ARIZONA di Juan Carlos Rubio, regia di Fabrizio Falco, prod, Emilia Romagna Teatro FondazioneLa scena vuota, sabbia, qualche roccia. Poi arrivano due, una coppia, lui in tenuta da caccia&pesca, o paramilitare, austero e determinato, lei frivola, con vestitino di chiffon, cappellino di paglia e scarpe col tacco. Arredano la scena vuota dandogli un'aria vagamente domestica, o meglio da pic-nic domenicale: tavolino e sedie pieghevoli, una radio che trasmette canzoni d'epoca e notiziari, una striscia erbosa, un cactus in vaso, addirittura un frigorifero. E poi una sacca da golf. Che contiene mazze da golf. E un fucile. Comincia l'attesa, un'attesa piena delle parole, sopratutto di Margareth, ansiosa, petulante, un po' svanita. Un'attesa scandita dal passare del tempo, le luci e il buio che si alternano sulla scena, come un passaggio di nuvole, o di ore, o di giorni. Potrebbero essere due personaggi beckettiani, George e Margareth, incongruamente piantati in un deserto in un'attesa metafisica, un deserto dei tartari dove attendere un nemico che forse non arriverà mai, forse non esiste, o forse non è un nemico. Invece il contesto, per quanto surreale, è geograficamente e storicamente contestualizzato: siamo in Arizona, sul confine messicano (o meglio di un mitico sud), più o meno ai nostri giorni. E George, per quanto Margareth non si ricordi o non capisca bene, è lì con lei per difendere il confine. Da quelli del sud, quelli che vogliono invaderci, rubare ciò che è nostro, uccidere i nostri figli, violentare le nostre figlie (anche se non ne abbiamo). Il progetto Minute Man al quale George si fa vanto di aderire, fatto per reclutare volontari da schierare sul confine messicano, è stato veramente avviato nel 2004. Ho visto lo spettacolo senza prendere informazioni prima, e mentre lo guardavo, ascoltando snocciolati dal convinto George tutti i luoghi comuni e gli slogan dei vari suprematismi, sovranismi, nazionalismi, razzismi o fascismi che vanno tanto per la maggiore nei nostri tristi tempi, ero curioso di sapere se davvero si trattava di un testo americano, o invece di una fantasia nera nata dalla drammaturgia italiana in questi neri giorni salviniani. Né l'uno né l'altro. A firmare il testo, nel 2006, è il drammaturgo, sceneggiatore e regista teatrale e cinematografico spagnolo Juan Carlo Rubio, a dimostrazione che lo spirito dei tempi aleggia ovunque, e non da oggi. Uno spirito dei tempi che vede l'altro come un nemico da respingere o da abbattere, dove essere poveri equivale ad essere visti come pericolosi criminali, e dove un bambino (“i bambini sono uguali dappertutto” protesta inutilmente Margareth) può e deve morire nel deserto - o in mare aperto - basta che non tocchi il nostro arido suolo. La presenza della svampita Margareth trasforma questa tragedia politica e morale in una commedia, (o in “una tragedia musicale americana”, come recita il sottotitolo dello spettacolo), dove si riflette amaramente ma nello stesso tempo si sorride all'ingenuità anni '50 della brava moglie americana. Margareth vorrebbe ascoltare la radio, cantare e ballare, annaffiare le piante, salvare le balene; sbuffa per il caldo, offre la torta ai mirtilli fatta in casa e ritornerebbe volentieri a casa, dove i vicini non sono come qui dei fantasmi minacciosi ma delle persone vere per le quali provare affetto e simpatia; invece finge entusiasmo per compiacere il marito, si intimidisce messa in soggezione dalla sua determinazione autoritaria, subisce amareggiata i suoi assalti sessuali, si dimentica i fondamentali precetti di un'ideologia odiosa, ma alla fine non si rassegna ad accettarne le conseguenze più atroci e crudeli. Fabrizio Falco, anche regista, tiene per sé la parte più monolitica e quindi monocorde, mentre riempie la scena il brio ingenuo, la fiduciosa vitalità, i dubbi tremebondi della trepidante Margareth di Laura Marinoni (un'attrice che vanta collaborazioni con i più grandi registi del teatro italiano), una beckettiana Winnie dei nostri tempi, dove - e stavolta brechtianamente - annaffiare un cactus è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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