Sarti Paolo Rossi si presenta con uno spettacolo dal titolo L’improvvisatore 2 – L’intervista. Non si capisce chi intervisti chi, però sicuramente è uno spettacolo di Paolo Rossi, nel bene e nel male. Noi Paolo Rossi lo seguiamo da trent’anni e l’avremo visto almeno una quindicina di volte in varie versioni (escludendo le partecipazioni a eventi collettivi). La prima volta credo che fu su uno scalcinato palco all’aperto nel Parco Marx di Sesto San Giovanni, durante una di quelle feste di Democrazia proletaria in cui si esibì anche l’altro Rossi, Vasco, in una mitica sera in cui Alessandra faceva da servizio d’ordine (sic) e fu cazziata perché non tratteneva le fan scalmanate che cercavano di salire sul palco...
E Paolo Rossi de L’improvvisatore è Paolo Rossi. Il suo personaggio di anarchico gentile, di buffone tenero e ruvido, di uomo di sinistra sconfitto e vulnerabile ma caustico e lucido anche nei suoi flirt con i temi delle dipendenze da alcol o altre sostanze (qui, ad esempio, c’è una delle sue vocine interiori che, dopo che tutte le numerose altre si sono complimentate con lui per aver resistito alla tentazione di entrare in vari bar, esclama “Ti meriti un premio! Gin tonic per tutti!”). Noi gli vogliamo molto bene e sul palco lo ritroviamo uguale a se stesso, impegnato a giocare sul proprio repertorio di sempre, intercalando qualche omaggio canoro (accompagnato da Emanuele Dell’Aquila e Alex Orciari de I Virtuosi del Carso) a Jannacci o a Valter Valdi (Sono un ragazzo padre, l’immarcescibile Faceva il palo nella banda dell’ortica). Gli perdoniamo quindi la mancanza di struttura o di un qualunque filo conduttore, o di un pretesto tematico o d’occasione. Con i capelli ingrigiti, è ancora il folletto di un tempo, il guitto che ride prima di tutto di se stesso. Uno comunque capace di spiegarti all’inizio la scaletta della serata (spettacolo di un’ora e venti, bis di due ore e mezza, poi dibattito) e di stravolgerla per capriccio, iniziando con il dibattito sullo spettacolo che (non) si è (ancora) visto e affrontando le domande surreali degli spettatori che stanno al suo gioco.
Se non conoscete Paolo Rossi vale ancora la pena; se lo amate lo ritroverete così come lo avevate lasciato.
Il biglietto costa poco, a Capodanno c’è anche la formula con spettacolo e buffet e brindisi finale; a meno che Paolo non decida di invertire l’ordine e partire con i brindisi alle 21, poi buffet, e, per finire, spettacolo e/o bis finali...

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E LA CHIAMANO PERIFERIA - 1a parte

12/27/2017

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RIVER'S RHAPSODY al Cargo Next
con Maddalena e Giovanni Crippa, Treves Blues Band, James "Super Chikan" Johnson, Eugenio Finardi

