FRANCESCO DE GREGORI & ORCHESTRA - GREATEST HITS LIVE De Gregori sale sul palco tra gli applausi in abito chiaro, in piazza Riforma a Lugano, tra il palazzo neoclassico del Municipio, le case tradizionali e le insegne delle banche e dei ristoranti. Prima ci sono state quattro canzoni scarne e pulite come ossi di seppia di Tricarico, solo sul palco insieme al pianista, e Oh Venezia, una canzone popolare eseguita dall'orchestra che accompagnerà De Gregori per tutta la serata. Palco affollato: c'è la Gaga Symphony Orchestra diretta da Simone Tonin, gli archi dello Gnu Quartet, la sua rock band composta da Guido Guglielminetti al basso, Carlo Gaudiello al pianoforte, Paolo Giovenchi alle chitarre, Alessandro Valle alla pedal street guitar e al mandolino, Simone Talone alle percussioni, e infine le due coriste Vanda Rapisardi e Francesca La Colla. Una formazione che evidentemente offre un ventaglio di possibilità di accompagnamento (le orchestrazioni sono firmate da Stefano Cabrera) che va dai pieni orchestrali al minimalismo dylaniano, dagli strumenti classici come flauto e archi a quelli popolari come il mandolino e la fisarmonica, dalle chitarre elettriche del rock all'armonica del blues. Riletto dall'autore alla luce di una dimensione orchestrale, con curiosità giovanile unita a un'esperienza cinquantennale che rischia di logorare l'abitudine a un repertorio straconosciuto, fa sempre impressione riascoltare un canzoniere così eccelso, una sequenza di canzoni che si dipanano per oltre due ore, come perle (e diamanti di vetro?) infilate sul filo della poesia. Una poesia che – al pari della voce, immutabile e inimitabile, per nulla intimidita dal paludamento orchestrale, roca e scanzonata, ma sempre distaccata nel fraseggio musicale e nella temperatura emotiva – si tiene sempre alla larga dalla retorica, dalla prevedibilità, dall'effetto sentimentale o melodrammatico: precisa e acuminata, esatta eppure sorprendente. Un tipo di poesia e di canzone, dove, ad esempio, “cuore”, anziché accoppiarsi con “amore”, può far rima con “rimorchiatore”... Sono oltre trent'anni di successi, concentrati soprattutto nelle tre decadi che vanno dal 1973 al 2005. E De Gregori parte subito forte, con un classico tra i classici, con quella che ritengo (insieme a Vasco Rossi, che l'ha rifatta a modo suo) una delle canzoni italiane più belle di tutti i tempi, Generale, in un arrangiamento con flauto e archi. E' la prima di una terna di titoli di ispirazione storica – d'altra parte il tour è partito da luoghi che di storia sono intrisi, le Terme di Caracalla a Roma, il teatro antico a Taormina -, insieme alla discussa Il cuoco di Salò e ad una delle sue canzoni forse più ambiziose, fin dal titolo - e quindi più a rischio - La storia. Si torna quindi agli albori, con la germinale e pavesiana Pablo, dove la politica si incarna nella naturale solidarietà con un compagno di lavoro straniero, e in un lavoro di cui si può anche morire. E' un De Gregori loquace, ansioso di comunicare (ricordo il primo suo concerto che vidi in un palazzetto dello sport milanese, dove non spiccicò una parola), ma che si astiene da qualsiasi riferimento esplicito all'attualità politica italiana (in un'epoca sovrano-razzista e in giorni dominati dalla cronaca dell'affare Sea Watch), nemmeno quando canterà di navi e di stratificazioni classiste, di immigrati pieni di speranza e di disperazione, o di fuochisti che lavorano per pochi dollari nelle caldaie, e che anche se attraversano il mondo non conoscono la geografia. Si impunta a presentare Due zingari, una canzone d'amore - e parlare d'amore parlando di zingari sembra già un atto sovversivo - e rimpiange un tempo in cui si poteva esprimere un'ammirazione estetica verso i diversi, ma ammettendo subito di non essere molto bravo - ed