Appena arrivati, direttamente dall’aeroporto di Delhi, la guida ci porta al tempio sikh di Gurdwara Bangla Sahib. Scendiamo dal pulmino, imbocchiamo un vialetto coperto di teli blu. In una stanza disadorna ci togliamo scarpe e calze. Passiamo accanto a molte persone vestite all’indiana. Entriamo in un grande stanzone. I sikh hanno come obbligo religioso la carità e il volontariato benefico e nello stanzone ci troviamo di fronte a centinaia di persone sedute sul pavimento, intente ad aspettare o a consumare un pasto caritatevole. Sono persone di tutte le età e generi, uomini e donne, giovani e vecchi, bambini e anziani. Sari e turbanti. Non hanno l’aria miserabile, molti mangiano da un vassoio di metallo a scomparti che tengono in grembo. Li guardiamo, un po’ scioccati dalla moltitudine, e dalla nostra stessa invadenza. Siamo in piedi, unici estranei, costretti a fotografare, a guardare dall’alto in basso, e loro ci guardano. Centinaia di occhi, forse un migliaio. Nei loro occhi c’è curiosità, come nei nostri. Qualcuno ci sorride. A piedi nudi, passiamo nelle cucine retrostanti. Un altro ambiente grande, un po’ buio, dove uomini sikh in turbante e donne in sari preparano i pasti per i bisognosi, o per chiunque voglia mangiare con loro. La nostra guida dice che ogni giorno vengono preparati, è una cifra inverosimile, 50.000 pasti. Ci sono calderoni neri, enormi, sui fuochi, donne che impastato il pane, altri che portano le cibarie o preparano i vassoi. Ci sono ventilatori, luci fioche, caldo, odori. Due ragazze del nostro gruppo sono già accoccolate, un velo sui capelli, a impastare pane insieme a una ragazza indiana. Usciamo, altre centinaia di persone sono fuori in attesa. Percorriamo un corridoio dal soffitto riccamente decorato, entriamo nel tempio dove si conservano i libri sacri, e dove molte persone sono in visita o in preghiera, in mezzo a un profluvio di decorazioni dorate e di festoni di fiori viola. Usciamo all’aperto. La luce è accecante, le mura bianche del tempio e le cipolle dorate delle cupole risplendono sotto il sole forte del mattino. Lunghi teli blu solcano il cielo per offrire riparo. La gente va e viene, alcuni si assiepano davanti a una piscina sacra. Nella luce gli arancioni dei turbante e i colori vivaci dei sari squillano. Scattiamo foto, un po’ frastornati, poi torniamo all’ingresso, a rivestire i nostri piedi un po’ frastornati a loro volta.
Quando usciamo, siamo stati in India.
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Dopodiché otto giorni sono davvero pochi per capire qualcosa o poter dare dei giudizi su questo paese immenso e alieno, di cui abbiamo visitato solo una piccola parte, scorci di Delhi, di Agra, di un pezzo di Rajasthan. I luoghi che in genere vengono visitati da un turista alla sua prima visita in India, ma con alcuni interessanti fuori programma lungo il percorso. Non siamo pentiti di aver scelto la formula del viaggio organizzato. Innanzitutto siamo stati fortunati: eravamo un gruppo di nove (in movimento con un pulmino da 15), in cui erano presenti diverse tipologie (coppia anziana, coppia matura – noi-, coppia giovane, coppia di amiche - separata e single - e un single maschio a sparigliare il numero), provenienti da varie città (Sesto, Milano, provincia di Pavia, Brescia, Padova, Roma) e da varie agenzie turistiche: tutte persone simpatiche, puntuali, non invadenti e senza troppe menate. Ci accompagnavano la guida/accompagnatore (molto premurosa e attento alle esigenze di ciascuno), un assistente dall’aria mesta e taciturna (Alessandra lo battezza Mortimer e il nome viene automaticamente adottato da tutti), e l’autista di turno (per vari motivi ne abbiamo cambiati tre, uno dei quali a dire il vero non sapeva guidare, andava pianissimo, si faceva superare anche dai mezzi pesanti e quando toccava a lui sorpassare lo faceva aumentando la marcia e perdendo in ripresa). Tutti indiani (il solo a cavarsela con l’italiano è la guida), dal momento che gli operatori italiani non possono operare direttamente in India ma devono appoggiarsi ad agenzie indiane, nel nostro caso la Sita.