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Nei giorni scorsi siamo stati in centro a Milano. Abbiamo visto l’Ospedale Maggiore (si è laureata la nipote Anna con Zazie dans le metro e 110 e lode) e piazza Duomo; l’albero di lustrini di Swarowski in Galleria Vittorio Emanuele e quello di fuochi d’artificio di Bulgari in piazza della Scala; la pala Gozzi di Tiziano a Palazzo Marino e la mostra sullo skyline milanese all’Urban Center; ma anche la periferia non ci ha negato ampie soddisfazioni.
Al Cinema Beltrade zona piazza Morbegno abbiamo visto i film premiati con il Lux del Parlamento europeo, al Teatro della Cooperativa in zona Niguarda abbiamo visto il nuovo spettacolo di Paolo Rossi; al Cargo in zona Crescenzago abbiamo sentito un formidabile concerto con la Treves Blues Band e guests.
Del Lux ho già raccontato in Hollybloog, per cui vi racconto un qualcosa delle altre due serate, belle e che ci hanno riportato un po’ a nostalgici tempi passati.
River’s Rhapsody (ma forse avrebbe dovuto essere Rivers’) era uno spettacolo offerto dal No’hma, lo spazio teatrale gestito da Livia Pomodoro. Per fortuna in trasferta, perché il No’hma sarà anche uno spazio bello e affascinante, ma di solito viene riempito oltre ogni umana logica razionalità. Eravamo quindi ospitati in un ex-capannone industriale (credo sede un tempo dell’Ovomaltina), con il vasto parcheggio del Cargo Next proprio di fronte. Spazio a L, con palco angolare e pubblico disposto lungo i due bracci. Lo spettacolo mischiava, in modo non completamente amalgamato, letture di testi e brani musicali dal vivo. I brani venivano letti da Maddalena Crippa e suo fratello Giovanni, interpreti rispettivamente dei fiumi Po e Mississipi. Strano quindi che la musica richiamasse solo uno dei due “personaggi”, quello più esotico, con un programma all blues eseguito alternativamente dalla band di Fabio Treves e da quella di James “Super Chikan” Johnson. La mescolanza dei due linguaggi dava secondo me un risultato un po’ discontinuo; troppo forte l’appeal della musica per permettere alla parte letteraria, oltretutto letta (per quanto bene) e non recitata, di competere in forza e fascino.
Ad un certo punto comunque l’intercalare dei testi cessa del tutto e la musica si prende tutto lo spazio, che merita. La Treves Blues Band macina blues da decenni e ormai ne conosce a menadito generi, tecniche e sfumature; verso la fine sale sul palco anche un vecchio appassionato come Eugenio Finardi, che imbraccia la chitarra e si unisce al gruppo. James Johnson è un figlio d’arte per il quale il blues è un giocattolo che si è trovato tra le mani fin da bambino e con cui si balocca con gusto e divertimento ancora oggi, accompagnato da una band tutta al femminile con tastierista virtuosa (un po’ penalizzata dall’amplificazione) dai lunghi capelli bianchi, bassista in abito corto e batterista con corpetto di lustrini. I ritmi lenti e melmosi si alternano a quelli elettrici più sincopati, gli omaggi ai classici come Muddy Waters e John Lee Hooker si alternano a brani che ci conducono fin sulle soglie del rock’n’roll.
Alla fine jam session con tutti a suonare insieme, con quattro chitarre, due bassi elettrici, l’armonica di Treves, le tastiere, due batterie, italiani e americani, bianchi e neri, uomini e donne. Ci sarebbe ancora da rotolare per ore sulle onde della musica, e il pubblico è fin troppo compassato davanti alla quantità di musica che proviene dal palco, ma la Pomodoro sale sul palco e spegne l’entusiasmo con i saluti e i ringraziamenti che riportano tutto con civili piedi per terra.

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TRUMP E TABU'

12/23/2017

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Un caso clinico e uno studio di antropologia culturale

