La mostra VOLI, di DIANA FORASSIEPI, si inaugura sabato 15 febbraio alle 18 all'ArtStudio 38 (via Canonica 38) di Milano e rimarrà esposta sino al 29 febbraio. Quella che segue è la recensione della precedente mostra dell'artista, tenutasi nel 2017 nella medesima galleria. Per chi conosce Diana Forassiepi, donna di raffinata, geometrica, quasi astratta eleganza, può essere sorprendente imbattersi nella sua pittura/scultura, così densa, materica, concreta, organica e apparentemente informe. Quella della Forassiepi è infatti una ricerca coerente, costante, infaticabile che ha per oggetto la materia. Si stenta quasi a inquadrare le sue opere nella scultura, perché spesso di adagiano su fondi e perché il colore riveste in esse un’importanza fondamentale; eppure vanno oltre la pittura per la loro costante tensione a emergere dalla superficie, a tradire la bidimensionalità del quadro, per diventare altrettanto spesso degli oggetti a tutto tondo, autonomi e liberi nello spazio che li circonda. Le composizioni si avvicinano e si apparentano a esperienze come quelle di Burri o dell’arte povera, e poverissimi sono i suoi materiali, strettamente aderenti alla poetica dell’object trouvé: pezzi di legno, metallo, conchiglie, carta, reti, pezzi di corda, a volte garze o catene. Eppure la materia bruta di partenza nelle opere di Diana non è mai abbandonata a se stessa, esposta nella sua nuda primigenietà. L’azione dell’artista è sempre tesa, in uno sforzo quasi percepibile, al superamento della materia bruta, al suo riscatto. Mi piace usare la parola ri-scatto perché contiene in sé contemporaneamente il senso della redenzione, dell’allontanamento da una condizione di colpa e di peccato, dell’elevazione, e nello stesso tempo quello del movimento, dello scarto, dell’azione che toglie la materia dall’inerzia per proiettarla in una dimensione nuova. Questo riscatto viene operato dalla Forassiepi, a mio modo di vedere, secondo una duplice direttrice. Una è quella del mito (a ben guardare, nel nome e nel cognome dell’artista sono già prefigurato sia il richiamo alla mitologia classica che quello sguardo che forza e passa al di là dell’opacità della materia). La materia delle sue opere appare infatti come quell’elemento primigenio che è sul punto di passare dall’inorganico all’organico, è la pasta iniziale da cui hanno origine le antropomitopoiesi, i miti sulla creazione umana: la terra, l’argilla, la polvere, fino a spingersi quasi al soffio vitale, cioè alla materia impalpabile che risveglia ciò che è inerte e senza vita alla dimensione dell’evoluzione e della vita. Ancora, è la cera delle ali mitiche, presenti in mostra, innestate multicolori su torsi ancora informi, quella materia plasmabile che permette di elevare (per poco) il terreno al celeste, la terra all’aria. A volte i suoi torsi sembrano dei prigioni, imbrigliati e trattenuti da qualsiasi tentazione prometeica o tantalica. Ma l’azione dell’artista si arresta prima di arrivare al mistero del logos. L’informe è sul punto di diventare forma e senso, la materia inorganica di diventare organica, ma il punto di passaggio non è ancora varcato. Nel mondo di Forassiepi non esiste ancora linguaggio, l’Aleph fecondatore, o la Parola, o il canto creatore non sono ancora stati pronunciati o articolati. Perfino i suoi libri esposti sono irrigiditi in una fissità materica che non permette di sfogliarli, di interpretarli, ancora - o di nuovo, nel caso si voglia leggere il percorso al contrario, come un ritorno dell’organico all’inorganico, della forma al disfacimento nell’informe, della vita alla sua residualità materica – come delle cose, degli oggetti muti nel loro inerziale, primordiale, afasico essere-nel-mondo. La seconda direttrice del riscatto, ed è quella che ci fa amare l’opera di Forassiepi, è la bellezza. L’occhio con cui Diana guarda la materia è intriso di una profonda pietas, quasi un’empatia verso la sua debolezza, impotenza e caducità che la induce a donare bellezza e preziosità ai più umili dei materiali. Così legni, metalli, tele, vengono nobilitati da riflessi ramati, bronzei, aurei; colori intensi e puri (ma mai qualificabili come violenti, perché la violenza non è contemplata nel mondo di Diana), rossi brillanti, blu turchese e cobalto, intervengono a volte con una semplice strisciolina di carta a donare uno scatto di bellezza alla povertà della materia. Scintille e scie di colore che assomigliano ad angeli custodi radiosi, che, benché muti e indifferenti, a volte capita illuminino di gratuita bellezza e di senso, per un momento, le nostre misere esistenze terrene.
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ROSALYN di Edoardo Erba, regia di Serena Sinigaglia, con Alessandra Faiella e Marina MassironiTutto ruota intorno a due donne. La trama sembra semplice: l’incontro tra Esther, scrittrice, intellettuale snob con qualche tentazione omosessuale, e Rosalyn, una ragazza delle pulizie ingenua e ignorante. Ma Esther ha imboccato la porta rossa sbagliata, e niente e nessuno è come sembra. A partire da un incontro apparentemente fortuito, le due donne vivono una giornata e una notte di (letterale) follia, rievocata distopicamente anni dopo da Esther in una stazione di polizia dove la verità viene gradualmente alla luce. La Rosalyn del titolo è una sorta di caleidoscopio, personaggio coerente che pure cambia aspetto e colore in continuazione: donna delle pulizie e ragazza alla pari, ingenua e finta ingenua, vittima di una sciagurata storia famigliare e abile manipolatrice, dormigliona e lettrice vorace, amante maltrattata e abusata e donna in cerca della propria autostima, assassina e poliziotta, oggetto del desiderio e proiezione dei sensi di colpa. Erba gioca di nuovo col tema della coppia, virandolo qui sul tema del doppio e portando la vicenda verso uno scioglimento a effetto, che forse avrebbe invece avuto da guadagnare da un margine maggiore di ambiguità, e applicando un meccanismo drammaturgico già visto al cinema (devo mordere la tastiera per non citare titoli rivelatori, sperando di non aver già detto troppo), ma molto meno a teatro. Si tratta di un espediente drammaturgico comunque generatore di senso, che attraversando progressivamente generi diversi, dalla commedia di strana coppia al noir e alla tragedia con deriva psico-metafisica, porta il testo molto più lontano rispetto allo spunto di partenza. Dirige Serena Sinigaglia (la fondatrice di Atir, che ha già curato le regie di diverse opere di Erba, come Nudi e crudi, Utoya, Italia anni dieci), che avendo a disposizione due attrici comiche come Alessandra Faiella e Marina Massironi, sfrutta accortamente nella prima parte tutti gli spunti umoristici (probabilmente non così palesi nel testo scritto), assecondando così le aspettative del pubblico, per spiazzarlo poi nell’evoluzione della storia. Le due interpreti affrontano con coraggio le metamorfosi (psicologiche) a vista dei rispettivi personaggi, all’interno della scarna e allusiva scenografia bicroma di Maria Spazzi, muovendosi spesso in precario equilibrio davanti al vuoto sotto la CN Tower, o davanti alle Niagara Falls, o sul terreno accidentato della discarica fatale, su un pavimento metaforicamente disgregato sotto i loro piedi. Pubblico soddisfatto: si ride, si rimane invischiati, ci si intriga, ci si inganna, ci si sorprende. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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