LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI serie tv di Edoardo De AngelisIndivisibili era stata una folgorazione, e anche Il vizio della speranza, benché più prevedibile, mi era piaciuto. E' stata quindi una cocente delusione La vita bugiarda degli adulti, miniserie girata da Edoardo De Angelis, tratto da un libro di Elena Ferrante e prodotto da Netflix. Con l'aggravante di essere una delusione lunga circa sei ore (ecco perché diffidavo delle serie tv!), dal momento che ho voluto concedergli una chance fino alla fine (della prima stagione? ce ne saranno altre?). Non amo molto la scrittura della Ferrante, e il credito da me concesso alla trasposizione filmica de L'amica geniale (sono arrivato con fatica alla fine del primo volume) ad opera di un altro bravo cineasta come Saverio Di Costanzo non è andato oltre la seconda puntata. Però credevo in De Angelis e la fiducia accordata al progetto da Valeria Golino mi faceva ulteriormente ben sperare. In effetti inizia bene, con dei ragazzi che giocano a palla su una strada di Napoli. Poi la macchina da presa arretra e si scopre che la strada fa parte di un ponte che si interrompe e finisce nel vuoto, senza possibilità di essere completato e condurre da qualche parte. Una trovata scenografica ready made che dà immediatamente la cifra di una città irrazionale, dove ogni incongruenza e ogni follia vengono assorbite e ammortizzate da una vitalità (i ragazzi che giocano) che travalica qualsiasi aspettativa. Forse anche una premonizione metaforica di vite spezzate e in bilico, chissà. Anche i titoli di testa sono belli, con l'immagine della giovane protagonista che nuota vestita sott'acqua (con la maglietta fluttuante che ogni tanto le scopre i seni), mentre cerca di recuperare un oggetto (un fatidico braccialetto) dal fondo. Poi la storia inizia, De Angelis fa il regista cercando qualche effetto di fuori fuoco e giocando con la colonna sonora, presenta la sua protagonista, imposta i personaggi, ambienta la storia tra la Napoli borghese dei quartieri (letteralmente) alti e il lusso di Posillipo e la periferia più degradata ma anche più autentica; la Golino tarda ad arrivare e la si aspetta sia come attrice che come personaggio che presumibilmente fornirà una chiave di volta all'impalcatura della storia. E' la zia della protagonista - l'adolescente Giovanna - una donna sola, irrequieta, schietta e passionale tanto quanto il padre di Giovanna è freddo, intellettuale, calcolatore e dissimulatore. Si capisce che Giovanna deve crescere e trovare la sua strada, tra scuola e centri sociali, famiglia e mondo esterno, bugie e verità e che la sua famiglia apparentemente perfetta nasconde segreti, rivalità, infedeltà e infelicità. Ma già alla seconda ora di visione i conti cominciano a non tornare. Il tormentone che da piccola ogni cosa sembra grande e da grande ogni cosa sembra niente comincia a stancare da subito; la voce fuori campo è inutile e dannosa; la recitazione, in primo luogo quella degli interpreti più giovani, è talmente acerba da parere asperrima; il dialetto, al contrario di essere una lingua connaturata alla storia raccontata e all'ambiente come in Gomorra, sembra un artefatto abito di scena fatto indossare agli attori; la teatralità ingolfata di alcune situazioni va ben oltre la stilizzazione che già inficiava in parte anche L'amica geniale; la colonna sonora d'epoca (si riascoltano gli Almamegretta e i 99 Posse), che aveva ben aderito ad alcuni momenti, sbanda in tutte le direzioni tra il nuovo sound degli arrabbiati napoletani, la canzonetta melodica e neomelodica, le bellurie elettroniche. Più si va avanti nella visione e peggio è; la firma di De Angelis (napoletano verace e talento visionario certificato da Kusturica, che di talenti visionari ne sa qualcosa) su tutte le puntate della serie, che avrebbe dovuto assicurare unitarietà e coerenza al progetto, sembra invece confermarne e aggravarne via via i difetti. La trama procede a fatica, il braccialetto-feticcio gira di mano in mano senza motivo, gli attori giovani steccano impietosamente, i flashback sono buttati lì senza costrutto, e tutto suona irrimediabilmente falso, mentre le situazioni si avvitano senza produrre senso o tensione. La giovane Giordana Marengo – che pianti una biro nella coscia di un coetanea o decida di prestarsi a imbarazzanti scene sessuoidi - è imprigionata al centro di una trama e di situazioni che la