FUGGIRE di Guy DelisleGuy Delisle, animatore e fumettista canadese, affronta con Fuggire il tema del tempo nella forma della graphic novel. Il libro (Rizzoli Lizard, 2017) racconta la vicenda di Cristophe André, operatore di Médicins sans frontières, rapito in Inguscezia all’inizio di luglio 1997 e tornato in libertà dopo 111 giorni di prigionia in Cecenia. I rapitori sono forse dei dilettanti; il suo è un rapimento stupido, in cui i sequestratori non si accorgono che Cristophe ha in tasca le chiavi della cassaforte; in cui le trattative sembrano iniziare solo dopo due mesi di prigionia; in cui viene richiesta una somma spropositata per il suo riscatto; in cui i suoi guardiani sembrano piuttosto trascurati. Pure, Cristophe trascorre tre mesi e mezzo della sua vita tra una prigione e l’altra, senza più vedere la luce del sole, senza capire cosa stia succedendo e quali siano le intenzioni dei suoi rapitori, senza avere alcuna comunicazione con loro che gli si rivolgono in una lingua a lui sconosciuta. Delisle mette in parole ed immagini il racconto di Cristophe, il racconto di questo tempo vuoto, passato nel lento, monotono, ripetitivo alternarsi di scoramento e fiducia, stanchezza e ottimismo, disperazione e speranza; il racconto di giorni e notti chiuso in una stanza vuota, in un deposito, o addirittura chiuso in un armadio. Il mondo intorno a Cristophe si riduce per lunghi periodi a pochi oggetti: una lampadina nuda, un termosifone cui passa giornate ammanettato, un materasso. Le sue giornate passano in una terribile assenza di eventi e di senso. I carcerieri che portano la zuppa, le uscite per il bagno, qualche volta anche per lavarsi, oppure un secchio in stanza per i bisogni corporali: per molte giornate sono gli unici avvenimenti che scandiscono le ore, le giornate e le nottate del prigioniero. Il tratto minimalista di Delisle è l’ideale per raccontare questa atmosfera di vuota sospensione. Scandite in capitoli dedicate alle giornate e in una griglia rigorosa di vignette, in una scansione che conta da una a sei vignette per pagina, che si frantuma solo in occasione di un più concitato tentativo di fuga. Pochi tratti a segnare una lampadina, un angolo di stanza, una porta, sulla quale, riquadro dopo riquadro, scivola scontornato un riquadro di luce proiettato da una finestrella schermata: le immagini di Desisle sono spesso sull’orlo dell’annullamento, o per esiguità o perché sommerse dal buio. A parte il nero del tratto e il raro bianco, le immagini ammettono infatti solo due non-colori: una tinta bluastra e un’altra grigia, più o meno densa e coprente a seconda della luce o del buio in cui la vicenda si svolge. Delisle affianca comunque al monologo interiore del sequestrato le parole dei suoi carcerieri, i rumori sentiti attraverso i muri, le sue fantasticherie, conferendo a ciascuno di essi una rappresentazione iconica efficace nella sua semplicità. Le sue elucubrazioni, le sue ipotesi di fuga, le sue fantasticherie sul ritorno a casa, sono sempre racchiuse in balloon all’interno delle vignette, poco definite, come si conviene a proiezioni immaginifiche che non hanno corrispondenza reale (quelle che acquistano più consistenza sono i piatti che il prigioniero sogna di riempire di cose buone al matrimonio della sorella, che avviene in sua assenza). Nella narrazione prevale sempre (vedi nell’epilogo la questione delle scarpe, che accompagnerà Cristophe fino alla scaletta dell’aereo ) un realismo umile e minimalista. Il racconto si tiene lontano dalla vita privata e intima di Cristophe, cui si allude solo per qualche accenno (alle elucubrazioni da recluso si alternano a volte le immagini di battaglie storiche, di cui è appassionato, rievocate nella memoria, con ritratti e schemi, per distogliere la mente dai pensieri alienati e seclusi delle lunghe giornate quasi sempre identiche); eppure il prigioniero mantiene intatte per tutto il tempo la sua dignità e umanità: non imbraccia il fucile, quando ne avrebbe l’occasione, per evitare di dover sparare contro il suo guardiano; durante l’unica telefonata con l’esterno cerca di convincere i suoi compagni a temporeggiare per non pagare un riscatto che sottrarrebbe fondi alla sua organizzazione e quindi alla possibilità di aiutare altre persone in difficoltà. Alla fine, di fronte ad una scelta rischiosa, trova il coraggio e la forza per agire, e per fortuna la sua scelta è coronata dal successo, anche grazie all’aiuto inaspettato che gli viene offerto dagli sconosciuti ceceni presso i quali trova momentaneo rifugio. La scommessa di Delisle, riuscita, è appunto quella di raccontare questa assenza, questo vuoto, assumendosi i rischi della monotonia, prendendosi i tempi e lo spazio per far sentire al lettore il senso di questo tempo assurdo e dilatato, dipanando la spoglia narrazione per oltre 420 pagine di scarti minimi, piccole variazioni, fino all’epilogo liberatorio (Cristophe continuerà a lavorare per Msf per altri 18 anni) cui si giunge davvero senza stanchezza e senza noia.
