Fino all'8 gennaio è visitabile presso la Triennale di Milano la mostra “ANTONIO SANT'ELIA (1888-1916) – Il futuro delle citta'”. Sant'Elia vive 28 anni. Da bambino, vive nell'800. Dal 1914, lo stesso anno in cui pubblica il Manifesto dell'architettura futurista, disegna la città del futuro. Due anni dopo, da bravo futurista, va in guerra volontario e si fa uccidere con un colpo di mitragliatrice in fronte sulle montagne di Monfalcone. La mostra dedicatagli dalla Triennale è divisa in tre sezioni: una che ripercorre la vita di Sant'Elia, inquadrando la sua breve esistenza nel contesto storico-artistico; una che espone i disegni di Sant'Elia per la Città Nuova; e una che esplora le influenze di Sant'Elia sull'architettura e sulle arti. Partendo da quest'ultimo aspetto, tanto per intenderci, vengono esposte foto, disegni e progetti non solo dei suoi contemporanei, ma anche delle postavanguardie degli anni '60 del '900 e delle realizzazioni architettoniche più ardite del 21° secolo (fino a Reanzo Piano o a Liberskind; si tocca anche il cinema, passando sopra i grattacieli di Blade Runner, ma si trascura il fumetto – si pensi all'Alex Raymond di Flash Gordon, o al Moebius di The Long Tomorrow, solo per fare un paio di esempi). Perché Sant'Elia sembra essere da una parte allineato con la nascita coeva delle grandi metropoli americane, dall'altra precursore di idee, stili e soluzioni che sono attuali ancora o soprattutto oggi. Sant'Elia è uno che negli anni '10 del '900 disegnava gigantesche centrali per alimentare un futuro che sarebbe stato eminentemente elettrico (nel 1883 a Milano si costruiva la prima centrale elettrica europea, praticamente alle spalle dell'attuale Rinascente a due passi dall'abside del Duomo); che immaginava grattacieli dotati di ascensori esterni; che stratificava le sue città immaginate su differenti livelli dedicati rispettivamente al trasporto ferroviario, a quello automobilistico e al passaggio pedonale; che interconnetteva i palazzi con sinapsi fatte di ponti, gallerie, passerelle, tunnel; che prefigurava la necessità di integrare il trasporto ferroviario con quello aereo, in stazioni di interconnessione dove i livelli sono quelli dei binari ferroviari e delle piste aeroportuali, in un momento in cui gli aeromobili erano a metà tra gli arditi trabiccoli volanti dei pionieri e il triplano del Barone rosso. Ma insieme a una visionarietà che si avvicina alla preveggenza, a stupire ancora una volta nell'opera di Sant'Elia è la qualità artistica dei suoi disegni. Mescolando elementi del razionalismo che verrà e dell'art noveau, Sant'Elia mescola in modo magistrale la probità imperturbabile delle linee rette e le curve e le ellissi che conservano memoria dell'organico, nella figurazione di edifici monumentali e nello stesso tempo armoniosi, in un barocco della modernità dove gli elementi si aggregano affastellando implacabili geometrie e eleganti morbidezze. Stagliati imperiosamente su cieli di rossa o verde alienità, gli edifici di Sant'Elia sono proiezioni di un futuro che sembra alle porte, ma nello stesso tempo stupiscono come templi antichi appena emersi, come nuovi, dai viluppi di una vegetazione che si è ritirata oltre i margini del foglio da disegno; templi dedicati a culti ormai incomprensibili o ancora tutti da decifrare, pitturati come in effetti erano gli edifici dell'antichità. In questa sacralità del moderno futuro, da cui si rimane meravigliati e come sgomentati, l'uomo sembra non trovare posto. Nella raffigurazione di questi edifici dotati di una loro terribile maestosità, la figura umana è quasi del tutto assente, o quando c'è, è un segno stilizzato che di antropomorfo non conserva granché. Centrali elettriche, stazioni, case appaiono gigantesche macchine celibi ed autosufficienti, postumane, o incuranti dell'umano come di un residuo premoderno e inessenziale. E' infine un'opera quella di Sant'Elia godibile finanche nella sua materialità: non quella degli edifici realizzati (per contare i suoi progetti diventati realtà le dita di una mano sono troppe), bensì quella del disegno: dalla grana delle matite, al segno delle chine, alle stesure dei pastelli, su carte a volte spesse come carta di pacchi, brunite, a volte pastose, in alcuni punti a volte quasi oleose, segnate dall'uso e dalle stropicciature. E' forse questa materialità residuale che