mettono seriamente alla prova, e si dibatte cercando di districarsene con un broncio perenne e con la sua fisicità acerba; la Golino si sforza generosamente di sembrare vera, finendo incolpevolmente per stonare anche lei sullo sfondo di una Napoli popolana purtroppo fasullissima; Preziosi fa l'antipatico; degli altri meglio non parlarne. La quinta puntata, in gran parte ambientata in una Festa dell'Unità, in mezzo ad un postmoderno tripudio di bandiere rosse e canti dell'Internazionale, dibattiti e cineforum, cortei e pestaggi, e in cui dovrebbero confluire le storie dei diversi personaggi, sembra essere il punto più basso dell'intera narrazione, ma finisce per rivaleggiare con la puntata conclusiva, in cui partono improbabilissimi confronti dialettici su vita, fede e politica; in cui fratello e sorella (dopo che lui le ha offerto un lavoro) si prendono a schiaffoni sulla spiaggia come Sordi e la Vitti in Amore mio aiutami; in cui Giovanna tenta di farsi scopare da un tizio assai poco attraente pretendendo di tenersi su i pantaloni; e in cui, infine, lei parte alla ventura insieme alla sorellina dell'amica del cuore, che, nel frattempo, si è fatta sverginare dal giardiniere come esperimento letterario. Tutto un peccato e uno spreco; ci dovesse essere una seconda serie, speriamo che De Angelis rifletta sul latte versato e cerchi di curare meglio quello che gli rimane.
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MAN vs BEE serie in nove puntate, regia di David KerrCon 14 episodi televisivi da 25 minuti l’uno, prodotti tra il 1990 e il 1995, Rowan Atkinson ha inserito il personaggio di Mr. Bean tra le grandi maschere comiche di tutti i tempi, grazie ad una comicità slapstick e all’assenza di parlato che rendevano le sue avventure immediatamente comprensibili in tutto il mondo. Gli siamo grati per le risate che ci ha fatto fare, e per averci fatto sentire migliori, meno soli, meno meschini, meno mediocri, meno velleitari, meno competitivi, meno dispettosi, più intelligenti, più generosi, più smaliziati, più sociali rispetto al suo omino in giacca di tweed e pantaloni troppo corti; che pure, se ci ha fatto ridere tanto, ci deve assomigliare un po’, in qualche angolo inconfessato di noi stessi. Io ad esempio non posso non rivedermi in Mr Bean quando scalpito contrariato e impaziente dietro qualche anziano con problemi di deambulazione che mi rallenta il passo e mi ostruisce la via. Ora Atkinson torna (su Netflix) con una serie tv in 9 episodi di durata tra gli 11 e i 19 minuti, Man vs Bee (e si sarebbe potuto intitolare Mr Been), dove interpreta un uomo attempato ma sempre pasticcione, Trevor Bingley (e si sarebbe potuto scrivere Bean-gley) assunto come custode in un elegante villa ultratecnologica, piena di oggetti preziosi e di opere d’arte, affidata alle sue cure (si fa per dire) mentre la ricca e giovane sofisticata coppia di proprietari è in vacanza. Con quali risultati, non si fa neanche in tempo a chiederselo, perché già nel prologo anticipatore Trevor è sotto processo per 14 capi d’imputazione legati alla distruzione delle proprietà affidategli. Potrebbe essere Trevor un Mr Bean invecchiato? Sì, potrebbe (e il gioco che ho fatto sopra sui nomi e sui titoli già lo fa intuire). Ora però è sposato, con una moglie che naturalmente ha scarsa considerazione di lui e lo ritiene un marito e un padre inaffidabile, ha una figlia adolescente (con la quale ha invece un tenero rapporto), comunica anche con le parole, ha un fisico sempre mobile ma un po’ invecchiato, e ha sempre la sua ingegnosa e involuta goffaggine e la stessa compresa cocciutaggine. D’altra parte Atkinson aveva lasciato il personaggio di Mr Bean rendendosi conto che “l’infantilismo di un cinquantenne diventa un po’ triste”, e in effetti ritrovarlo visibilmente 67enne arrabattarsi per eliminare un ape molesta per nove episodi è un po’ il primo degli handicap contro cui la serie (scritta con Will Davies e diretta da David Kerr) deve combattere. L’impianto di Man vs Bee ricorda la comicità astratta e stilizzata di Buster Keaton e di Jacques Tati (anch’egli alle prese con una villa ultramoderna in Mon oncle) e di conseguenza la trama della serie è ridotta ai minimi termini: Trevor vuole prima scacciare e poi eliminare un’ape che disturba l’asettica perfezione della casa a lui affidata. Con una trama così striminzita e ripetitiva, è allora un errore capitale il prologo, che