Poi perché in un paese così diverso e complesso, dove regole, modi di comportamento, lingue (quelle ufficiali sono 22), scrittura, cibi, ecc. sono così differenti da quelli a noi abituali, avere una guida e un filtro aiuta certamente a interpretare cose e situazioni e ad adottare un comportamento non scorretto. La presenza della guida è poi sicuramente utile a fare da filtro con le richieste “economiche” provenienti da venditori, facchini, portieri, artisti di strada, mendicanti, ecc. Di comune accordo, è stata consegnata alla guida la somma standard di 40 euro a testa, che lui ha utilizzato per far fronte a tutte le richieste, sollevandoci dell’imbarazzo o da piccoli esborsi continui. C’è da dire peraltro che, aggiungendo le somme convenzionali per le mance a guida, assistente e autisti, la somma extra quota spesa in mance assume una consistenza significativa. La formula del viaggio organizzato inoltre rendeva tutto più comodo e veloce: non solo nel senso ovvio che non si perde tempo a cercare alberghi, ristoranti, mezzi di trasporto, informazioni, luoghi e monumenti, ma anche perché trovare dopo ogni visita, con temperature diurne che superavano regolarmente i 40 gradi, il pulmino pronto, rinfrescato dall’aria condizionata e con il wifi sempre disponibile, rendeva il viaggio molto meno faticoso e più confortevole. Sarà ovvio e banale, ma sono comodità alle quali noi, viaggiatori indipendenti per vocazione e abitudine, non siamo abituati. Last but not least, bisogna dire inoltre che il viaggio è stata l’occasione per soggiornare in alberghi di categoria per noi (abituati alle peggiori stamberghe di Caracas... tanto per dire) decisamente inconsuete. Il che in questo caso voleva dire innanzitutto sicurezza (teorica, in quanto qualche problemino post-viaggio l’abbiamo comunque avuto ) riguardo a igiene, cibi, acqua. Ma poi ha voluto dire soggiornare in strutture davvero belle; alcune appartenenti a catene internazionali (Radisson a Delhi, Hilton a Jaipur e Agra), ma altre erano collocate all’interno di vere dimore storiche, imponenti fortezze antiche ricche di fascino e di storia, come il Castle Mandawa, in un bel castello con i cortili interni decorati di affreschi, o il Fort and Dunes di Khimsar, una fortezza del ‘500, che offre però in alternativa anche dei bungalow nella quiete, nel silenzio e nella sabbia del deserto. Ci sarà anche dell’esotismo kitsch, ma noi nei nostri brevi soggiorni non siamo in grado di coglierne i difetti, abbagliati dalla bellezza e dall’eleganza degli hotel, sicuramente tra i più belli in cui abbiamo soggiornato nella nostra vita. Le camere sono degli appartamenti, con un letto matrimoniale a baldacchino a disposizione per ciascuno; i cortili sono splendidi; la vegetazione curatissima e lussureggiante; le piscine (ahinoi, inutilizzate, visti i nostri orari di arrivi-partenze) estremamente invitanti. Al Fort assistiamo a spettacoli tradizionali di danza e ceniamo romanticamente (ci siamo pressoché solo noi) a lume di lanterna e sotto le stelle, sui bastioni del forte. Tra le particolarità degli altri alberghi, il giardino acquatico al centro del cilindro del Radisson, che ha per copertura una grande stella e ricorda un po’ la Potsdamer Platz di Berlino; i bagni a vista con intere pareti vetrate (ma c’è anche la tenda se proprio siete così pudichi o tenete alla vostra privacy, almeno sotto la doccia o nella toilet), lo schermo di dimensioni cinematografiche (su cui scorrono le immagini di partite di cricket) sul tetto dell’Hilton di Agra... Di varia classe i ristoranti dove abbiamo mangiato, alcuni a loro volta molto belli, con giardini e ambienti affrescati. Detto questo, è un viaggio organizzato. Il che in definitiva vuol dire vedere i posti con l’ottica di un altro, di chi ha steso il programma e/o della guida che ti accompagna. Crearsi gli itinerari, cercarsi i posti e le informazioni, utilizzare i mezzi di trasporto locali, mescolarsi con la gente, viaggiare con la propria testa e guardare con i propri occhi, è estremamente più faticoso ma anche fonte di impagabili gratificazioni. Una cosa che rimpiango, ad esempio, è che i bellissimi alberghi di cui sopra erano collocati in zone che definire periferiche sarebbe un eufemismo. Lontano da Dio e dagli uomini forse rende più l’idea. Il che vuol dire che era impossibile fare quattro passi in città la sera. Ci abbiamo anche provato, con frustrazione. La sensazione era di essere talmente lontani dai centri cittadini che anche l’eventualità di prendere un taxi e farsi portare in centro sembrava impraticabile... A proposito di alberghi, qualche aneddoto da raccontare a proposito dell’Indana, l’unico albergo di cui siamo riusciti a usare la piscina, in un pomeriggio ad oltre 40 gradi in cui già raggiungere il lettino dalla piscina senza ustionarsi le piante dei piedi, malgrado fossimo tutti bagnati, era una vera e propria impresa. Dicevo che gli hotel erano tutti periferici; beh, l’Indana doveva essere vicino a un aeroporto militare. Per un bel po’ di tempo caccia militari, uno per volta, sono sfrecciati a bassa quota sopra l’albergo. Quando è passato il primo, e non sapevamo cosa fosse, il frastuono dell’aereo era tale che mi sarei gettato dalla finestra per lo spavento. Scherzo, però impressionante davvero. Avete presente tipo siete-lì-belli-sciallati-dentro-le-Twin-Towers-quando-Al Qaeda-vi-scaglia-addosso-un-bolide-volante? Beh, per fortuna, il rombo sibilante degli aerei in questo caso trapassava l’edificio da parte a parte e andava a spegnersi in lontananza (quanta?). Siamo usciti sul balcone e ne abbiamo visto uno sfrecciare sopra di noi. Abbiamo temuto per una notte stile 1941: attacco a Pearl Harbour, ma per fortuna dopo una decina di incubi hanno smesso.