ci rassicura: dietro le visioni della città del futuro c'è ancora un occhio umano, una mano umana che ciancica la carta e la riempie di linee astratte e bellissime. Sempre alla Triennale ho visitato una seconda mostra di architettura: EMPATIA CREATIVA. Milano metropolitana: cinque cantieri di Mario Cucinella Architects, curioso di vedere in particolare il progetto della Città della Salute e della ricerca a Sesto San Giovanni, la città dove abito da sempre. In un alternarsi di edifici e di giardini, enfaticamente intitolati ad organi del corpo cui corrispondono funzioni dello spirito, il grande polo per l'innovazione medico-scientifica dovrebbe nascere dall'unione di Istituto dei tumori e neurologico Besta sulle grandi aree Falck dismesse, in base ad un'intuizione iniziale di Renzo Piano. Bello l'allestimento della sala, con al centro un boschetto di betulle. Oltre ai plastici, è possibile vedere, attraverso gli occhialoni che pendono dal soffitto, alcuni progetti in realtà virtuale immersiva. Ci si aggira per un nuovo museo dell'arte etrusca che dovrebbe essere realizzato in corso Venezia a Milano, tra ambienti che sembrano stilizzati ipogei litici; o ci si ritrova prima a metà altezza nel bussolotto di vetro della torre UnipolSai di Porta Nuova, tra la fuga verso l'alto della cupola oblunga o la vertigine dei piani sottostanti, poi all'esterno ad alzare gli occhi verso la sagoma che si staglia alta verso il cielo di Milano, così bello quando è (virtualmente) bello...
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Fidel è morto e il mondo si interroga e si divide intorno alla sua figura. Difficile trovare opinioni mediane: è stato un eroe socialista, un integerrimo condottiero rivoluzionario – è stato un dittatore che ha impoverito il suo popolo, gli ha tolto la libertà, ha combattuto gli oppositori con le prigioni e con la morte. In genere ciascuno loda o condanna in base ai propri pregiudizi o alle proprie convinzioni ideologiche. Castro disse che la Storia l’avrebbe assolto. Non so. Forse Castro resterà per sempre una figura discussa e contraddittoria, con luci e ombre. Contradditoria come la Cuba che abbiamo conosciuto. Siamo stati una sola volta a Cuba, nel 2001. Eravamo quattro amici, e siamo rimasti sull’isola quasi cinque settimane, percorrendola tutta via terra da L’Avana a nord a Santiago nel sud, da Baracoa a est fino a Maria La Gorda a ovest, dai cayos adagiati sul mare caraibico fino alle selvas della Sierra Madre. Malgrado fossimo in quattro su un’utilitaria a noleggio un po’ scalcagnata, abbiamo dato passaggi ad autostoppisti per un totale di più di trenta persone, abbiamo sempre dormito e quasi sempre mangiato in casas particulares (cioè in case private e mai in hotel e villaggi). Abbiamo quindi parlato con un sacco di cubani, per le strade, nei locali, sulle spiagge, in casa, durante i pasti o guardando la tv, e lungo i viaggi in macchina dove bisognava ammazzare il tempo ma soprattutto si soddisfaceva la curiosità di conoscere gli altri. Tutto questo non ci ha reso degli esperti di Cuba o tantomeno del castrismo, però un po’ di cose le abbiamo viste e sentite. Abbiamo visto un’economia spezzata in due, con alcuni, quelli che lavoravano a contatto con un turismo mal tollerato ma necessario in quanto diventata ormai la principale fonte di reddito del Paese, che guadagnavano pesanti dollari e altri che guadagnavano in miseri pesos; abbiamo visto i negozi speciali con prezzi rialzati per far spendere i dollari a chi li aveva e tentare così di ridurre le diseguaglianza; abbiamo visto perdigiorno che si offrivano di curarti la macchina (da chi? perché?) per un dollaro guadagnare probabilmente di più del responsabile del laboratorio di biotecnologia de L’Avana, obbligato per giunta a fare la professione cui gli studi, pagati dallo Stato e quindi dalla collettività, l’hanno preparato; abbiamo visto e sentito proposte di sesso (e qualsiasi cosa potessimo desiderare) e il controllo poliziesco, per le strade e perfino sulle spiagge, per evitare occasioni di mercimonio; abbiamo visto persone intraprendenti che si davano da fare e un controllo sociale strettissimo, esercitato anche dai vicini e dalle organizzazioni delle comunità; abbiamo visto i divieti per i cubani di mangiare certi tipi di alimenti (manzo, pesce pregiato, crostacei), riservati ad uso delle