già nei primissimi minuti del primo episodio mostra (non racconta ma mostra, dove le sole parole del giudice che legge i capi d’imputazione sarebbero bastate a destare la curiosità) l’escalation di distruzione che l’inetto Trevor infligge alla casa e ai beni: sappiamo già così - anzi abbiamo già visto - quanto succederà nelle successive puntate: il danneggiamento del Mondrian causa rinculo del martello, la guida scriteriata dell’esemplare unico e insostituibile dell’automobile, l’incendio appiccato alla casa col lanciafiamme. E’ insomma l’effetto dei trailer che ci mostrano le scene più divertenti del film che andremo a vedere, così che poi al cinema avremo l’impressione di dover assistere alle scene di raccordo tra i momenti comici che abbiamo già visto. Non che le trovate comiche, distribuite nell’arco degli episodi, manchino completamente, dallo stratagemma per ricordare i codici dell’allarme alle telefonate afflitte dalla mancanza di connessione; ci sono gli ingegnosi e sempre più catastrofici stratagemmi per eliminare l’ospite indesiderata; ci sono poi i tormentoni, come quella del poliziotto che si presenta alla porta, e le variazioni di trama, come quando dei ladri si introducono nottetempo nella villa; c’è insomma di che passare qualche quarto d’ora con il sorriso sulle labbra, ma sarebbe stato più saggio amministrare più oculatamente le sorprese di una storia già in partenza prevedibile. Alla fine una giravolta che ribalta la situazione c’è; prima di ricominciare, prevedibilmente, da capo. E magari, da una nuova serie. A meno, che, invece, non preferiate tornare al vecchio caro Mr Bean. STRAPPARE LUNGO I BORDI, miniserie Netflix in sei puntate di Zero CalcareDi Strappare lungo i bordi, nella manciata di giorni successivi alla sua uscita, si è già detto praticamente tutto e forse non ha molto senso aggiungere altro. Sulla home page de la Repubblica del 21 novembre, tanto per dire, c'erano otto differenti articoli sulla serie di Zero Calcare, passato da narratore e illustratore dell'area alternativa a fenomeno del web, poi a fumettista affermato, apprezzato e premiato, con molti volumi editi tra il 2011 a oggi, grazie soprattutto alla Bao Publishing, quindi a star delle convention fumettistiche, con code infinite davanti al suo banchetto per portarsi via un disegnino autografo sulla copia di un suo libro, e infine, suo malgrado, ad icona pop e a “ultimo intellettuale” in un'epoca di pensiero debole. Dopo aver detto di no a innumerevoli profferte, dall'animazione al videogame, dal merchandising più scellerato alla carriera tv, Zero Calcare ha seguito in sordina il proprio percorso ostinato e indipendente. Prima è arrivato al cinema con il non risolto La profezia dell'armadillo; poi si è esercitato nell'animazione per proprio conto, con i brevi corti animati di Rebibbia Quarantine (mostrati in Propaganda di Zoro) che ci hanno raccontato con spirito e tono diverso da tutti gli altri gli infelici giorni del lockdown. E' stato questo esperimento a convincerlo probabilmente che poteva essere giunto il momento del grande passo, con l'approdo sulla più colossale piattaforma mondiale dell'audiovisivo con la breve serie animata Strappare lungo i bordi, appunto, sei puntatine da una ventina di minuti ciascuna, un paio d'ore di visione in tutto, l'equivalente in termini di tempo di un normale lungometraggio più che di una serie tv. Ci arriva comunque a modo suo, con i suoi tempi, i suoi personaggi, la sua lingua, i suoi luoghi, i suoi temi. Forse sono attutiti i toni più politici o politicizzati, più sfumati i riferimenti al contesto italiano, per farne un prodotto più comprensibile da pubblici di altri Paesi e altre lingue. Eppure Strappare lungo i bordi è Zero Calcare allo stato puro, con i suoi gusti musicali, le sue autocitazioni, i suoi riferimenti alla cultura pop anni '90, il suo sentimento della vita: lo dichiara la sigla stessa, dove cercando di ritagliare la figurina di un uomo ideale sbaglia, non riesce a seguire le righe, sborda, ottenendo alla fine, anziché un perfetto uomo-modello, un imperfettissimo Zero Calcare; talmente autocosciente delle proprie manchevolezze da aver generato un avatar della propria – per altro fallace - coscienza in forma di armadillo. E la star del web, del fumetto, e di Netflix (dove oltre a strappare bordi sta stracciando record) si racconta così, come un uomo inadeguato, incapace di adeguarsi ai modelli