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Trump times. Un paio di simpatici aneddoti dell’ultima settimana.
Gli Usa affrontano il mondo all’Onu dopo che Trump ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale d’Israele. Così, tanto per tenere il mondo sulla corda, per non farlo adagiare nella vana illusione che una conciliazione, magari in un futuro remoto, sia possibile.
A favore nell’Assemblea votano in 9. Oltre a Usa e Israele, paesi, con rispetto parlando, non di primissimo piano sullo scacchiere internazionale come il Togo, la Micronesia, le Isole Marshall, Nauru, Palau. Contro, in 128, praticamente tutto il resto del mondo, tranne i 35 astenuti. Tra questi, per carità di (altrui) patria, ci sono alleati eterni e inossidabili come Australia e Canada che, stavolta, proprio non se la sono sentita. Non so se gli Stati Uniti abbiano mai subito in una sede analoga una disfatta tanto rovinosa e cocente.
Nikky Haley, ambasciatrice statunitense all’Onu, non l’ha presa bene e ha minacciato 128 (o 163) Paesi, ammonendo che gli Usa ricorderanno i nomi (sarà una lunga lista da tenere a mente) di chi ha votato contro, mancando di rispetto, chissà perché ai gloriosi Stati Uniti. Proprio a loro, che sono tra i maggiori finanziatori dell’Onu. Della serie, chi paga decide. Gli altri dietro come cani a fiutare l’osso.
Così ad occhio sembra una dimostrazione di come Trump non capisca un cazzo di diplomazia, né di politica internazionale, né di politica, né dell’animo umano.
Pochi giorni prima, una notizia ancora più allarmante. Devo dire che questa è l’uscita dell’amministrazione post-Obama che più mi ha terrorizzato. Sicuramente ci sono decisioni più drammatiche, che mettono in gioco la vita e il destino di milioni di persone, ma qui mi sembra che a essere messa a rischio sia la salute e l’integrità mentale dell’umanità.
Qualche giorno fa il Washington Post ha riportato che un rappresentante dell’amministrazione Trump ha comunicato ai membri del Centers for Disease Control and Prevention che alcuni termini non avrebbero potuto più essere usati nei documenti ufficiali. Sette parole, per la precisione (tanto per cominciare?): vulnerable, entitlement, diversity, transgender, fetus, evidence-based e scienca-based. E cioè vulnerabile, diritto, diversità, trangender, feto, basato sui fatti, basato sulla scienza. Confermato, smentito? Il WP in genere non scrive a vanvera e i precedenti ci sono già e sono clamorosi, come (lo riporta il New York Times) la rimozione delle notizie sul riscaldamento globale dal sito dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, o quelle sulle persone LGBT da quello della Sanità.
Nella lista delle parole si legge l’ossessione bigotta e prevaricatrice della cosiddetta élite che ha sostenuto Trump, un’accozzaglia di creazionisti, sessisti, omofobi, dispregiatori non solo dei diversi ma anche semplicemente dei più deboli (vulnerable!). Chissà come faranno i ricercatori sulle malattie prenatali a farsi finanziare le ricerche senza mai nominare la parola “feto”. Dovranno rinunciare, oppure ingegnarsi a inventare qualche perifrasi. A quanto pare qualche generoso suggerimento governativo c’è già: al posto di “basato sulla scienza” ad esempio si dirà: “basato sulla scienza in considerazione degli standard e dei desideri della comunità”. Non più la scienza dunque. Meglio l’opinione comune, anche se becera o semplicemente profana e ignorante. Non più i fatti. Meglio le opinioni, le credenze, le notizie false che devono avere la stessa dignità delle notizie vere (beh, coerente: abbasso la diversità).
Non so a voi, a me, così di primo acchito, mi sono venuti in mente lo stalinismo che cancellava le facce dalle foto e i nomi dai documenti, reinventando una storia fittizia e menzognera a proprio comodo e a uso e consumo delle masse, magari sperando che corrispondesse “agli standard e ai desideri della comunità”.
O Galileo Galilei in ginocchio davanti agli Inquisitori - la scienza in ginocchio davanti al potere - che, per evitare la tortura, abiura e ammette che è il Sole a girare intorno alla Terra. Trump e i suoi non hanno neppure la scusante del potere della Chiesa e della religione, l’appoggio del buon senso che vedeva il sole muoversi intorno alla terra, le prove scientifiche (sbagliate) che supportavano l’evidenza fisica.
Ma forse la regressione più che storica o infantile (non dire le parolacce!) o psichiatrica è antropologica. Non so se a voi sembri altrettanto grave, ma cancellare le parole vuol dire cancellare una parte di mondo. Per alcune popolazioni primitive i nomi dei defunti diventavano tabù, impronunciabili, costringendoli a faticose perifrasi per descrivere il mondo quando quei nomi contenevano riferimenti a cose o animali o luoghi. Dare un nome alle cose crea il mondo, lo definisce, lo trae dal caos dell’indistinto e gli dà un ordine intellegibile, costruisce le strutture del pensiero e del linguaggio con cui lo si esprime. Togliere il nome alle cose significa distruggerle, negarle, impoverire il mondo, il pensiero, il linguaggio. E’ spaventoso anche il solo pensarlo. La zoologia comparata ha dimostrato che perfino tra gli animali risultano più evoluti, comunicativi e innovativi quelli che hanno un vocabolario fonetico più ampio.
Forse per capire la politica trumpiana più che un analista politico occorrerebbe un analista della psiche, un bravo terapeuta, o forse un antropologo capace di spiegare le strutture mentali dei primitivi.
Stop al pensiero illuminista e razionale; stop a quel fesso di Darwin; stop a quei presuntuosi di scienziati; stop all’evidenza dei fatti, alle certezze della scienza e anche ai suoi dubbi e alla sua perpetua ricerca di verificabilità o di confutazione delle teorie.
O forse Trump e i suoi pensano semplicemente che chi ha soldi e potere possa comprare tutto. I voti all’Onu, l’obbedienza ai propri capricci; le parole, il linguaggio, la ragione, il pensiero. I fatti, la scienza, la verità.
Mi viene in mente un’altra immagine (dopodiché ho trovato in rete la vignetta che illustra questa pagina, e non ho resistito alla tentazione di usarla); non dice abbastanza, ma eccola qui: un piccolo grande dittatore che gioca a palla con il mappamondo del pianeta. Che rischia di scoppiargli tra le mani. Con noi sopra.

