DELITTO E CASTIGO di Fedor Dostoevskij, adattamento e regia di Konstantin BogomolovIl regista russo Konstantin Bogomolov è tanto acclamato quanto contestato. I teatri se lo contendono, il pubblico accorre anche attirato dalle voci di scandalo. Bogomolov è provocatorio, irriverente, dissacrante. Stavolta a fare le spese delle sue impudenti riletture è Delitto e castigo di Dostoevskij, anche se taluni spettatori (o non spettatori) si sono accaniti in particolare sui simboli e le situazioni di carattere religioso presenti nello spettacolo, chiedendone addirittura la censura e protestando contro lo sperpero di denaro pubblico (da parte della produzione di Emilia Romagna Teatro Fondazione). La messa in scena di Delitto e castigo è attualizzata in una scenografia tra modernismo anni ’60 e contemporaneità, tra divani e monitor, anche se l’onomastica dei nomi, che rimangono quelli del romanzo russo, crea uno strano effetto di straniamento. Succede che Raskòl'nikov diventi un ragazzo di colore con le movenze da rapper. Sua madre e sua sorella, anch’esse con la faccia bistrata di nero, sono abbigliate con costumi tra l’Africa e il Brasile. Insieme, ballano al ritmo de La Bomba. La strozzina uccisa da Raskòl'nikov è un’anziana sbrigativamente trucidata dopo essere stata sottoposta a un’irrumatio da parte del negro. Lizaveta è un’handiccapata e viene uccisa anche lei. Poi Raskòl'nikov annega un neonato in un vaso da fiori. Il giudice istruttore è un omosessuale che a volte compare in divisa, a volte in vestaglia e calzini. Compaiono dei manichini, i monitor ogni tanto si accendono, senza alcun costrutto; un grande crocifisso di sesso ambiguo scende dall’alto (deus ex machina), Sonja gli si prostra davanti, culo rivolto al pubblico, con la minigonna che gli sale fino alle natiche. I negri sanno di Nutella, le negre giulive fanno la spesa all’Ovs. Ogni tanto c’è una fellatio simulata e sonorizzata al microfono, ogni tanto arrivano ansimi e gemiti di amplessi fuori scena. E’ la società di oggi? Quella in cui chiedersi se sia giusto uccidere, non è più, come afferma il regista, così importante? Il testo si frantuma, si spezza, si disperde. Si svilisce. Qualcuno esce dal teatro, scortati dalle maschere, forse preavvertite della possibilità. Qualcuno borbotta. Eppure c’è del buono. Si chiama Dostoevskij. Quello che ho raccontato prima si chiamava Bogomolov. Fuffa fastidiosa, al di sotto della quale ogni tanto trapela il testo. Con la sua forza disperata, definitiva. Con l’umanità andata a cercare negli stati e nelle situazioni più infime, brutali, avvilenti, degradanti. Tra la violenza cieca, il delitto, l’abbrutimento, la degradazione, il sacrificio di se stessi. In questi squarci si capisce che gli attori sarebbero anche bravi. Il monologo di Enzo Vetrano nella parte dell’ubriacone Marmeladov - che lascia che la sua giovanissima figlia si prostituisca sacrificando se stessa per cercare di mantenere la sua disgraziata famiglia - nella sua disarmante, semplice, crudele sincerità è probabilmente il momento più intenso e toccante dell’intero spettacolo. Senza pompini, senza borse del supermercato, senza inutili videocamere puntate sul nulla.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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