precostituiti, insofferente agli stereotipi sociali e alle ipocrisie; ma anche timoroso di non essere in grado di soddisfare le aspettative degli altri, pieno di insicurezze e di sensi di colpa. Una condizione esistenziale di cosmica infelicità leopardiana, di sensi di colpa kafkiani radicati nell'infanzia, ma raccontata con lo stile di Zero Calcare: che è grottesco, veloce, ironico e, soprattutto, autoironico. Sullo schermo, rispetto alla pagina scritta e disegnata, è soprattutto questo a colpire, la velocità vorticosa, questa capacità di sdrammatizzare tutto lo sdrammatizzabile (o quasi) zigzagandoci sopra e attraverso, sull'ottovolante del ritmo e dell'umorismo; almeno fino all'ultimo giro di giostra, o meglio all'ultima puntata, quando dopo mille divagazioni e depistaggi, arriva il momento di fare i conti con la vita (e con il suo contrario) - e con se stesso. Il personaggio di Zero Calcare ispira forse più tenerezza di quanta lui ne provi per se medesimo; ma è un personaggio in cui tutti (almeno noi tutti strappati lungo i bordi) possono identificarsi, al di là dell'età, del luogo in cui si vive e delle appartenenze. E' strano come quello che viene considerato uno degli autori di fumetti più politico e politicizzato ci racconti invece (con un indubbio afflato autobiografico) un personaggio rinunciatario, che rifiuta la lotta (al massimo esercita la propria resilienza prendendole, ma mai dandole), che ha terrore del cambiamento, che aspira all'immobilità assoluta, che rifugge da qualsiasi assunzione di responsabilità, perfino nel campo individuale ed esistenziale. Ci si rende conto solo per gradi che Strappare lungo i bordi sta raccontando, sotto le mentite spoglie della divagazione continua, un viaggio in avanti, che è però l'occasione per ripensare alla costante fuga all'indietro che l'ha portato a questo punto. Si ride molto in Strappare lungo i bordi, ma alla fine ci si trova di fronte ad un dolore vero, e a un senso di colpa difficile da lenire. Ci si prova l'amica Sarah, che gli rinfaccia il suo eterno sentirsi inutilmente colpevole di tutto quello che accade agli altri e al mondo (“Chi è felice è complice” è la citazione che fa da sfondo al display del cellulare del personaggio), con l'ormai celeberrima e citatissima metafora del filo d'erba tra i fili d'erba. Ma è davvero così? E' davvero quel po' di temporaneo calore che emana dalla fiamma delle nostre figurine strappate e ciancicate tutto ciò di cui dobbiamo accontentarci? Paradossalmente, la morale di Strappare lungo i bordi si avvicina a quello di molto cinema di animazione mainstream contemporaneo: l'accettazione del diverso, il riconoscimento della propria natura e dei propri limiti, il valore dell'amicizia. Ma a mancare, altrettanto paradossalmente, è forse proprio la dimensione più propriamente politica (nella misura in cui anche il personale è politico, come si diceva una volta), l'andare oltre l'esistente, la capacità di immaginare un futuro differente senza limitarsi all'accettazione (anche se con disagio o a volte disgusto) della situazione di fatto, il valore della solidarietà attiva, la sensibilità per accorgersi dei bisogni di chi ci sta accanto, la capacità di assumersi delle responsabilità che a volte implicano salvare la propria vita e quella degli altri. Perfino la velocità del racconto e lo schermo del dialetto romanesco (elementi che in molti hanno lamentato come ostacoli alla fruizione e alla godibilità della serie), sembrano allora degli escamotage dettati da una timidezza esistenziale, che evita di soffermarsi troppo per non correre il rischio di approfondire argomenti che possono rivelarsi troppo delicati; così come i grossi blocchetti grafici dei sopracciglioni neri e rettangolari sembrano due paraurti schierati contro i colpi della vita. Per citare un altro amato e rimpianto fumettista, uno che ha interpretato la propria vita e la propria morte vestendo i panni di rock star ironica e disperata, forse anche Strappare lungo i bordi non è altro che il segno di una resa invincibile. SQUID GAME (Ojing -eo-ge.im) di Hwan Dong-hyukSquid Game non mi è sembrata un'opera citazionista (ma sono pronto a ricredermi qualora qualcuno mi dimostrasse il contrario con argomenti fondati e non basati su semplici assonanze di trama o di genere – di As the Gods Will ho visto solo qualcosa su Youtube ma ad occhio mi sembra altro, come tono e intenzioni). Bisogna quindi