STORIE DELLA TUA VITA di Ted ChangHo letto Storie della tua vita di Ted Chiang (Frassinelli, nov. 2016, ma esiste una precedente edizione di Stampa Alternativa & Graffiti) incuriosito soprattutto di leggere lo spunto originario da cui è stato realizzato il non facile adattamento di Arrival, il film di Denis Villeneuve su cui ho nutrito sentimenti contrastanti, tanto da recensirlo due volte (“Un’annunciazione” e il face/off “Tom & Jerry, le megaseppie venute dallo spazio”, cui si aggiunge “La lieta novella”, articolo per Segnocinema). Devo dire che, letti i racconti più brevi, ero un po’ deluso e tentato di interrompere la lettura. Per fortuna non l’ho fatto, perché è nei testi più estesi che si rivela il genio di Chiang. Si tratta di fantascienza nel senso più stretto e letterale del termine, poiché ogni racconto prende lo spunto da un tema prettamente scientifico. Ci sono racconti che esaminano le conseguenze esistenziali della ricerca nella matematica pura, o il rapporto dell’umanità con una scienza del futuro dove scoperte e avanzamenti sono realizzate e gestite dalle intelligenze artificiali, ormai al di fuori della portata della mente umana. Storia della tua vita, il breve racconto da cui è tratto Arrival, parla di come una linguista, chiamata a decriptare il linguaggio degli alieni atterrati sul nostro pianeta, scopra che la forma mentis attraverso cui si esprimono gli extraterrestri implichi una (peraltro inutile, la fantascienza di Chiang è tutt’altro che consolatorio, se non in maniera beffarda) conoscenza del futuro. Ma, come dicevo, è nei testi più lunghi (almeno quattro dei quali, tra l’altro, sembravano presentare spunti molto più cinematografabili rispetto al conciso, ostico e povero di avvenimenti Storia della tua vita) che si esplica la notevole capacità di Chiang di proporre e gestire complessi temi di riflessione, profondi e risonanti, radicati nella nostra cultura e nello stesso tempo spesso molto attinenti all’attuale dibattito delle idee. Laureato in informatica e sicuramente ferrato o curioso di diverse discipline scientifiche, Chiang mescola le sue competenze tecniche e scientifiche, in grado di dare struttura e credibilità alle sue trame narrative (talvolta molto esili, evidentemente secondarie rispetto agli interessi dell’autore), a temi di filosofia morale, della scienza o politica. Più volte, addirittura, vengono toccate tematiche religiose. In Torre di Babilonia la descrizione (fantatecnicamente ben congegnata) dell’ambiziosa ascesa umana verso la volta celeste culmina con la (frustrante) scoperta relativa alla inaspettata forma dell’universo; in Settantadue lettere si riesuma il mito ebraico del golem e della ricerca sui nomi di Dio; ne L’inferno è l’assenza di Dio ci si interroga sull’iniqua distribuzione delle fortune e delle sventure terrene (e ultraterrene ) e sul rapporto con la fede in Dio in un mondo dove terrificanti apparizioni di angeli divini distribuiscono in modi assolutamente incomprensibili miracoli, guarigioni e fortune, così come, con altrettanta imperscrutabile indifferenza, lutti, menomazioni e afflizioni. Nel già citato Settantadue lettere, in un’ambientazione quasi steampunk, in una distopica Londra ottocentesca, i temi del golem e della cabalistica ricerca dei nomi di Dio si mescolano a riflessioni classiche, da una parte sugli esiti di una rivoluzione industriale (qui legata appunto alla creazione di automi – che forse un giorno saranno in grado di produrre autonomamente altri automi) che può portare benefici alle classi meno abbienti ma nello stesso tempo sottrarre lavoro e abilità alle maestranze umane; dall’altra sull’uso politico e supremaziale della scienza nelle mani delle élite di potere. C’è anche una trama con riunioni segrete, laboratori dove la scienza si mescola al misticismo e all’occultismo, e perfino omicidi, inseguimenti e salvataggi all’ultimo minuto, ma è più che mai evidente quanto il meccanismo puramente narrativo interessi poco a Chiang rispetto alla riflessione filosofica e politica. Apparentemente privo di un vero sviluppo narrativo è poi l’ultimo racconto della raccolta Amare ciò che si vede, che viene definito, appunto, un documentario: il dibattito che si sviluppa all’interno di un college americano sull’applicazione della calliagnosia - una tecnica neuronale che inibisce l’apprezzamento della bellezza