strutture turistiche, che poi ritrovavamo gustosamente preparati nell’intimità delle case che ci ospitavano; abbiamo visto le belle macchine americane degli anni ’50, splendide e spesso in panne, e le brutte macchine russe; abbiamo visto i bei palazzi del passato coloniale e gli orripilanti casermoni costruiti dai sovietici, dove talvolta furono deportati i cubani che vivevano lungo la costa per far posto agli insediamenti turistici; abbiamo visto persone chiederci soldi a loro dire per comprare latte condensato per i bambini, o per curare piaghe terribili, senza poter verificare i loro bisogni, e abbiamo visto il nostro amico, ustionatosi accidentalmente, venir curato gratuitamente in ospedali e ambulatori, e perfino a domicilio, in cittadine e fin nei più piccoli villaggi, senza che nessuno gli chiedesse un dollaro o un peso; abbiamo visto l’allegria dei carnevali e delle feste e abbiamo sentito i racconti di un’economia di sussistenza dove gli alimenti fondamentali venivano razionati ed erogati con una tessera annonaria; abbiamo sentito i giovani contenti di parlare con i turisti per sentire del mondo di fuori e immalinconiti e arrabbiati per l’impossibilità di poter viaggiare e uscire dalla loro isola, per la quale si girava del resto a fatica; abbiamo sentito quelli che si sfogavano con noi, imprudentemente, contro il governo, e quelli che ne vedevano pregi e difetti; abbiamo sentito l’orgoglio delle persone che ci raccontavano che Cuba, anche se povera, possedeva dei servizi sociali che nessun altro Paese dell’America Latina poteva vantare. Un Paese dove le scuole sono gratuite fino ai gradi più alti, dove tutti sono istruiti, dove i bambini hanno gli asili, le ragazze madri le case di accoglienza, gli anziani gli ospizi, i malati gli ospedali. Un Paese dove tutti hanno una casa, per quanto umile, dove nessuno dorme per strada, dove nessuno muore di fame, dove nessuno viene abbandonato. E abbiamo sentito la consapevolezza di tutto questo, da parte di persone che lo sapevano, se ne rendevano conto, uomini e donne comuni che parlavano con noi, non slogan dipinti sui muri o editoriali sui giornali della propaganda ufficiale. Quanti Paesi possono dire altrettanto? Non solo nell’America Latina, nel mondo. Per esempio, noi abbiamo visto con i nostri occhi le strade di downtown a San Francisco pullulanti di homeless, abbiamo sentito Trump dire che vuole abolire il sistema sanitario pubblico che Obama solo pochi anni fa ha costruito tra mille fatiche ed ostacoli; ci siamo commossi per Prima che sia notte, il film che racconta la storia vera di Reinaldo Arenas, perseguitato a Cuba in quanto omosessuale e che, una volta raggiunta la terra della libertà, muore in miseria, solo e abbandonato, perché negli Stati Uniti per farsi curare bisogna avere i soldi; e al contrario abbiamo sorriso alla provocazione di Michael Moore che in Sicko portava dei pompieri ammalatisi in seguito agli attentati dell’11 settembre, e che negli Usa non sarebbero stati curati, a Cuba, dove avrebbero potuto essere curati gratuitamente. Abbiamo sentito anche del sostegno dato dagli Usa a molti degli innumerevoli tentativi di assassinare Castro e ai tentativi di invasione e di restaurazione, mentre sostenevano le dittature più sanguinarie, purché anticomuniste. E ci sembra di capire che molti degli errori del castrismo siano anche da addebitare per metà agli Usa, che, caduto Batista e il suo governo di gangster, colluso con gli yankee, prima hanno spinto Cuba tra le braccia scomode dell’Urss, poi hanno cercato di strangolarla, con la complicità degli altri Paesi del blocco occidentale, con un embargo micidiale, continuato pervicacemente anche dopo il crollo dell’Unione sovietica, quando Cuba non era più un avamposto nemico, ma un Paese in ginocchio, dove le macchine si fermavano nelle strade e nelle fabbriche, dove la gente nelle città coltivava le aiuole spartitraffico, dove non arrivava più la benzina ma neppure le medicine per i malati, e dove Castro chiamava tutto questo, eufemisticamente, periodo especial. Se una parte della popolazione non vedeva di buon occhio Castro, la mancanza di libertà, l’oppressione del controllo sociale, la propaganda pletorica e datata, era però altrettanto o forse di più orgogliosa della propria forza obbligatoria, della propria resistenza di fronte ad un nemico così ottuso e così