procedere con cautela nel chiedersi se la serie sia caratterizzata da un fattore K, che non è quello che caratterizza le espressioni della nuova cultura coreana come il k-pop o il k-drama. Detto altrimenti e in termini diretti: c'è un fattore Kubrick che percorre sotterraneamente gli episodi della serie? So che molti ritengono Squid Game come un semplice prodotto di consumo, svilito (ma perché?) dall'essere prodotto da Netflix e dall'aver ottenuto un successo globale e planetario e inorridiranno di fronte a quello che sto per scrivere. Eppure a me è sembrato di cogliere alcuni indizi e mi piace parlarne e ricavarne qualche altro spunto di riflessione su Squid Game, che, non dimentichiamolo – e non è una cosa scontata per una serie tv – è un'opera d'autore, essendo stata interamente scritta e diretta da Hwang Dong-yuk. DIVISECominciamo dall'indizio più generico e meno probante, le divise. Il cinema di Kubrick è abitato e a volte fittamente popolato da personaggi in divisa o appartenenti all'ambiente bellico: da Spartacus a Barry Lyndon o Orizzonti di gloria, dalle uniformi de Il dottor Stranamore a quelle di Full Metal Jacket, fino alle tute da astronauta di 2001 o alle tenute indossate perfino dagli anarchici cultori dell'ultraviolenza di Arancia meccanica. Ebbene, anche Squid Game è abitato per almeno sette noni del suo svolgimento quasi esclusivamente da personaggi in uniforme. Come in ogni ambiente concentrazionario, l'uso della divisa accomuna tanto i carcerieri che i carcerati (entrambi volontari, si badi bene). Nell'uno e nell'altro caso, la divisa rappresenta un ruolo/funzione all'interno di un sistema fittamente regolato e codificato. Quello di Squid Game è un mondo di uniformi (nel senso proprio e figurato del termine), di identità ridotte a semplici numeri (come nei campi di concentramenti nazisti), ma splittato in due: quello comunitario ed egualitario (ma competitivo fino all'ultimo sangue) dei concorrenti e quello gerarchico ma impersonale dei sorveglianti. C'è forse un'eco dell'eterno incubo che percorre la penisola coreana in questa rappresentazione, quasi che nel regno dello Squid Game si fondessero in maniera implosiva l'egualitarismo spersonalizzante nordcoreano e la spietata competizione neocapitalistica sudcoreana (sono l'unico che quando sentiva la voce femminile che annunciava i giochi correva col pensiero a Ri Chun-hee, l'ineffabile speaker della tv di Stato nordcoreana?) MASCHEREPerfino il lead manager della situazione, Frontman, si distingue dagli altri solo per una variante dell'uniforme e della maschera. Solo i Vip, nel mondo dello Squid Game, sono al di sopra delle regole e dell'obbligo di divisa, eppure anch'essi celano quasi per vezzo la propria identità dietro preziose maschere scintillanti che li trasformano in una sorta di divinità insieme animalesche ed iperuranie. E qui entriamo a piedi pari in un territorio che sembra più esplicitamente kubrickiano. Le maschere dei Vip sembrano rimandare in modo abbastanza diretto a quelle che nascondono l'identità delle very important people che popolano l'orgia di Eyes Wide Shut. Qui come là, i ricchi godono di piaceri proibiti, immersi nel lusso e nella segretezza, mentre gli “altri” sono ridotti a “cavalli da corsa” da abbattere se non arrivano primi al traguardo, o come corpi da usare, da godere e da scartare alla prima trasgressione (allontanandoci in un'altra deriva associativa si può arrivare fino al punto di non ritorno dell'universo mortifero del Salò pasoliniano con i suoi Signori e la sua corte di sgherri aguzzini). SPAZIOUn altro aspetto è la passione per gli spazi geometrici e astratti che caratterizzavano i film di Kubrick, e sui quali esiste un'intera letteratura. Gli spazi di un'astronave, i corridoi di un albergo deserto, la superficie della luna sulla quale è comparso un monolite nero, una camerata con le brande dei soldati: tutti gli spazi fisici di Kubrick si trasformano in spazi mentali e a volte metafisici. Anche in Squid Game gli interni si fanno metaforici, scatole craniche, gabbie invisibili dove i potenti chiudono i bisognosi per farne oggetto di spettacolo, di gioco e di scempio; gli scenografi hanno dipinto sui muri falsi orizzonti, come in The Truman Show e trasformato il sole in cielo in uno sterile globo pieno di soldi insanguinati. C'è una trovata visiva (tra le molte altre) legata all'uso degli spazi che mi ha colpito in modo