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THANK YOU FOR THE APOCALYPSE

12/16/2017

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COUS COUS KLAN, uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo, drammaturgia di Gabriele Di Luca, regia di Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi

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Non è facile oggi scrivere una drammaturgia contemporanea che sia capace di attirare pubblico a teatro e che nello stesso tempo riesca a dirci qualcosa di cosa voglia dire essere uomo o donna nel nostro tempo.
Gabriele Di Luca con la Carrozzeria Orfeo (cui già si devono diversi spettacoli premiati, come Animali da bar e Thank you for vaselina, in procinto di diventare un film) ci prova con buoni risultati con Cous Cous Klan, che già nel titolo preannuncia temi come l’immigrazione e il razzismo, presenti ma non centrali nell’opera, proiettando deformati in un futuro distopico temi e angosce del nostro tempo, ma osservandoli nello stesso tempo con la lente dell’ironia se non della comicità.
Cosa non poco, Cous Cous Klan, pur nella rigidità della scenografia, costruisce in maniera visionaria un mondo altro, che riecheggia però in modo inquietante quello in cui viviamo. Due roulotte immobili e scalcinate, la carcassa di un automobile, una doccia che (forse) non funzionerà mai più: siamo in un futuro in cui l’acqua è stata completamente privatizzata, ed è diventata un bene raro e prezioso, oggetto di desiderio, di scambio e di mercimonio. Mentre i ricchi vivono conservando i propri privilegi in città recintate e blindate, noi ci troviamo di fronte una comunità di reietti: Caio è un ex-prete, sprofondato in un sarcastico nichilismo, che sopravvive derubando cadaveri insieme al fratello Achille, sordo e omosessuale, che cova razzismo e una violenza repressa; la loro sorella Olga, è una donna corpulenta e orba, ormai in là con l’età, che sogna di rigenerare quella figlia di cui si sbarazzò in gioventù, cercando di farsi fecondare da Mezzaluna, un immigrato mussulmano, omofobo, sospeso tra la tradizione religiosa e la corruzione del mondo in cui si trova a vivere, spalando rifiuti tossici; i nuovi venuti in questa bizzarra comunità sono infine Aldo, un pubblicitario che ha perso status, reputazione e lavoro a causa di un episodio di pedofilia e Nina, una ragazza che si prostituisce per procurare le medicine al padre e che è soggetta a comportamenti schizofrenici e paranoici dopo una notte di sesso e violenza con due potenti (un uomo di Chiesa e un magnate della finanza), che hanno in spregio la vita umana.
In questo microcosmo, tra i rottami di una civiltà in rovina, nei pressi del “cimitero degli zingari” che allude ad ulteriori atrocità, si scatenano le dinamiche tra questo gruppo grottesco e male assortito. Razzismo, desiderio, voglia di riscatto, disperazione: tutto sembra avere una svolta con l’irruzione in scena (completamente nuda) di Nina, con la sua energia febbrile e ribelle, che sembra poter scuotere gli altri dal torpore coinvolgendoli nella più assurda delle imprese: rubare una sacra reliquia, il prepuzio di Gesù (sic), che potrebbe arricchirli e cambiare le rispettive vite.
Sprofondati nelle miserie materiali e morali, in fondo tutti in personaggi si rivelano in cerca d’amore: Caio che, persa la fede, vorrebbe ridare un senso all’esistenza e al mondo, e intravvede una possibilità nell’amore per Nina; Aldo, un brav’uomo che vorrebbe rimediare al proprio errore infamante; Achille, che sotto i comportamenti e le minacce violente non desidera che un po’ di affetto; Olga, che vorrebbe riparare con una vita alla vita che gettò via; Mezzaluna, che vorrebbe una vita migliore sciolto dai legami dell’influenza dell’autorità paterna; Nina, che vorrebbe resuscitare dalla discarica di abiezione in cui è (stata) precipitata.
Il finale rimescola le carte tra realtà e fantasia, ma rifiuta tanto la consolazione che il totale nichilismo.
Se lo scenario è apocalittico, il testo (cinico e indifferente al politicamente scorretto, irriverente fino alla blasfemia) è costantemente virato dai toni più cupi grazie a una scrittura sapidamente ironica e da tocchi buffi e grotteschi, che rendono lo spettacolo assai godibile e divertente senza nulla togliere alla tragica umanità del quadro complessivo, alternando la trivialità delle situazioni rappresentate all’aspirazione a sentimenti inconsciamente sublimi.
La scena (di Maria Spazzi), pressoché immutata dall’inizio alla fine, viene modificata soltanto dal gioco dalle luci (di Giovanni Berti), ma è la dinamica degli interpreti in scena a mantenere costantemente vitale (per una durata di due ore abbondanti senza intervallo) il ritmo dello svolgimento drammaturgico.
Sembra impossibile, ma alla fine ci si affeziona un po’ a personaggi tanto estremi. Tra tutti, impegnati ed efficaci a dare carne e credibilità a maschere grottesche (in rigoroso ordine alfabetico, come da locandina, gli attori sono Angela Ciaburri, Alessandro Federico, Pier Luigi Pasino, Beatrice Schiros, e i due coregisti Massimiliano Setti - anche autore delle musiche – e Alessandro Tedeschi), mi sento di preferire l’interprete di Achille, il vulnerabile handicappato violento in cerca in tenerezza.