nell’aspetto umano, allo scopo di ridurre le discriminazioni ai danni delle persone meno attraenti, stimolando invece l’attenzione verso i pregi complessivi della personalità - è invece la sapida, stuzzicante occasione per riflettere in termini tutt’altro che banali sullo strapotere dell’immagine nella società contemporanea, sulle pari opportunità, sulla libertà di scelta, sull’industria della bellezza e dell’apparenza, sul ruolo dominante della pubblicità e della comunicazione pubblica nell’orientare e determinare i comportamenti sociali, sulle dinamiche delle relazioni interpersonali, sul difficile rapporto tra naturalità e modificazioni culturali, sul diritto della tecnologia a interferire con la sfera della personalità e dei processi percettivi e cognitivi, e così via. Non prestate attenzione alle astronavi e ai volti hollywoodiani in copertina, quindi, ma non lasciatevi nemmeno intimorire dallo spessore filosofico dell’opera: pur sempre di letteratura si tratta, di letteratura intelligente, stimolante, godibile e intellettualmente assai divertente. E al giorno d’oggi non mi sembra sia poco.
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LO STRANO CASO DEL DOTTOR JECKYLL E MISTER HYDE, da Robert Louis Stevenson, adattamento, regia e spazio scenico di Marco RampoldiDicevo in un recente post di una sorta di vena neogotica che attraversa la stagione teatrale milanese. La settimana scorsa, su un palcoscenico alternativo della scena milanese, è stato rappresentato un altro classico della letteratura horror anglosassone, ovvero Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde. Siamo ormai nel 1886, e Freud di lì a pochi anni descriverà la scissione della personalità tra Io, Es e Super Io, la sua teoria dell’inconscio e del subconscio e quella della forza delle pulsioni, quando Robert Louis Stevenson abbandona i paesaggi esotici dei suoi romanzi per chiudere nel perimetro claustrofobico di una Londra nebbiosa scissa tra abitazioni borghesi e rispettabili e sordidi quartieri popolari la favola nera di un uomo di scienza che decide di lasciare spazio e sfogo alla parte nascosta di sé, quella che cerca la soddisfazione dei desideri più bassi e bestiali (o che comunque non sono compatibili con la morale corrente). La storia è celeberrima, e ha già avuto una serie sconfinata di traduzioni per lo schermo e per la scena, dichiarati o meno. Ma l’adattamento di Marco Rampoldi non segue né la via della performance attoriale della Debora Virello di Dame oscure né quella immaginifico ed evocativa di Bruni-Frongia-Teardo di Una serie di stravaganti vicende. Più che di una messinscena vera e propria si potrebbe parlare in effetti di una lettura teatrale, che si porta dietro purtroppo gli aspetti deteriori dei due termini. I due protagonisti (Flavio Albanese nel ruolo di Jeckyll/Hyde e Claudio Moneta in quello di Utterson) sono infatti zavorrati per tutto il tempo, tranne pochi dialoghi in cui i personaggi interagiscono tra loro, dai copioni che tengono tra le mani e su cui tengono gli occhi, aggiungendo per di più tutta l’enfasi e la melodrammaticità che si suppone – erroneamente – debba essere sovraccaricata a un testo narrativo per renderlo “teatrale”. Difficile trovare nella scarna messinscena di Rampoldi (una pedana allungata, qualche seduta, un velo, una porta) un’idea forte o originale, né un tentativo di rivitalizzare il testo di origine (che, come si diceva, ha un ruolo capitale e seminale per tanto immaginario del ‘900) e di dare un senso alla sua riproposizione oggi. La stessa schizofrenia cui cede il protagonista del racconto è d’altra parte riconoscibile anche nella personalità e nelle politiche del teatro No’hma. Fondato da Teresa Pomodoro, è una sala molto bella situata in zona Città Studi. Ma se da una parte è encomiabilissimo lo sforzo illuminista e pedagogico di offrire gratuitamente alla cittadinanza generose occasioni di cultura, spaziando dal teatro, musica, danza, il lato oscuro emerge nella politica dell’accoglienza. Anche qui le finalità sono nobili e condivisibili, e si possono riassumere nel tentativo di permettere al maggior numero di persone di assistere agli spettacoli, ma i risultati sono spesso deleteri. Bisogna prenotarsi, ma i posti non sono prenotati, per cui è necessario comunque presentarsi con largo anticipo e attendere sul marciapiede l’apertura delle porte; ma