particolare. Il dormitorio dei concorrenti è affollato all'inizio di 456 letti, affastellati gli uni sugli altri in alti castelli. Nel finale, i letti sono rimasti tre in uno stanzone nudo e spoglio, a ricordare senza parole l'enormità dello sterminio compiuto. Come nei lager, dove contiamo un sopravvissuto ogni moltitudine, come una foresta d'uomini rasa al suolo e cancellata. Sui muri, una volta resi invisibili dall'affollamento delle brande, si vedono ora i disegni stilizzati delle prove da affrontare. I giochi letali, tenuti segreti fino all'ultimo, impedendo qualsiasi strategia preventiva di preparazione o di alleanza, erano sempre stati beffardamente lì, sotto gli occhi di non è stato capace di vederli. MUSICAE poi c'è Strauss. Se la colonna sonora è firmata da Jung Jae-li, che ha già prodotto quella di Parasite e la versione di Fly Me on the Moon eseguita dall'orchestrina meccanica al termine del penultimo episodio richiami più i teatrini di Davi Lynch che le opere di Kubrick, ormai è davvero impossibile ascoltare Il bel Danubio blu senza pensare all'uso geniale della musica che faceva Kubrick (per chi fosse interessato, ne avevo parlato in un breve articolo che trovate qui); se Kubrick lo associava alla danza siderale di un futuro già in atto, Squid Game lo usa a contrasto, contrapponendone l'elegante armonia al proprio universo di violenza e morte. I marines di Full Metal Jacket sono forzati e plagiati a credersi natural born killers; messi in riga come bambini, condotti al massacro (proprio e altrui) sulle note di una canzonetta dedicata a Topolino, l'eroe di tutti i bambini; e i detenuti di Squid Game sono indotti a scannarsi in ambienti e modi tutti ispirati all'infanzia, bimbi inermi condannati a massacrarsi a vicenda - in un lager travestito da kindergarten - dal signore delle mosche del capitalismo. UN VECCHIO CHE MUOREMa se ancora non vi ho convinto, entrate nella nona e ultima puntata, quando il protagonista si reca ad un appuntamento misterioso ed entra in un piano completamente vuoto dell'edificio. Nello spazio deserto c'è solo un letto, con un vecchio morente sdraiato sotto le lenzuola. Il punto di caduta verso la reminiscenza kubrickiana qui è vertiginoso, una citazione in purezza che segna però il punto massimo di vicinanza e nel medesimo tempo di distanza dal modello di Kubrick. Quando l'astronauta Bowman in 2001 Odissea nello spazio, al termine di un viaggio oltre i confini dell'universo approda in un'abbagliante stanza rococò, dove trova un vecchio in fin di vita nel letto, è se stesso che incontra. E' l'Uomo vecchio che muore, prima che nasca l'Uomo nuovo. Quando Seong Gi-hun invece trova il vecchio nel letto, è per incontrare l'Altro. I due sono agli antipodi (Seong è l'ultimo giocatore, il n. 456; il vecchio Oh Il-nam è il primo, il n. 1 – il suo stesso nome è quello che spesso viene attribuito in Corea ai primogeniti), sia sulla scala sociale che nella qualità morale: Seong Gi-hun è l'uomo debole, ma intrinsecamente buono; Oh Il-nam è l'uomo reso onnipotente dal denaro, ma che ha la fantasia e la crudeltà di poter concepire la morte di 455 esseri umani per puro diletto e come rimedio alla noia dell'esistenza e della ricchezza.
Se Bowman deve diventare vecchio e morire per far nascere l'Uomo del futuro, Alex di Arancia meccanica deve diventare buono a forza per poi ritrovare la propria incoercibile natura cattiva. Ma Squid Game non si spinge a tanto; quella che appare come la citazione più esplicita svilisce la morale (negativa) di Kubrick e la conduce ad un finale che da una parte suscita un barlume di speranza nella natura umana, ma che, con una parola che detesto, si potrebbe definire buonista, tra buone azioni e musiche improvvisamente retoriche. Quando Seong Gi-hun si reca dal parrucchiere dopo l'incontro fatale con il vecchio, pensavo di vederlo uscire con i capelli rasati come lui, pronto a prenderne il posto nella cabina di regia dello Squid Game, contagiato dal male in cui è stato immerso e costretto a dibattersi. Non è così; semplicemente si colora i capelli con un'improbabile tinta rossa, perde un aereo, si prepara forse a combattere lo Squid Game in una futura prossima stagione. Anche se non si può mai dire, e la scrittura di Hwang Dong-yuk ci ha insegnato ad aspettarci molte sorprese (il web già pullula di ipotesi e previsioni ardite). Non c'è nulla di più alieno del concetto di sequel per il cinema