THE FLICK di Anne Baker, regia di Silvio Peroni La scenografia rimane sempre identica: qualche fila di sedie di cinema rivolte verso il pubblico, alle spalle la torretta della cabina di proiezione, sul pavimento, risporcato a ogni buio in palcoscenico, i resti lasciati dagli spettatori dopo la fine del film: pop corn, cartoni, sacchetti di patatine, resti di insalata e macchie di bibite. Siamo dentro al Flick, un vecchio cinema dove si proiettano ancora film in 35 mm, mentre tutto il resto del mondo sta passando alla proiezione in digitale. I personaggi (tranne uno spettatore addormentato) sono solo tre: Rose, la proiezionista, Sam e l’ultimo arrivato, Avery, addetti alle pulizie, al botteghino e al bar. Niente cambi di luce, se non l’accendersi e lo spegnersi delle luci in sala, o su in cabina, o il fascio di luce che ogni tanto esce dalle finestrelle di proiezione. E niente musiche o rumori aggiunte, se non il ronzio del proiettore in funzione o qualche brano di colonna sonora, o “Le tourbillon”, la canzone cantata da Jeanne Moureau in Jules e Jim, il film di Truffaut che, guarda caso, parla della relazione tra due uomini e una donna. Perché di questo parla The Flick, nella sua essenzialità: di due uomini e una donna. Tre persone trovatesi insieme per caso, sullo stesso posto di lavoro, a ripulire lo sporco lasciato come scorie materiali dal passaggio dell’immaginario e dalla condivisione di sogni, a condividere una quotidianità che inevitabilmente porta alla confidenza, e al complicarsi dei rapporti. Gradualmente, scena dopo scena, mentre si discute di cinema e della cresta da fare sui soldi incassati per integrare la sottopaga, di merda da pulire nei cessi e di dolori personali, di problemi famigliari e di film che contano veramente. Avery è un cinefilo duro, appassionato e enciclopedico, per il quale l’amore per i film (mentre il suo lavoro è spazzare i pavimenti di un cinema) funziona anche da filtro nei confronti di un mondo in cui non si sente a proprio agio (e se nel mondo tutti recitano una parte, allora è preferibile il mondo dichiaratamente fittizio del cinema); Sam, non più giovane, ma rimasto confinato nella più umile delle mansioni, cova sotto l’apparente bonomia dispiaceri famigliari e soprattutto il dolore di un amore inappagato; Rose ha un’apparenza dura, tanto da poter sembrare una lesbica, ma convive con la sofferta e consapevole incapacità di mantenere una relazione sentimentale stabile. Avery, Sam e Rose sembrano vivere ciascuno in una propria bolla esistenziale, in cui stabilire un vero rapporto con gli altri è problematico. Eppure nella sala cinematografica deserta, giorno dopo giorno, si dipana e si scatena la dinamica dei rapporti, tra amicizia, amore, desiderio, gelosia, invidia, senso del tradimento, simpatia, condivisione della propria intimità. Il testo di Annie Baker (poco più che trentenne quando The Flick vinse nel 2014 il premio Pulitzer), disegna il delinearsi e lo svilupparsi dei caratteri e dei rapporti con ammirevole finezza e naturalezza, prendendosi il lusso di una lunghezza inusuale, accumulando quadri su quadri in cui nulla sembra accadere mentre in realtà tutto cambia insensibilmente e tutto acquista senso. Tra chiacchiericcio (con tanto di “normale” turpiloquio) e citazione cinefile, umorismo e malinconia, il testo restituisce alla fine tre ritratti generazionali delineati con grande umanità e tenerezza. Pur essendo un testo estremamente contemporaneo nel linguaggio, nel contesto e nei personaggi - tre giovani o diversamente giovani alle prese con precariato lavorativo e con una difficile definizione di un’identità sociale, sessuale e esistenziale -, The Flick appare nello stesso tempo anche come un testo profondamente cecoviano. Le vicende dei tre, sognatori che non sanno fare abbastanza per realizzare i propri sogni, romantici sospesi tra le velleità di una vita differente e una sorta di abulia o di sospensione esistenziale che blocca ogni loro tentativo di azione, si stagliano significativamente nell’epoca del passaggio dalla proiezione da pellicola a quella in digitale. La vendita di The Flick, l’acquisto da parte di un nuovo proprietario che si disferà del vecchio proiettore spezzando il cuore di cinefilo romantico di Avery e che vieterà a Sam di portare l’inseparabile cappellino che ne nasconde la precoce calvizie, sta a The Flick come la vendita e il taglio degli alberi sta a Il Giardino dei ciliegi cecoviano: il cambiamento ineluttabile anche se indesiderabile, e anche l’implacabile avanzare della realtà prosaica che spazza via velleità e sentimentalismi. Silvio Peroni, amante del teatro contemporaneo, in particolare di quello anglosassone, asseconda perfettamente il testo, mantenendolo nella sua nuda eppure ricca essenzialità, non risparmiando sulla durata (ma potrei citare innumerevoli spettacoli in cui la visione di dieci minuti affaticava di più delle due ore e 40 minuti di durata di The Flick), gestendo con autorevolezza anche i silenzi e i momenti di imbarazzo, con una regia invisibile che esalta la scelta naturalistica (o iperrealistica) della narrazione. Di grande efficacia il lavoro con gli attori, tutti perfettamente allineati sulla linea di una credibile e godibile naturalezza: da Sara Putignano (già diretta da Peroni in Cock), che evita abilmente le trappole del personaggio forse più a rischio di stereotipizzazione, ad Alberto Malanchino, il ragazzo forte in cinefilia e fragile nella vita, e a Mariano Pirrello, che conquista il cuore con un’interpretazione mimetica piena di umorismo e di malinconia. Di sabato sera, il teatro Verdi (il testo è in prima nazionale) non era molto affollato (forse lo sarebbe stato di più se la pubblicità avesse insinuato - cosa d'altra parte letteralmente vera - che ci sono due che scopano per tutto lo spettacolo?). Un vero peccato, perché The Flick è uno spettacolo intelligente, emotivamente coinvolgente e divertente che merita di essere visto da tutti (affrettarsi: è in scena fino al 19 marzo; ma dal 21 Peroni rimette in scena la Baker con The Alien, stavolta al Filodrammatici). E per i cinefili (quale io mi reputo) è assolutamente da non perdere: da culto, il giochino sui gradi di separazione che separano gli attori, in cui bisogna risalire da un attore all’altro ricostruendo la catena di chi ha lavorato con chi in quale film, o le discussioni sui film americani veramente grandi degli ultimi dieci anni...
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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