Torino anni ’60: Massimo ha nove anni e la vita felice di un bambino, figlio unico in una famiglia della media borghesia. In una notte agitata sua madre scompare: non la vedrà mai più. Gli diranno che è malata, in ospedale, poi morta di un infarto fulminante. Anni ’90: Massimo è ormai adulto, ma la sua vita è segnata dal senso di una perdita irreparabile. La rivelazione sulla morte di sua madre porta la sconvolgente consapevolezza di una verità forse presentita ma mai accettata. Bellocchio, dopo aver un poco perso il senso dell’orientamento proprio dalle parti della sua città natale (v. ad es. il suo ultimo inconcludente Sangue del mio sangue), firma con Fai bei sogni, prendendo spunto dall’omonimo libro autobiografico di Massimo Gramellini, il suo film più bello dall’epoca di Vincere. Merito della sua abilità registica e dei contributi tecnico-artistici: bella ad esempio la fotografia di Ciprì, che alterna i toni caldi dell’intimità famigliari a quelli freddi della paura e del lutto; efficace la musica di Crivelli, che alla dodicesima collaborazione con Bellocchio trova il modo di assecondare la creazione delle atmosfere ma senza prevaricarla; pregevoli le ricostruzioni d’epoca, non solo nelle scenografie e nei costumi ma finanche nella scelta dei volti (del trucco, delle acconciature) degli attori. Affettuoso poi l’apporto del cast, che riunisce intorno al dolente Mastandrea, al suo alter ego bambino e alla Bejo artisti cari a Bellocchio (Herlitzka, Russo Alesi) e apparizioni speciali (Gifuni, la DegliEsposti, la Devos). Il merito principale del fascino del film è però innegabilmente dovuto al corto circuito creatosi tra gli elementi biografici rispettivamente del Bellocchio regista, del Gramellini scrittore e del Massimo protagonista sia del libro che del film (ad es. l’educazione religiosa, la perdita prematura di uno dei genitori) e tra le tematiche comuni, al centro del libro e di tutta la filmografia di Bellocchio: la famiglia - sentita contraddittoriamente come una gabbia che imprigiona l’individuo e nello stesso tempo come il nucleo primigenio e irrimediabile degli affetti, oggetto di un profondo viluppo di sentimenti di amore e di odio – il suicidio, la perdita e la morte. Fai bei sogni, pur essendo stato scritto da un altro, si potrebbe quasi raccontare facendo riferimento ai titoli letterali della filmografia bellocchiana: dai pugni in tasca chiusi per la rabbia di una perdita incomprensibile, con cui Massimo vive tutta la sua vita; al salto nel vuoto che aleggia continuamente come rimosso e come tentazione (il busto di Napoleone lasciato cadere dalla finestra, i tuffi sul divano, lo sguardo dal ponte); al sorriso di mia madre (sottotitolo de L’ora di religione), dietro il quale si nasconde un malessere profondo; al sangue del mio sangue che sancisce un rapporto affettivo e viscerale indissolubile e inemendabile. La vita di Massimo, scandita dalle immagini televisive che punteggiano lo scorrere del tempo, malgrado le parole del titolo che sono forse le ultime che sua madre gli ha rivolto prima di svanire nel nulla, è vissuta sotto il segno dell’incubo, della paura, del senso vertiginoso e costante di una perdita irrimediabile e nello stesso tempo ancora incombente. Incapace di superare l’impasse del lutto nella vita reale (pienamente giustificata è anche l’apparentemente inessenziale parte centrale del film dedicata alla vita adulta), il protagonista vive in una sorta di irrisolta trance esistenziale. Bellocchio esprime tale senso di tensione, oltre che con un senso di claustrofobia (gran parte del film si svolge in interni, con l'eccezione più significativa in alcuni scorci di Sarajevo, e spesso anche il mondo esterno viene visto attraverso finestre, balconi, finestrini d'autobus, ecc.), anche per mezzo di esemplari citazioni cinematografiche di diverse epoche: dal Belfagor cui Massimo sceglie di essere amico ed alleato pur di neutralizzare le proprie paure, alle ombre del mai-morto Nosferatu di Murnau, sino a Cat People (Il bacio della pantera), per certi versi insuperato esempio di terrore cinematografico in absentia. Il suo percorso esistenziale, raccontato mescolando liberamente i piani temporali, attraversa varie stazioni: l’educazione religiosa (splendido il cameo di Herlitzka e il suo sermone sulla vita che va vissuta non con i se ma nonostante), il rapporto col padre, la ricerca di una maternità vicaria (la governante), il confronto con la dimensione della felicità possibile (la madre voluttuosa dell’amico Enrico) il rispecchiamento con il dolore degli altri (l’episodio delle foto a Sarajevo), l’apparente incapacità di amare, la scoperta della possibilità di comunicare con gli altri (inizialmente attraverso il filtro del giornalismo). Alla fine è Elisa ad aprirgli la prospettiva di ricominciare ad amare: non a caso, il medico che si presta a curare le sue paure e ad aiutarlo ad affrontare una verità forse intuita ma mai fronteggiata apertamente. Di Elisa è il corpo femminile che alla fine cade nel vuoto, rendendo visibile, ma accettabile nella dimensione simbolica e stilizzata di un tuffo dal trampolino, l’immagine rimossa del trauma. Come in La donna che visse due volte, il ritorno impossibile della donna scomparsa - e la rivelazione della verità nella sua inaudita nudità - deve concludersi con una nuova caduta, un secondo salto nel vuoto. Solo così il protagonista potrà guarire (in Vertigo dalle sue fobie, qui dal suo interminabile lutto); solo così nell’ultima sequenza Massimo potrà tornare ad abbracciare la sua mamma e, forse, scomparire alla vista e dal mondo insieme a lei, nell’infinita nostalgia del suo abbraccio.