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DALLA PARTE DI CARAVAGGIO

12/2/2017

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L'ULTIMO CARAVAGGGIO - EREDI E NUOVI MAESTRI 
Gallerie d'Italia, Milano - 30 novembre 2017 > 8 aprile 2018

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Gallerie d’Italia, in parallelo alla mostra Dentro Caravaggio che si tiene a Palazzo Reale, propone un’esposizione dedicata a L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri, intesa ad esplorare il panorama pittorico italiano contemporaneo e successivo al passaggio, veloce ma definitivo, di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, attraverso la penisola e nella pittura del suo tempo, destinato a lasciare una traccia indelebile nella storia della pittura mondiale.
La mostra si concentra in particolare su tre città, Napoli (all’epoca la più popolosa città italiana), Milano e Genova, dove operano i due geniali mecenati e collezionisti Marcantonio e Giovan Carlo Doria.
Il fulcro tematico, logistico e iconografico della mostra è rappresentato dal Martirio di Sant’Orsola (una martire bretone uccisa a colpi di freccia per essersi rifiutata al re unno Attila), presentato in tre interpretazioni diverse: quella di Caravaggio, dipinta a Napoli nel 1610 - pochi mesi prima della sua morte prematura, seguita ad una serie di peripezie e fughe dalla legge che lo inseguiva dopo che si era macchiato di diversi delitti – su commissione di Marcantonio Doria; quella di Bernardo Strozzi, dipinta qualche anno dopo a Genova per l’altro Doria, Giovan Carlo; e quella di Giulio Cesare Procaccini, milanese d’adozione ma anch’egli operante nell’orbita genovese, dipinta ancora qualche anno più tardi, intorno al 1620.
La differenza tra le altre opere salta gli occhi anche del profano: le figure di Caravaggio emergono al solito da una tenebra profondissima (si è accertato che il pittore stendeva il fondo scuro su tutta la superficie della tela, dipingendovi sopra solo le parti delle figure che dovevamo emergere alla luce, e lasciando intonso il resto della campitura), scolpite a macchie violenti da un secco taglio di luce la cui fonte invisibile è posta alla destra in alto al di fuori della cornice del quadro. Il carnefice con l’arco – la freccia è già scoccata - è un vecchio; un altro volto più giovane sporge proteso al di sopra della spalla della santa, tirato da un’oscena curiosità e dal timore di non riuscire a vedere bene il martirio. Un altro paio di volti sono illuminati solo in minima parte, riflessi freddi fanno balenare il metallo brunito delle armature. La pelle della santa - sul viso, sulle mani, sulla scollatura della veste - è grigiastra. Il viso chinato verso l’arma che la condanna a morte è quasi immobile, in un doloroso stupore, un’amara incredulità. L’onda rossa del mantello che sale dal basso guida lo sguardo dello spettatore alle mani raccolte al seno, dove spunta tra gocce di sangue l’asta di una freccia.
Nell’attimo cristallizzato  dal quadro si sta svolgendo una tragedia, e il buio onnipresente è insufficiente ad occultarla, una luce cruda ne rivela l’ineluttabilità quasi oscena.
A fianco c’è il martirio dello Strozzi. Anche qui lo sfondo è cupo, la luce cade più o meno dalla stessa direzione di quella caravaggesca, ma le figure principali sono meglio illuminate e i colori più caldi, il carnefice indossa un turbante bianco e rosso e una fusciacca rossa sul petto, la santa bene illuminata alza gli occhi al cielo con una smorfia di dolore, le braccia allargate, una mano in su e l’altra in giù. Già le figure sembrano in posa, la postura di Orsola è enfatica, la scena retorica. Più in là il terzo martirio, quello del Procaccini. Gli incarnati sono ancora più caldi, il viso e il collo della santa illuminati da luce bianca; lei alza lo sguardo e un braccio verso l’alto, l’arciere con il suo arco teso occupa più di metà del quadro imponendo una direttrice diagonale. I panneggi svolazzano, i rossi dei vestiti e i colori quasi bronzei dei personaggi impongono tonalità calde all’intero il quadro. Anche qui l’impostazione è teatrale, enfatica, le azioni e i sentimenti sottolineati. Ci sentiamo più dalle parti della reinvenzione manieristica e ludica della mitologia classica piuttosto che della sacra rappresentazione, o semplicemente della descrizione di un episodio atroce.