evidentemente le prenotazioni non sono commisurate all’effettiva capienza della sala, che viene stipata all’inverosimile dilagando con sedie aggiunte nel foyer e in spazi assolutamente insani. Mi è capitato di assistere al concerto di Van der Noot da dietro una larga colonna, che ostruiva qualsiasi possibilità di gettare anche solo una sbirciatina di scorcio al palco. L’ultima trovata è stata quella di posizionare la pedana nel mezzo della sala, probabilmente per migliorare la visione degli spettatori, dal momento che non si percepisce alcuna ratio registica – gli attori sono anzi costretti a faticose torsioni -, ma con la bella pensata di riempire il settore di fondo prima di permettere l’accesso al primo settore: con il risultato che chi è arrivato prima rischia di trovarsi nelle file più arretrate nella parte della sala più torrida, mentre chi è più in ritardo si accomoda nelle file più avanzate e arieggiate del primo settore. Alle mie rimostranze una gentile signorina – per assurdo situazioni allucinanti di accoglienza del pubblico vengono gestite e perfino agevolate da un cospicuo e volenteroso numero di addetti in sala – si dice dispiaciuta, ma si appella a disposizioni ricevute. Che non è mai una buona risposta, in particolare quando le disposizioni sono contrarie al buon senso. Soluzioni ci sarebbero: bloccare le prenotazioni quando si è ragionevolmente saturata la capienza della sala, aggiungere una replica se e quando è possibile, o introdurre un biglietto d’ingresso, anche modesto, che possa servire a dissuadere quella fetta del pubblico del “tanto è gratis “. Sono sicuro che la signora Pomodoro saprebbe trovare degnissime destinazioni agli incassi così realizzati. INCIDENTE NOTTURNO di Patrick ModianoRiconosco che è un po’ tardino per scoprire Patrick Modiano. Scrive dalla fine degli anni ’60, nel 2014 ha vinto il premio Nobel per la letteratura, ma solo qualche settimana fa ho notato un suo libro sullo scaffale della biblioteca, l’ho portato a casa e me lo sono letto, senza sapere di Modiano molto di più delle note sui risvolti di copertina. Incidente notturno è stato scritto nel 2003, ma è l’ultimo suo testo pubblicato in Italia, nel 2016, nei Supercoralli di Einaudi. Un personaggio di età indefinita – senza nome in un libro pieno di nomi – rievoca in prima persona un incidente subito in gioventù, in un indistinto passato, quando, di notte, una macchina guidata da una donna lo investe ferendolo leggermente. Entrambi vengono portati in ospedale; la donna gli tiene la mano; sprofonda in un sonno indotto dall’etere; poi un uomo lo avvicina e gli consegna una busta con una lettera e del denaro. Gli eventi al centro del romanzo non sono molti più di questi. Dalla notte dell’incidente, il protagonista comincia i suoi frustranti tentativi per rintracciare quella donna che l’ha ferito e gli ha tenuto la mano. Non c’è una figura materna nel passato del giovane. Quando era bambino, in un altro luogo, fu investito e una giovane donna viaggiò con lui nel furgoncino che lo portava all’ospedale, tenendogli la mano. Potrebbe essere (improbabilmente) la stessa donna? Potrebbe essere sua madre? Nel libro tutto sembra sdoppiarsi o moltiplicarsi, nello sfaldarsi dei piani temporali: ci sono due donne, due o più età del protagonista; due cani; due controfigure dell’immagine paterna (una che ne conserva le caratteristiche di ambiguo avventuriero; l’altra che incarna un altrettanto ambigua aura di autorità). Il padre l’ha già da tempo abbandonato al suo destino e alla sua precoce solitudine, in un movimento di allontanamento progressivo che si riflette anche nella topografia centrifuga dei loro incontri, che dal centro della città si spostano in zone sempre più periferiche. Topografia, toponomastica, onomastica occupano un ruolo centrale nel libro (come, scoprirò poi, anche nelle altre opere di Modiano, insieme ad altri elementi ricorrenti come i taccuini, la recherche, ecc.): strade e luoghi di Parigi che vengono attraversati dal sonnambolico flâneur sono puntualmente, puntigliosamente nominati, in una sorta di mappatura di un territorio psicogeografico vagato quasi in uno stato di trance attiva. A una toponomastica ossessiva che disegna una precisa mappa dello spazio, corrisponde una sostanziale indeterminatezza del tempo. E’ il narratore stesso a non riuscire a collocare gli eventi in