smisuratamente più potente, della propria dignità. Gli Stati Uniti e i suoi vassalli con la loro ostilità hanno tenuto in vita il sistema cubano, dentro cui la popolazione ha messo una parte della propria anima - o quel che ne rimaneva tra privazioni materiali e dei propri diritti -, e in cui forse più ancora delle idee pure forti del socialismo contava l’orgoglio nazionalistico, la forza di essere diversi, la voglia di esseri migliori. Un orgoglio perfino beffardo, la generosità di essere un Paese che aveva magari gli scaffali delle farmacie vuote, e che eppure mandava i suoi medici dove c’era chi aveva bisogno d’aiuto, da Haiti al Kashmir pakistano sconvolto dal un terremoto da 75.000 morti nel 2005, e capace di offrire assistenza al peggior nemico di sempre, a chi lo avrebbe sempre voluto vedere morto di fame e di stenti, gli Stati Uniti dove New Orleans era stata devastata dall’uragano Katryna. Volevo concludere con una citazione di Fidel o del Che, quelle frasi che ora suonerebbero come slogan ma che nel momento in cui vennero pronunciate avevano il fascino irresistibile della necessità e dell’umanità; ma concludo invece con parole mie, per dire che se di sogni si tratta (e ogni sogno si specchia in un incubo chese ne fa beffe), forse il sogno cubano è stato in fondo più bello e più generoso dell’american dream. La Compagnia del Sole è in scena fino a domenica 27 novembre al Teatro Verdi di Milano, gestito dal Teatro del Buratto, con 2MA NON2, tratto da O di uno o di nessuno di Luigi Pirandello (strana la scelta di cambiare il celebre titolo, assumendone più decisamente più criptico). Marinella Anaclerio prende la novella e la commedia di Pirandello e ne fa un ibrido teatrale, alternando alle parti recitate altre didascaliche e narrative - utilizzando le parole della novella -, sfrondando la storia dai personaggi minori e chiamando in causa lo stesso autore, che, pirandellianamente, sale più volte sul palco a presentare e commentare la propria opera. Un ibrido efficace, che riassume in uno spettacolo di poco più di un’ora l’intera vicenda, che ancora una volta mette in luce la straordinaria modernità – e lo sconvolgente anacronismo rispetto alla sua epoca – di Pirandello. La vicenda è quella di due giovani impiegati che per non assoggettarsi agli obblighi e ai carichi di un vero e proprio matrimonio mantengono e condividono la stessa amante, pianificando razionalmente un modello antifamigliare che soddisfi i loro bisogni emotivi e biologici. Tutto funziona nel migliore dei modi per tutti e tre, finché la ragazza, Melina, rimane incinta, non sa di quale dei due uomini. A quel punto tutto si incrina, il rapporto amicale tra i due, il rapporto amoroso dei due con la ragazza. Nessuno dei due maschi si sente né di condividere né di assumere in pieno una paternità incerta e indecidibile. Si pensa ovviamente anche di sbarazzarsi del bambino, in qualsiasi modo; ma i due non hanno fatto i conti con Melina, che, se anche i due decidessero di tirarsi indietro, vorrà avere il figlio, a costo di farsene carico da sola. Non dico come fa a finire, ma prima della soluzione si attraverseranno il dramma, la commedia, la farsa, la tragedia, e si avrà occasione di riflettere sui temi della paternità e della maternità, dell’amicizia e dell’amore, delle forme delle relazioni e della loro immagine sociale, dei ruoli di genere maschili e femminili. Vedere nel 1929, settimo anno dell’era fascista, pregna degli umori e dei disvalori che ben sappiamo, un disinvolto e inizialmente pienamente soddisfacente ménage à trois (fate conto, tanto per prendere le misure, che il proverbiale Jules e Jim è stato pubblicato nel '53 e il film che ne ha tratto Tuffaut è del '62) e un’eroina protofemminista come Melina, capace e forte abbastanza da decidere della propria vita, dev’essere stato sicuramente una scossa per il pubblico dell’epoca, ma può essere salutare ancora oggi. Lo spettacolo è consigliabile: agile, leggero nelle scenografie e nei toni, affidato ad un bravo quartetto di attori; Antonella Carone è Melina (e poi il piccolo Ninì), mentre Simone Castano e Tony Marzolla risultano efficaci nel rendere fisicamente, plasticamente e psicologicamente le diversità complementari dei due padri putativi, e infine Dino Parrotta si prende il ruolo dell’autore-anfitrione e di qualche personaggio secondario, tra