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Sono andato a sentire/vedere Guido Catalano al Carroponte di Sesto San Giovanni. Guido Catalano è stato al Carroponte già sei anni fa. Ma sul palco C, o palco della Luna, quello piccolo dove mettevano gli intrattenitori di terza categoria, quelli per il mese di agosto, quando per un milanese pur di avere una scusa per bere una birra all’aperto qualsiasi cosa va bene. Ma poi è passato sul palco B, quello grande, di tutto rispetto, dove si esibiscono band e artisti di livello buono e talvolta internazionale. Martedì sera con l’“Ogni volta che mi baci muore un nazista” tour, era sul palco A, quello grandissimo, che chiude con una prospettiva spettacolare la lunga navata di tralicci postindustriali che di notte si infuocano di luce rossa, quello non da tutti, quello dei megaconecerti. Perché Guido Catalano è un Genio. Lo dicevano in molti, i giovani spettatori intorno a me: un genio. Mi sono chiesto allora: ma perché un genio? La prima (e ultima, non aspettatevi grandi rivelazioni) risposta è: perché si è proclamato poeta professionista vivente. Un po’ come certi artisti di arte contemporanea sono tali perché lo dicono loro. Intendiamoci, è stata una serata piacevole e divertente. Ma: un genio? Forse la trovata sta tutta qui: nell’autodefinirsi poeta, e comporre poesie-che-non-sembrano-poesie, di tono basso, colloquiale, prosaico, appunto e di recitarle con umorismo e disinvoltura. Nelle poesie di Catalano ovviamente non ci sono i vincoli cui sottostava la poesia di prima del ‘900: niente rima ovviamente (se non, a volte, per caso), niente struttura. Niente ermetismo novecentesco: si capisce tutto. E neppure niente di quella ricerca dello scarto linguistico e semantico che tormenta e a volte incarta i poeti contemporanei. Catalano avrebbe voluto diventare un musicista, una rock star. Ma poi ha scoperto che non occorreva darsi la pena di comporre la musica. E’ quindi un poeta pop, in tutti i sensi. Perché è popolare, accessibile, usa le stesse parole che usiamo noi nelle conversazioni di tutti i giorni. Dice anche le parolacce: Vado a capo a cazzo (un divertissment che esplora le possibilità combinatorie dei due sostantivi del titolo) è emblematico: gioco, sberleffo, manifesto poetico, linguaggio basso. Se deve fare una citazione colta (a parte la cover dalla Szymborska), i citati sono Battisti-Mogol, o il “Cocciantone” (sic) di Margherita. I suoi temi sono universali: le varie fasi della relazione amorosa, le ragazze amate o anche no, le ragazze amanti ma anche no, la nostalgia, la solitudine. Ma prese sul ridere. Raccontate in francese, magari; ma maccheronico, deragliato nell’invenzione puerile e ridanciana. Mai temi divisivi. Tra i comonimenti recitati sul palco, quello forse più impegnato, con il più spiccato contenuto socio-antropologico, è quello sulla sua idiosincrasia verso la vita da spiaggia. Quindi, perché un genio? Perché Catalano non si presenta come un cantautore, né come un cabarettista (attività nelle quali chissà se avrebbe eccelso). Ma come un poeta. Quello che si ascolta non è un concerto, non è un spettacolo come tanti. E’ Poesia. E non capita tutti i giorni di ascoltare un’arte con l’iniziale maiuscola. E di capirla, di gustarla, di divertircisi perfino. Di riderci sopra, di sentirsi complici. Perché Catalano è un genio (che casualmente ha lo stesso cognome del personaggio arboriano che proferiva lapalissiane banalità con l’aria di enunciare profonde verità esistenziali), ma è anche uno di noi, uno con il quale ci si può quasi identificare. Uno non bello, non alto, che spara battute simpatiche ma non memorabili, che scrive poesie che quasi quasi sapremmo scrivere anche noi. E infatti; se parlo così è anche per invidia. Perché anch’io scrivo poesie. E alcune, lo ammetto (e qui sto citando un famoso poeta professionista vivente) sono anche meglio di quelle di Catalano. E allora perché non le ho pubblicate, perché non sono in una tournée da centinaia di date, perché oggi non le declamo da un ultrapalco? La risposta, ancora una volta, è semplice. Perché io non sono un genio. Perché io, inutile negarlo, non sono Guido Catalano. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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