Dopo cena, visto che uscire era inutile e che i nostri compagni di viaggio erano andati a dormire, abbiamo fatto un giretto nel grande cortile interno dell’albergo. Siamo passati davanti alla sala dei ricevimenti e visto che era tutto era parato a festa abbiamo cercato di dare una sbirciatina all’interno. In quel momento è passata una guida sikh, una specie di Kabir Bedi in versione snella, in turbante arancio, barba nera e occhi azzurri, che accompagnava una coppia di italiani (e che rincontreremo a Pushkar e poi di nuovo a Delhi). Accortosi della nostra curiosità, ci ha invitato a entrare tranquillamente. A loro farebbe sicuramente piacere, ci ha incoraggiato. Mentre noi eravamo titubanti, è uscito un tizio che ha intuito la situazione, ha scambiato due parole con la guida, e poi mi ha preso sottobraccio e ci ha trascinato dentro. Abbiamo attraversato a passo di carica l’atrio, il salone delle feste (tutto parato a festa - su un palco da teatro una mezza dozzina di musicisti), tra gli invitati vestiti eleganti, e siamo stati condotti direttamente sul palchetto fiorito dove gli sposi stavano facendo le fotografie. Loro ci guardano un po’ straniti, il tizio (ci dice poi di essere il fratello della sposa) ci fa capire di metterci tutti in posa. Lo sposo è minuto, bruno e barbuto, la sposa esile e carina. Noi siamo vestiti a casaccio. Ci scattano le foto e ci riprendono con le telecamere, mentre ci diamo le arie di persone di mondo. Affido la macchina a uno dei fotografi per avere anche noi un ricordo del nostro matrimonio indiano. Salutiamo gli sposi e gli facciamo i nostri auguri, poi il fratello dello sposo ci riprende sotto braccio e ci porta al tavolo delle bevande. I musicisti sul palco sono stati sostituiti da una mezza dozzina di ballerini professionisti che si muovono tra luci sciabolanti e raggi laser. Un matrimonio di quelli sobri. Un presentatore parla e nomina un paio di volte la parola “Italia”: supponiamo stia parlando di noi. Il fratello versa une generosa dose di whiskey in un paio di tumbler - black label ammicca incoraggiante - aggiunge un altrettanto prodiga dose di ghiaccio e ce li ficca in mano. Io bevo, Alessandra riesce a rifiutare e a farsi dare un succo di frutta. Sorseggio il mio drink, rimaniamo un po’ in sala, stabiliamo che le indiane sono più eleganti con i loro sari multicolori di tutti i giorni, quando vanno al mercato o fanno le pulizie, che di quando si mettono eleganti per i matrimoni, e ce ne andiamo alla chetichella. Non finisce lì; nei corridoi, tra vasi di fiori e ghirlande di petali colorati disegnate sui pavimenti, facciamo conoscenza con altri parenti degli sposi e Alessandra finisce fotografata con un signore molto sudato, con un gruppo di damigelle, e così via. In effetti non è la prima volta che partecipiamo come ospiti di prestigio internazionali a matrimoni etnici; avevamo già un simpatico ricordo di un caloroso invito in un paese egiziano, lungo le sponde del Nilo. Amici di altri Paesi, invitateci, comunque. A noi fa sempre piacere. Si diceva di un paese alieno rispetto alle nostre credenze, abitudini, costumi, stili di vita. In parte perché ultimo erede di una civiltà geograficamente, etnicamente, culturalmente diversa della nostra, dove si sono mescolate le popolazioni originarie gravitanti nella valle dell’Indo per dar vita alla civiltà hindu, e dove si sono poi sovrapposte la lunga dominazione mussulmana e infine quella britannica, che sembra aver influito sulla cultura indiana più dal punto di vista materiale che da quello sociale e culturale.