cui il libertino Merletti cui è affidato lo sguardo beffardo che all’inizio coglie il lato comico e grottesco della vicenda. P.S.: a proposito di maternità, ruoli sessuali e relazioni anticonvenzionali, proprio la sera prima aver visto lo spettacolo mi è capitato di vedere in tv Two Mothers, un film di Anne Fontaine tratto da Le nonne di Doris Lessing. Il film si svolge ai giorni nostri, e mostra un inedito sguardo sull’emancipazione femminile e sui rapporti tra uomini e donne, mettendo in scena un ménage à quatre in cui due madri ancora giovanili ed avvenenti avviano appaganti relazioni erotiche ciascuna con il figlio dell’altra, dando luogo ad una strana famiglia edipica incrociata. Progetto interessante, realizzazione che sembra rimanere (volontariamente) in superficie: quella delle onde su cui i ragazzi fanno surf, o quella della pelle levigata e tornita del quartetto di protagonisti (le mamme sono Robin Wright e Naomi Watts, anche produttrice). Nella stessa serata, finito Rocco Schiavone, giro canale e mi imbatto in Fabio Volo che sogna di girare una commedia romantica a New York. Ma, il titolo lo dichiara, saremo nel regno dell'unconventional o dell'untraditional che dir si voglia. Anche qui siamo nel regno del politicamente scorretto, ma in maniera completamente diversa dal romanticismo hard boiled di Schiavone, e forse molto più contemporanea. Al centro dell'operazione di Volo, c'è infatti la chiacchiera sfacciata e impudica di chi racconta i fatti propri in pubblico, come l'era dei social media ci ha insegnato a fare, e delle conversazioni private e a volte intime fatte al cellulare in situazioni dove chi sta intorno sente anche ciò che preferirebbe ignorare. L'operazione è piuttosto ficcante, perché al centro di tutto, nel bene e nel male, c'è (ovviamente, inevitabilmente) un credibile Fabio Volo nel ruolo di Fabio Volo, circondato da partecipanti noti che interpretano, in genere credibilmente, se stessi, compresa la compagna di Fabiovolo che interpreta, indovinate un po', la compagna di Fabiovolo. Siamo quindi nella sfera del reality (naturalmente non della realtà), e nello stesso tempo del selfie (negli Usa operazioni analoghe si definiscono fictionalized self): tutto è falso ma tutto sembra prosaicamente vero, una serie di ritratti schizzati dal vero. L'impianto narrativo e dialogico è radicalmente basato su ciò di cui le persone educate e civili non dovrebbero parlare: gli argomenti del chiacchericcio vanno dalla dimensione e godibilità delle vagine delle donne che hanno avuto figli agli esami protoctologici con dita nel culo o ai progetti di vasectomia con tanto di foto illustrative. Bizzarramente, trattandosi però di romantic comedy (ma come la farebbe Tarantino, anche lui in un cameo: con la ragazza morta e il sangue schizzato all'intorno) il tutto è impaginato con una colonna sonora jazzy e romantica, e con una fotografia che mette in bella luce tanti scorci di Milano (che deve competere in fascino nientemeno che con New York), con un effetto di ibridazione straniante e riuscito. E, non so se mi faccia piacere dirlo, ci si diverte e si ride. Un merito particolare (tra tante partecipazione illustri: Lucarelli, Tarantino, Negramaro, Rocca, Orlando, Dallara...) va a Marco Mazzi, un amico di Fabiovolo, che interpreta la parte del suo agente Raimondo con una disinvoltura, un candore e una perfidia degni di menzione. I trailer finali fanno intravvedere Luca e Paolo, e Massimo Boldi morente in ospedale. Alla prossima puntata. Vice-questore, anzi, ça va sans dire. Cinico, sboccato, violento, un poliziotto sporco, che varca talvolta la linea della legalità. Da Il cattivo tenente a The Shield, il repertorio dei cattivi poliziotti vanta ormai una letteratura e una cinematografia ricca e degna di tutto rispetto. Il fatto però che approdi sugli schermi della tv di Stato italiana un funzionario della polizia di Stato che fuma spinelli, prende a sberle i sospettati e deruba i camionisti, è un fatto decisamente nuovo e degno di nota. Il personaggio creato da Manzini e portato sullo schermo da Michele Soavi (un percorso dall'horror spinto alla fiction tv) conserva però rispetto ai personaggi del cinema o delle serie americane contemporanee un alone ancora romantico, post-chandleriano: vive nel ricordo della moglie scomparsa, fatica a rassegnarsi all'idea di un mondo dove la