Cafè Society è stato accolto piuttosto freddamente dalla critica (impegnata ogni volta a distinguere tra Allen “maggiori” e “minori”) e dal pubblico. In effetti non fa ridere, i risvolti gangster (promessi dai trailer) sono transitori, gli aforismi filosofici sembrano di repertorio e non stupiscono più come una volta, l’ambientazione più che un affresco sembra una serie di veloci schizzi e la storia romantica non è particolarmente appassionante. Tanto per dire, se ogni drammaturgia si basa su un contrasto, Cafè Society azzarda l’assenza di personaggi negativi. Perfino la sorella e il fratello pensano di agire per il meglio, anche se la loro azione porta ad un omicidio (e poi ad un’esecuzione capitale); ma soprattutto tutti e tre i protagonisti del triangolo amoroso sono sinceramente innamorati (i due uomini anche delle rispettive mogli, oltre che di Vonnie) e nessuno di loro vorrebbe fare del male a nessun altro. Se alla fine tutti saranno infelici, non è colpa di nessuno. Alle volte la vita e così, verrebbe da dire. Come tutto quanto il resto (anything else). E “qualunque amore riusciate a dare o a ricevere, qualunque felicità riusciate a rubacchiare o a procurare, qualunque temporanea elargizione di grazia: basta che funzioni” (whatevere works). Non si tratta di ingegno o di talento: a governare è la fortuna, il caso. Ma non sempre funziona. Cafè Society è degno di rispetto perché si inserisce perfettamente nel percorso del cinema di Woody Allen, che usa il cinema e la letteratura del passato per raccontare se stesso, la propria biografia sentimentale, le proprie convinzioni e la propria filosofia. Può essere Jules e Jim o Tolstoj, Fellini o Dostoevskij, l’espessionismo tedesco o Cecov. In Cafè Society il veicolo a cui Allen chiede un passaggio è Il grande Gatsby. Non tanto e non solo per la coeva prediletta ambientazione (Scott Fitzgerald insieme alla moglie Zelda era già comparso come personaggio in Midnight in Paris, gli anni ‘30 avevano già fatto da sfondo a diversi altri film alleniani) , quanto per la sostanza e lo spirito del racconto. Bobby Dorfman è Gatsby, prima e dopo essere diventato il grande Gatsby, e nello stesso tempo è Woody. E poiché unire Woody e Gatsby in un solo personaggio era impresa troppo ardua, i due si fondono per poi scindersi in tre. Se Ben, il fratello di Bobby, rappresenta il lato oscuro di Gatsby, la parte compromessa con la malavita e destinato ad una morte prematura e violenta, e Leonard, suo genero, è invece l’apodittico depositario della filosofia atea e nichilista di Allen, Bobby è il punto di fusione dei due, da una parte il giovane impacciato che cerca di farsi strada nella vita con il suo spirito (e malgrado la sua scarsa avvenenza fisica) e dall’altra l’uomo di successo che sembra avere tutto nella vita ma è frustrato nel più profondo dell’anima nel suo anelito verso un amore romantico e perduto. Allen procede spedito, schizza al posto di dipingere, raffigurando la spumeggiante e a volte schiumante società dei ruggenti anni ’30; ma alla fine si ferma, per dipingere il primissimo piano che gli interessa e che forse è la ragione del film. Il ritratto di un uomo il cui sogno (come quello di Gatsby) è già alle sue spalle; e con, davanti a sé, un futuro che arretra anno per anno. Come una barca che procede contro corrente, risospinta senza posa nel passato.