Quella di oggi è quindi un’India che ci risulta aliena da un lato per l’insieme di credenze, di usi e costumi, di abitudini e stili di vita provenienti in parte dalla religione e in parte dalla cultura, dall’altro per quella che ai nostri occhi appare come un’arretratezza che mantiene attuali immagini e situazioni che per quanto ci riguarda sono relegate in un passato più o meno lontano. Il tutto stranamente mischiato con la modernità, per cui i cellulari si alternano con i sacchi di mercanzie portati in testa dalle donne, i jeans dei ragazzi ai turbanti, le automobili moderne alle vacche che gironzolano per le strade, la pubblicità dei prodotti tecnologici alle immagini di divinità dalla pelle blu o dalle sembianze animali. Nel post precedente parlavo di matrimoni. La nostra guida ci ha raccontato del suo. Non so com’è nato il discorso, in un trasferimento in pullmino da una località all’altra. Ci dice che i matrimoni non sono come da noi; vengono combinati dalle famiglie e gli sposi si conoscono in genere il giorno del matrimonio. Ma tu hai fatto un matrimonio combinato, gli chiediamo noi increduli? Lui ha studiato, ha lavorato in varie città italiane nel commercio di gioielli, ha sostenuto gli esami per guida turistica, lavora con i turisti. Insomma, si direbbe un uomo di mondo. Risulta invece molto legato alle tradizioni del suo Paese. Sì, conferma. Sua moglie è stata scelta dai suoi genitori, che sono andati a conoscerla in una località distante centinaia di chilometri da quella in cui lui abitava. Lui si fidava dei suoi genitori, confessa, ma si fidava di più di sua sorella, così ha mandato sua sorella e sua cognata a dare un’ulteriore occhiata alla futura sposa. Le due inviate l’hanno approvata, così il matrimonio è stato combinato. Gli sposi si sono conosciuti il giorno delle nozze. Il matrimonio dura cinque giorni, sicché gli sposi novelli hanno tempo di conoscersi, per quanto in mezzo alla folla di parenti, amici, parenti degli amici, amici dei parenti, amici degli amici, parenti dei parenti. Al suo matrimonio, per dire, la cui data è stata consigliata o decisa dal brahmino dopo aver consultato gli oroscopi degli sposi, erano invitate 500 persone. Si sono presentati in 800. E’ normale. D’altra parte, ci rendiamo conto, l’industria dei matrimoni in India è un business enorme. Tutti i grandi alberghi fanno a gara nell’offrire sale e ambienti per i ricevimenti nuziali e spesso ai margini delle città si vedono grandi aree all’aperto attrezzate per ospitare matrimoni e celebrazioni e festeggiamenti conseguenti. La sposa al momento di conoscerlo non era molto soddisfatta. E’ lui stesso che ce lo dice. Poiché nel corso del tour passiamo vicino alla città dove abitano, Ajmer, lui ci invita a casa sua. Sua moglie è una bella donna, in sari giallo zafferano, che ci accoglie imprimendoci con un dito un tikka rosso scuro di benvenuto sulla fronte, sorridendo e preparandoci un chai masala piccantissimo. Sfogliamo il loro album di matrimonio. Loro sono vestiti e adornati come un maharaja e una principessa, ma lei ha sempre l’aria corrucciata e scontenta. Ma adesso è contenta? chiediamo a lui dopo. Siì, dice lui. Ma l’amore? chiediamo. L’amore arriva dopo, ci assicura lui. Noi siamo perplessi. Di cosa parleranno allora le soap opera di cui vediamo di sfuggita qualche immagine alla tv, o le centinaia di film che Bollywood sforna ogni anno? Bisogna considerare che, come ci racconta sempre la nostra guida, raramente marito e moglie vanno a vivere per conto proprio. In genere la sposa va a vivere con la famiglia dello sposo, adottando quindi non solo l’uomo ma tutta la sua famiglia. Nella casa della guida vivono lui, la moglie e la loro adorabile bambina dai capelli corti e dagli occhioni scuri da cerbiatta, i genitori di lui, il fratello di lui con relativa famiglia. Va d’accordo tua moglie con la cognata? chiediamo. Siì dice lui. Ogni tanto litigano. Quando litigano lui e suo fratello si dileguano... Il divorzio non è una pratica diffusa, sulla guida leggo che è “proibito”, però qualcuno che ce la fa c’è, anche se la donna viene poi vista con riprovazione, quindi quando ci si sposa è sostanzialmente per sempre. Quando si adotta una famiglia, non propria, è per sempre. Sempre da letture, apprendo che c’è pure una sorta di mercato delle doti nuziali, che le famiglie delle spose devono offrire a quelle dello sposo, con risvolti addirittura criminosi...
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AutoreMauro e Alessandra fanno un giretto in India. Aprile 2017. ArchiviCategorie |