epoche e momenti del passato; si accumulano e si sfaldano quindi il tempo senile della rievocazione mnestica, quello dell’infanzia, quello adolescenziale dell’abbandono paterno, quelli precedenti e successivi all’incidente fatale. Nel libro non ci sono date, le epoche rimangono confuse nel ricordo, indefinite e indeterminabili. E’ come se per tutta la vicenda il ragazzo si muovesse in uno spazio nebbioso e opaco, in cui solo i nomi servono a mettere dei punti fermi di riferimento, quei punti di riferimento di cui il giovane è alla ricerca, con mite disperazione e commovente tenacia. Come i luoghi sono precisati in un paesaggio mentale ai confini dell’onirico, così tutti i personaggi sono puntualmente identificati, quasi anagraficamente, con nome, cognome, indirizzo. Il narratore arriva al punto di annotare quelli, tutti falsi, con cui si registrava negli alberghi dove avevano luogo i suoi incontri con una giovane amante. Tutti hanno nomi, perfino immaginari; tranne il protagonista, il padre, la donna del furgoncino. E’ chiaro che il ragazzo non è alla ricerca semplicemente della sua investitrice, ma delle proprie origini e di un’identità che gli sfugge e che non trova appigli nel proprio passato. Incidente notturno finisce dunque per essere, letteralmente, un toccante romanzo di formazione postmoderno e postproustiano; la storia di un giovane alla ricerca di se stesso e di un approdo; di un ascensore che salga verso casa; di una persona al suo fianco che gli tenga una mano sulla spalla, e che gli sussurri una frase segreta all’orecchio. Un giovane così giovane da non ricordare il proprio passato e da non immaginare il proprio futuro; così giovane da desiderare che la gioventù si dissolva presto, e per sempre. UNA SERIE DI STRAVAGANTI VICENDE - Un omaggio a Edgar Allan Poe scritto, diretto e illustrato da Ferdinando Bruni e Francesco FrongiaUna vena neogotica ha attraversato la stagione teatrale milanese di quest’anno. Ne abbiamo visto almeno un paio 'di esempi. All’inizio dell’anno è stata la volta di Dame oscure, messo in scena nella piccola Sala della Cavalerizza del Teatro Litta, in cui Debora Virello, all’interno di una gabbia/uccelliera posta al centro della sala, con il pubblico disposto su tre lati, dava arditamente vita - e passione, tic, boccacce e ammiccamenti - a un paio di eroine ispirate alla letteratura anglosassone neogotica di fine ‘800-inizio ‘900, diciamo tra Bram Stoker e Henry James, evocando sulla scena spoglia visioni che sembravano uscire dalla pittura romantica. Qualche giorno fa è toccato invece a Una serie di stravaganti vicende, in scena nella sala Fassbinder del Teatro Elfo Puccini, un omaggio che Ferdinando Bruni ha voluto rendere a Edgar Alla Poe, il padre fondatore di tutto un immaginario neogotico che ha influenzato in misura incalcolabile la letteratura, le arti figurative e il cinema a venire. Se l’impulso iniziale è presumibilmente di Bruni (lo dimostra anche la mostra esposta nel foyer del teatro, cui accennerò in seguito), Una serie di stravagante vicende può essere considerata a tutti gli effetti un’opera teatrale a sei mani. L’elemento scenico, così come il contesto acustico, costituiscono in effetti elementi fondamentali dell’opera, che gli conferiscono carattere, originalità e fascino. Ferdinando Bruni è solo sulla scena, incarnazione nello stesso tempo dell’autore letterario e dei suoi personaggi, a dare corpo e voce a personalità malate, febbricitanti, allucinate, alle prese con le visioni dello straordinario e con la costante presenza della morte. Sopra il protagonista si levano in volo due ali scure, immediato riferimento alla poesia più famosa di Poe, Il corvo, che diventano poi il complemento di una figura femminile lugubremente appesa nell’aria sopra la scena, sinistro angelo della morte con le fattezze delle donne amate e precocemente scomparse presenti sia nella vita di Poe (la moglie, cugina sposata tredicenne e stroncata giovanissima dalla tubercolosi) che nelle sue opere in versi e in prosa. La piccola scena è a sua volta avvolta da teli-sudari, che strabordano dal palco verso il pubblico e su cui vengono quasi costantemente proiettate delle immagini: corvi in volo, scritture, segni astratti, accenni di paesaggi desolati; l’effetto è quello di produrre una fantasmagoria ipnotica (in una rigorosa bicromia) che evoca un ambiente continuamente