Più che di “eredi”, si tratta quindi in questi casi di quelli che il titolo della mostra designa “nuovi maestri”. Un abisso di sensibilità, di rigore, di ricerca del vero sembra separare il naturalismo austero del Caravaggio e l’enfasi già barocca degli altri due, sulla pittura dei quali l’esempio del primo sembra aver influito ben poco.
Parlo da profano, ma rivelo la mia partigianeria. Non amo molto la pittura del ‘500 e del ‘600 (e del ‘700), fatta eccezione per alcune insopprimibili, inevitabili eccezioni. Caravaggio è per sempre tra queste.
Della mostra perciò apprezzo soprattutto quello che si si mantiene vicino alla lezione epocale di Caravaggio, meno quello che si allontana da essa o non la tiene in considerazione, tendendo invece verso la deriva barocca. Giovanni Battista Caracciolo, detto il Battistello, a Napoli, mi sembra quello che meglio tra gli autori esposti raccoglie gli insegnamenti del Merisi. A dimostrarlo un paio di tele significative come il Cristo porta la croce, dove il protagonista eponimo è relegato di scorcio ad una zona male illuminata sulla destra del quadro, mentre il fuoco della rappresentazione è puntato in modo apparentemente incongruo sulla bianca schiena nuda di un seguace inginocchiato, che emerge dalla vampata rosso vivo del panno che gli cinge i fianchi. La lezione di verismo del maestro è rintracciabile fin nel particolare delle piante dei piedi sudicie in primo piano. Nel Battesimo di Cristo le figure sono isolate e sbalzate dal nero dello sfondo dalla pura luce, quasi in assenza di colori. Un altro fedele seguace appare Simon Vouet, autore di un Davide con la testa di Golia (soggetto già trattato più volte dal Merisi) che ritrae un eroe adolescente che volge altrove lo sguardo del volto dalle labbra carnose e sensuali. La ricerca sulla luce porta poi Mathias Stom, originario dei Paesi Bassi ma attivo nell’Italia settentrionale, a sperimentare sulla luce artificiale, come nei tre grandi quadri esposti in mostra, con le figure rese vivide e nitide dalla vampa delle torce (la stessa linea conduce ai dipinti a lume di candela del de La Tour, non presenti in mostra ma ammirati qualche anno fa a pochi metri da qui, a palazzo Marino) .
Tra le altre opere esposte, tuttavia, ho apprezzato anche alcuni lavori del Procaccini: impressionante l’Ultima cena (1618), dagli echi leonardeschi, innanzitutto per le sue dimensioni, con oltre 40 mq di superficie dipinta e figure a grandezza sovrannaturale, rinato dopo un accurato restauro che gli ha restituito vividezza e splendore. In una dimensione più intima, bello anche la Sacra famiglia, costruito su una diagonale luminosa formata dal corpo del bambino e dai visi della Madonna e di Giuseppe, collegati dal gioco degli sguardi incrociati, cui fa da contrappeso la verticale del braccio di Maria che la sostiene e le dà equilibrio.
Da sottolineare sempre, per chi già non la conoscesse,  la bellezza della cornice dell’esposizione, ospitata dall’ex-sede della Banca Commerciale Italiana, oggi sede di mostre temporanee oltre che della collezione d’arte di Intesa Sanpaolo. Il palazzo è opera di Luce Beltrami, che alla fine dell’800 rimaneggiò anche la facciata di palazzo Marino e ridisegnò piazza della Scala. Saloni sontuosi, scalinate monumentali, soffitti vetrati, decorazioni a stucco, profusione di ferro battuto (che protegge ancora anche quelli che furono gli sportelli bancari) garantiscono alle mostre delle Gallerie d’Italia un ambiente suggestivo che rappresenta un valore aggiunto alla visita.
 

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    Mauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà.

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