di Kubrick, ogni film del quale era un'opera unica e irripetibile, che si inseriva ogni volta in un genere differente per riscriverlo e portarlo al suo apice. Ma i tempi sono cambiati, ed ecco, se Squid Game tornerà un giorno, io sarò comunque lì ad attenderlo. Su Squid Game leggi anche "Il gioco della paura" SQUID GAME di Hwang Dong-hyukIo non ho ancora finito di vedere le nove puntate di Squid Game. Eppure credo di aver capito di cosa parla (posso dire di un esperto in materia). Squid Game parla della paura, la mette in scena, la tematizza, ne fa il sentimento dominante nei suoi personaggi, la istilla in chi guarda, spingendolo a riconoscerne le sue molteplici varianti. Tutto nel corso degli episodi concorre a parlare della paura. La situazione base del film (ci si cimenta in un gioco in cui che perde muore), il meccanismo che sottende alle prove da affrontare (i partecipanti non conoscono in anticipo le regole del gioco dal quale dipenderà la loro vita), la struttura della progressione eliminatoria (tutti dovranno lottare contro tutti), l'impersonalità della dominazione cui sono soggetti i partecipanti (tutti i loro sorveglianti vestono maschere impenetrabili). Ho provato a fare un catalogo delle paure, che ognuno può aggiornare o modificare a proprio piacimento. Squid Game mette in scena, a volte con una disarmante letteralità: la paura di non riuscire ad essere d'aiuto ai propri cari la paura di perder le persone che ci sono vicine la paura dell'ignoto la paura del futuro la paura di non sapere cosa ci aspetta la paura che la nostra vita vada alla deriva la paura che le cose non si possano più risolvere la paura di non saper valutare cosa è meglio per noi la paura di vivere in un mondo di cui non si comprendono le regole la paura di essere in balia di forze che ci trascendono la paura di dover competere con gli altri la paura di mettersi in gioco la paura di perdere la paura del fallimento la paura di non avere altra scelta la paura di sprecare la propria vita la paura di non riuscire a fidarsi la paura di non riuscire a riconoscere gli amici la paura di affezionarsi troppo la paura che qualcuno voglia farci del male la paura di essere traditi la paura di essere capaci di tradire, di mentire, di ingannare la paura di scoprirsi cattivi la paura di non essere cattivi abbastanza la paura di non essere abbastanza forti la paura di non essere abbastanza intelligenti la paura di non essere abbastanza furbi la paura di non essere abbastanza privi di scrupoli la paura di essere visti la paura di non avere tempo abbastanza la paura di fare un passo falso la paura di morire la paura di uccidere la paura degli altri la paura di se stessi Tranne forse la paura di ammalarsi e di morire (ma il lasso di tempo è troppo breve, e all'anziano n. 001 tocca dare corpo ad entrambe le possibilità) e le paure legate al sentimento amoroso e alla sessualità, credo che tutte le paure fondamentali che possono affliggere una persona siano rappresentate in uno spazio scenico e narrativo che resta eppure estremamente stilizzato e artificiale. Il piacere della paura (ma meglio sarebbe dire il piacere di provare paura potendola controllare, spegnendo un televisore, ad esempio, o chiudendo un libro, o rifugiandosi nella familiarità del proprio letto) è profondamente intimo nell'animo umano, presente fin nei miti degli antichi, nei racconti della tradizione folklorica orale, fino all'esplosione nella letteratura moderna e poi nel cinema. Ma Squid Game porta il discorso della paura su un altro piano, trascendendo dal gusto e dalla tecnica dello spaventoso, dell'orrendo, del raccapricciante, portandolo ad un livello quasi teorico; senza tema di mostrare la violenza e l'orrore, ma senza insistervi in modo morboso e compiaciuto. Nel catalogo della paura di Squid Game si potrebbero addirittura individuare delle sottosezioni o delle stratificazioni. C'è ad esempio la paura politica, del dominio e dell'assoggettamento, di vivere e recitare una parte nel teatro della crudeltà del capitalismo, di un mondo che ammette ricchezza estrema e povertà estrema, di una perversa società dello spettacolo che tratta uomini e donne come merce o come trastullo, pervasa da un disprezzo dell'umanità e delle sue debolezze che ha portato nella Storia al concepimento di enormi ed efficientissime strutture per lo sterminio di massa. C'è la paura sociale, quella dove l'inferno sono gli altri, dove