giustizia è impossibile, fa del suo meglio per scoprire e punire gli assassini che hanno ucciso un innocente. Nella puntata andata in onda ieri sera, Schiavone depreda un camion avvalendosi per giunta di un collega in divisa d'ordinanza, ma allo stesso tempo trova modo di ripudiare i traffici di armi, di droga e di esseri umani. Operazione audace, quindi, ma con giudizio. Alla prova dei fatti, dal punto di vista cinematografico-televisivo, il giudizio è sospeso. Giallini (già poliziotto problematico in Acab) era forse l'interprete naturale (anche se immaginarsi la scena di Zingaretti che sguazza sacramentando nella neve avrebbe avuto il suo fascino, benché impraticabile), il trattamento è molto corretto e ligio alla lettera del libro Pista nera da cui era tratto il primo episodio, e la musica aggiunge un tocco ruvido e blues al personaggio; qualcosa però è un po' impacciato: forse non c'è stato abbastanza impegno a tappare qualche falla che sulla pagina scritta si notava meno; a volte la neve sui capelli è chiaramente finta; l'ambientazione montana non aggiunge atmosfera alla trama e d'altra parte le scene sulla motoslitta sono ingenuamente girate da fermi con lo schermo alle spalle. Manca forse un carattere stilistico ben delineato; se non fosse per quello che i personaggi dicono, ad esempio, o per qualche trascurabile particolare, sarebbe addirittura difficile dire in che epoca si svolga la vicenda, se oggi o qualche decennio fa. Vedremo alle prossime puntate, se vedremo le prossime puntate e non avremo altro da fare. Casualmente, nello stesso giorno (9.11! non vi ricorda niente? l'11.9? forse gli americani quando vedono sul calendario questi due numerini dovrebbero darsi da fare con gli scongiuri...) in cui viene eletto alla carica che racchiude più potere sulla faccia della terra un personaggio che del politicamente scorretto ha fatto la sua bandiera e il grimaldello delle sua scioccante vittoria, sulla televisione italiana hanno esordito due programmi di intrattenimento che hanno per protagonisti due personaggi che appunto sull'aura del politicamente scorretto cercano di costruire il proprio fascino e il proprio successo. E' un paragone un po' azzardato e che lascia il tempo che trova: Trump non è il commissario Schiavone che non è Fabio Volo che non è Trump e così via. Eppure un nonnulla che accomuni questi tre esempi ci sarà. La stanchezza di guardare personaggi edificanti, di sentire bei discorsi, di parlare pulito, di osservare le regole della buona educazione, su cui si è sempre costruito il fascino torbido ed eccitante degli antieroi. Il guaio è che una volta quello contro cui ci si ribellava era il perbenismo, il conformismo, i divieti in campo sessuale, la morale borghese, il bigottismo, il mito del successo, del maschilismo, della società dei consumi. Oggi quello contro cui si rivoltano gli elettori di Trump (e gli elettori di tanti altri populisti con aspirazioni egemoniche sparsi in giro per il mondo e nella culla-di-civiltà-Europa) sono anche (certo non solo: c'è molto da riflettere e da capire) il multiculturalismo, il rispetto dell'altro e del diverso (per razza, condizione economica, genere sessuale), la dignità e il ruolo sociale della donna, la cultura che contribuisce a formare il gusto e la competenza. Ad occhio e croce, insieme all'acqua sporca della globalizzazione e della società liquida dominata dai valori economici, si sta buttando il bambino della modernità positiva, del progresso umano e culturale, della fratellanza e della solidarietà. E se l'antieroe non è più un trasgressivo outsider, bensì un anziano miliardario brutto, ignorante, arrogante e razzista (con ciuffo o con bandana, noi italiani ne sappiamo qualcosa), forse i tempi sono davvero cambiati. E forse la Clinton, con il suo radicamento nell'establishment che si vuole distruggere, non era l'eroina giusta per combattere un villain di questa (infima) caratura. Ma papa Francesco non sa l'inglese a sufficienza, Michelle non era al momento disponibile, Sanders non ce l'ha fatta per un soffio. Da oggi si cerca un antiantieroe, sperando di arrivare sani e salvi alla prossima partita. Se proprio ci fosse bisogno di me, comunque, io un po' di inglese in quattro anni lo posso pure imparare... |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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