è vero ma non importa - a parlare delle sue canzoni. Subito dopo però - e può permetterselo perché lui in fondo è un principe - dileggia il suo pubblico pagante svizzero, seduto comodamente in piazza ai tavolini dei caffè e dei ristoranti, apostrofandoli sarcasticamente: “voi siete il meglio, voi siete la prima classe”: e suonano parole leggere e dure, dette da uno che poco dopo commuove il pubblico con le storie degli immigrati condannati a morte stipati nelle cuccette dentro il ventre-stiva del Titanic. E' poi il turno di un altro commovente capolavoro, La leva calcistica del 68, seguita dall'astratta biografia de La valigia dell'attore. Accanto a questo giovane calciatore e a questo attore di provincia avrebbe potuto stare forse anche l'amaro pianista di Piano bar, invece la scaletta devia verso l'ispirazione rurreal-simbolista de Il guanto, divertissment ricamato a partire da dieci tavole di Max Klinger (una serie di incisioni che vanta tra i suoi estimatori Giorgio De Chirico e Leonardo Sciascia) viste su un catalogo che gli fu regalato da Lucio Dalla, dove risuonano fisarmonica e cadenze da ballata folk. Libero dagli strumenti musicali, De Gregori azzarda addirittura qualche accenno di gestualità quasi istrionica, uscendo dall'abituale impassibilità, ma per ribadire subito in musica e parole la sua coerenza cantando che “sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”. Santa Lucia riveste il suo romanticismo con le note di pianoforte, archi e mandolino, e quando l'orchestra svisa la melodia su una citazione di Com'è profondo il mare, il pubblico senza essere sollecitato si alza spontaneamente per una standing ovation all'indimenticato amico e compagno Lucio. Poi è di nuovo De Gregori puro, con altre due pietre miliari inscalfibili dal tempo che passa, due ritratti femminili alla maniera di De Gregori: un'Alice quasi cubista appartenente alla sua prima ermetica maniera, e poi la raffinata naïveté de La donna cannone, perfetta per il respiro musicale dell'orchestra impegnata a spingere e sorreggere nel cielo quell'enorme poetico mistero. Seguono in sequenza Celestino, L'uomo che cammina sui pezzi di vetro, Dell'amore non si butta niente, per arrivare ad un nuovo clou con l'accoppiata Titanic e L'abbigliamento di un fuochista, altri due vertici della canzone mondiale, dove la precisione della scrittura e la musica – anche quella danzabile con cui si sbizzarrisce l'orchestra – si mescolano inevitabilmente con la politica, in canzoni scritte ormai tanti anni fa e che pure raccontano ancora con l'autorevolezza definitiva della vera poesia l'illusione e la speranza di chi parte, la pena dentro al cuore di chi rimane e vede i propri figli scomparire sul (o nel) mare. Si accendono le luci sul palco, ma tutti sanno che il concerto non è finito. Francesco si fa attendere un po', ma il pubblico ovviamente non demorde, fino ad ottenere un tris di bis. Si inizia, coriste al fianco, con Can't Help Falling in Love, unico brano in inglese ma con origini parzialmente italiane: una canzone dal destino estremamente bizzarro, proveniente dal Plaisir d'amour del XVIII secolo e passato per gli strumenti e le voci di un numero incredibile di artisti internazionali, da Elvis Presley a Bruce Springsteen, da Bocelli a Ligabue. La delicata Buonanotte fiorellino sembrerebbe poi la chiusa ideale, ma manca effettivamente un must irrinunciabile, senza il quale forse il pubblico non avrebbe lasciato la piazza: il concerto si conclude quindi sulle note e sulle parole di Rimmel, canzone che vale il sentimento di un'epoca. Il pubblico pagante, svizzero e italiano, può ritenersi soddisfatto, e in riva al lago si è svolta una bellissima serata.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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