gli individui sono inseriti in un sistema che li mette gli uni contro gli altri (e di competitività e lotta per la sopravvivenza le società asiatiche ne sanno sicuramente almeno tanto quanto noi); dove i rapporti sociali sono pieni di insidie e di trappole, disseminate su un terreno ignoto; E ci sono le paure individuali, suscitate dal dovere di perseguire la nostra sopravvivenza e il nostro benessere, messe alla prova dalla necessità di misurare le proprie capacità e la propria interiorità, e fondate sull'incubo di conoscere se stessi. Metafora politica, sociale, esistenziale di Squid Game si fondono in una narrazione sostanzialmente lineare (anche se non mancano le sottostorie a movimentare e complicare l'intreccio quel tanto che basta), quasi meccanica nella sua progressione implacabile e inesorabile. I suoi elementi non sono nuovi, e di giochi letali e di sopravvivenza, di scommesse sulla vita e sulla morte, di spettacoli allestiti per gli amanti della sofferenza ne abbiamo visti molti e ne potremmo stilare interi elenchi. Ma Squid Game, di nuovo, non inventa forse nulla, ma lo ricrea ex-novo; non fa citazioni, ma inventa un universo che si impone per una la sua spietata coerenza e per una sua imperiosa dimensione visiva. Chi l'ha visto ricorderà probabilmente molto a lungo le sue labirintiche scalinate alla Escher color caramello; le sue spaventose e zuccherose stanze dei giochi; le sue giostre infantili e macabre; le tute scarlatte e le maschere nere e le divise da detenuti dai quali le macchie di sangue fratricida non scompariranno mai più; i recessi tenebrosi e la dimora sibaritica da dove si può assistere allo spettacolo della lotta, della sottomissione, del fallimento. Il suo spazio concentrazionario è un incrocio tra un lager (dove i deportati – aggiungendo orrore ad orrore – sono lì di propria volontà, a desiderare e a cooperare, se non a provocare direttamente, la morte dei propri compagni di sventura) e un kindergarten. I concorrenti sono come bambini in un sinistro giardino di infanzia eterna, incapaci di interferire col mondo dei grandi, perennemente soggetti a chi ha più soldi e più potere di loro. La stilizzazione disegna un mondo dove le differenze sono ridotte al minimo - i concorrenti-detenuti vestiti tutti uguali e i guardiani vestiti tutti uguali, gli uni e gli altri ridotti a numeri - dove la realtà è ridotta a forme (quadrati, cerchi, triangoli) e oggetti (biglie, funi, lastre di vetro trasparente) minimali, essenziali. Si arriva ad abolire il tempo e lo spazio esterno; nella dimensione di Squid Game non c'è giorno e notte, ma solo la routine gioco-pasti-coprifuoco; non c'è cielo, non c'è aria, non c'è altrove. Dall'alto non splende il sole, ma pende un grosso globo di plastica trasparente pieno di soldi generati dal sangue degli sconfitti (i nemici, gli avversari, gli amici, i ritrovati gganbu, quelli a cui si è imparato rapidamente a voler bene facendo fronte comune alle avversità), a ricordare quali sono le forze che governano il mondo e la società. La fiducia nella forza della propria scrittura e nell'inarrestabilità del proprio magnetico flusso narrativo si vede anche nella strutturazione degli episodi: se il quarto finisce proprio al culmine di un climax che aggancia al successivo (in maniera anche un po' scontata: è chiaro quale squadra dovrà uscire vincitrice dal gioco, pena l'azzeramento dell'intera narrazione), a stupire è il secondo; dopo un primo episodio che ci trascina rapidamente in media res, l'episodio seguente segna un'apparente stagnazione, in cui l'elemento fantastico sparisce, non si gioca a nessun gioco, tutto torna ad una (insopportabile) normalità. Quello che poteva segnare una pericolosa battuta d'arresto subito dopo la linea di partenza e ingenerare una caduta dell'interesse degli spettatori, è invece un contributo fondamentale alla “morale” dell'opera. La sceneggiatura disegna molto efficacemente i caratteri dei protagoniste, pur nella tipizzazione, e le dinamiche psicologiche e relazionali che si evolvono e si distorcono all'interno di un meccanismo di gioco crudele come un'arancia ad orologeria. Io ho ancora qualche puntata da vedere. E, ovviamente, ho paura di vederle. Su Squid Game leggi anche "Il fattore K": Squid Game vs Stanley Kubick L'AMICA GENIALE di Saverio Costanzo |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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