cangiante, mobile, colmo di suggestioni visive, che anima quasi in continuazione la quarta parete e che modifica la profondità stessa della scena in un gioco continuo di luce, materia, segni, trasparenze e opacità. L’esito visivo, opera dello stesso Bruni e di Francesco Frongia (già assiduo e geniale collaboratore di Bruni e dell’Elfo), è di grande impatto, e ricorda a volte gli esiti del cinema (un po’ troppo precocemente trascurato) di Peter Greenaway, teso alla creazione di ipertesti visivi dove arti figurative, scrittura letteraria e cinema trovassero un nuovo punto di equilibrio. Egualmente affascinante è la componente sonora, affidata alla ricca gamma timbrica della voce di Bruni, qui ovviamente calibrata soprattutto su toni profondi, e dalla partitura sonora di Theo Teardo (compositore che frequenta tanto il cinema, con collaborazioni tra gli altri con Sorrentino, Salvatores, Vicari, che il teatro, con lavori per Motus, Societas Raffaello Sanzio, Elio Germano), che amplifica e sottolinea le suggestioni di testi e scena con rumori, tonfi, echi, accenni melodici che diventano addirittura canzoni straniate e dolenti nella recitazione di alcune delle più celebri liriche di Poe, come il già citato The Raven o Annabel Lee. La scelta dei testi è evidentemente tesa a costruire una sorta di apocrifo autoritratto psicologico dell’autore americano, quasi che i brani narrativi o poetici da questi scritti per descrivere lo stato mentale dei propri tormentati protagonisti diventassero una sorta di frammentaria autoanalisi dello scrittore stesso, spinto, anche dalle dolorose vicende biografiche, a fantasie morbose e all’uso e all’abuso di alcol e droghe. I due frammenti narrativi più lunghi, tratti da Il cuore rivelatore (di cui mi piace ricordare una messa in scena di anni fa, intitolata Luce nera, con la regia e l’interpretazione di Patricia Zanco, come anche la geniale trasposizione a fumetti di Alberto Breccia) e da Eleonore, rimangono interrotti, sospesi, privi di scioglimento. Il cuore rivelatore è addirittura il solo momento dello spettacolo in cui la macchina scenica audiovisiva si ferma, e il protagonista oltrepassa il velo della quarta parete per presentarsi direttamente, in un certo senso “nudo”, davanti al pubblico. E’ un vero peccato, però, non poter vedere il sofisticato apparato sonoro e figurativo messo alla prova con problematiche narrative e più propriamente drammaturgiche, anziché rimanere il preziosissimo involucro che avvolge come un bozzolo un testo che rimane quindi su un piano quasi astratto, o comunque non narrativo. Il titolo dell’intera operazione, a proposito, è a mio parere completamente fuorviante: non si tratta propriamente di una serie di vicende, poiché la narratività del racconto è in realtà continuamente frustrata e incanalata in una biografia immaginaria e immaginifica, e il termine stravaganti sembra inoltre introdurre un elemento di leggerezza e di eccentricità a vicende che sprofondano invece negli abissi della mente, del cuore e dell’umano dolore. D’altra parte, il fatto che da parte di Bruni non si tratti di un interesse né occasionale né superficiale è testimoniato dalla mostra Favole della buonanotte, una serie di tele su tavola esposte nel foyer della sala. Le Favole nascono dalle fotografie raccolte in un vecchio album comprato dall’autore alla bancarella di un rigattiere di Portobello Road. Si tratta di una sequenza omogenea di composizioni dove i soggetti (uomini, donne e bambini) in posa davanti a una macchina fotografica ottocentesca, diventano gli abitatori involontari di mondi allucinati, dominati dalle cupe e spente tinte del nero, dei grigi e dell’ocra, avvolti dai vortici delle pennellate, resi mostruosi dall’intervento del pittore, relegati nei piccoli quadratini delle cornici che non li difendono dal caos né gli permettono di raggiungere le piccole scale, irraggiungibili vie di fuga, che a volta figurano sullo sfondo. Piccole realtà di vite borghesi, stravolte dal tempo e dalla morte, dal caos che le avvolge e se ne fa beffe. Non molto dissimili dagli antieroi di Poe (o da Poe stesso), signori dell’800, che ci somigliano, alle prese con il disordine dell’esistenza e con il terrore della morte che distrugge le vite e gli affetti. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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