C'E' ANCORA DOMANI di Paola CortellesiPremetto che nutro una grande ammirazione per Paola Cortellesi, eccezionale in tutti i ruoli con cui si è cimentata, cabarettista, attrice, cantante, conduttrice, regista. Per me è stato un colpo di fulmine fin da quando all'inizio degli anni 2000 faceva gli spot di Magica Trippy a Mai dire goal. Quindi, adesso che l’avete visto tutti e l’avete apprezzato tutti (io compreso), lodato, esaltato, idealmente abbracciato con sincero affetto (e questo qualcosa vorrà dire, sicuramente di positivo), e quindi non penso di fare del male a nessuno, prendo coraggio e discuto con voi di un paio di dubbiche mi sono sorti e rimasti durante e dopo la visione di C’è ancora domani. La seconda è la più importante. Ma cominciamo dalla prima, anche in ordine cronologico di visione. Le scene di violenza girate come una danza. E’ una scelta forte sia dal punto di vista ideale (non mostrare la violenza nella sua cruda brutalità) sia da quella stilistica (sono i punti in cui il film si distacca dai suoi modelli esibiti, il neorealismo e la nascita della commedia popolare italiana nel dopoguerra). E’ una scelta rischiosa, che fa sconfinare il film nel fantastico, nel realismo magico, nel musical (mi viene in mente Dancer in the Dark), o forse semplicemente nell’onirico. Anche i lividi di Delia spariscono a vista, sotto gli occhi degli spettatori. Vedendolo mi ha lasciato un po’ perplesso, ma credo che questa scelta abbia contribuito al successo del film, alla sua accettazione. E’ come se la Cortellesi (e i suoi cosceneggiatori) avessero pensato che la violenza c’è ed è inutile mostrarla, che lo sappiamo tutti com’è, e che fosse più interessante mostrare in questa situazione la fuga nel sogno, in un’illusione che una forma di resilienza spontanea, una manifestazione dell’istinto di sopravvivenza delle donne che si trovano in quelle condizioni. Delia si illude di poter trasformare in una danza d’amore quello che è un atto di disprezzo e di sopraffazione, di poter sognare un passo a due quando Ivano ritiene di poter essere l’unico a condurre la danza del possesso, della sottomissione e della violenza. Se, a parità degli altri elementi, la violenza fosse stata mostrata, C’è ancora domani sarebbe sicuramente diventato un altro film. Non so se migliore o peggiore, sicuramente più difficile da accettare per il pubblico. Ok, ci può stare. Passiamo oltre. L’episodio del militare americano. Riassumiamo, anche per quelli che hanno già visto. Delia ritrova a terra una foto di famiglia di un agente di colore della Military Police di stanza a Roma e gliela restituisce, guadagnandosi la sua gratitudine. Ci si chiede dapprima a cosa serva quest’episodio e quale sia il senso di questo personaggio. Poi Delia origlia alcune frasi dette dal fidanzato della figlia, che sembrano preannunciare la reiterazione di quelle dinamiche maschiliste possessive e autoritarie di cui lei stessa è vittima. Invece di parlare con la figlia, o con il futuro genero, o di chiarire la situazione, Delia decide di mandare a monte il previsto matrimonio, distruggendo (letteralmente, almeno nell’immediato) la potenziale felicità della figlia e di riflesso anche le possibilità di emancipazione sociale ed economica della propria famiglia. Il risultato è ottenuto convincendo l’agente (quindi in teoria un tutore della sicurezza e dell’ordine, con il quale peraltro fino a quel momento non è mai riuscita a scambiare una frase di senso compiuto, in quanto lei non parla in inglese e lui non parla l’italiano né tanto meno il romanesco) a compiere un attentato dinamitardo contro l’esercizio commerciale dei futuri suoceri (in un edificio che sembra ospitare anche delle abitazioni). Ebbene, lo sventurato rispose, per dirla alla Manzoni. Ora, lungi da me voler accusare di razzismo la Cortellesi e gli sceneggiatori del film, ma guarda caso il soldato è l’unico personaggio di colore del film, ed è indotto a commettere un atto criminoso e pericoloso, contrario alla legge, alla morale, ai suoi doveri, e probabilmente alla sua stessa natura, visto lo sguardo sconsolato che rivolge a Delia dopo aver assistito all’esplosione e prima di mettersi a soffiare nel fischietto per dare l’allarme che lui stesso ha provocato. Solo perché gliel’ha chiesto Delia. Perché lei ha raccolto una foto da terra, perché poi le ha visto dei lividi addosso. Non è che va dal marito a dissuaderlo, con le buone o con le cattive, dal pestare la moglie. No. Lei gli chiede di fare saltare in aria un palazzo e lui lo fa. Assecondando contemporaneamente un passo falso della sceneggiatura e una richiesta di Delia quanto meno discutibile. Visto così sembra un po’ il buon selvaggio nero che si assoggetta spontaneamente, naturalmente, alla donna bianca. Sembra che per quanto Delia sia povera, ignorante, bistrattata, umiliata, trattata come una pezza da piedi o come uno straccio per pulire i pavimenti, pure rimanga la donna bianca in grado di esercitare un ascendente sull’uomo di colore, che di propria volontà le obbedisce e le si sottomette. Sono sicuro che non è questa l’intenzione degli autori del film; eppure mi sembra che una lettura nel senso sopra ipotizzato, per quanto malevola, sia possibile; e mi sembra che anche solo tale possibilità, per quanto remota, andasse evitata, in un episodio che oltretutto mi è sembrato stonato anche dal punto drammaturgico. Il solo rischio che, rispetto ad un film dove si parla dei diritti e della dignità delle donne, si possa far strada il sospetto della messa in scena (per quanto involontaria) di una discriminazione di razza mentre si combatte contro una discriminazione di genere, mi sembra davvero inopportuno. Devo dire che le persone con cui mi sono confrontato su questo tema hanno reagito con scetticismo e quasi con insofferenza, quasi volessi rovinare loro l’immagine perfetta che si erano create del film, ammettendo solo in genere una certa “esagerazione” nell’episodio dell’attentato, da leggersi però come una reazione “esplosiva” di Delia rispetto alle angherie subite. Più interessante invece un altro tipo di argomentazione che mi è stata opposta: l’alleanza tra Delia e il militare William è un’alleanza appunto tra minoranze: William aiuta Delia (entrambi condividono una considerazione affettiva verso l’idea-famiglia) proprio perché sia l’uno che l’altra – il nero e la donna - sono rappresentanti di minoranze che storicamente, quasi filogeneticamente, sono state sottoposte ad abusi e soprusi. L’esplosione segnerebbe quindi il tentativo di spezzare – insieme - una catena che potrebbe perpetuarsi nel futuro, all’infinito. Ci può stare. Lo accetto, anche se per arrivarci ho dovuto fare una giravolta e ho rischiato di fare un testa-coda su un terreno sdrucciolevole. E voi cosa ne pensate? Ma Mauro sembra essere molto più convinto: leggi qui la recensione di Mauro Caron in Hollybloog.
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BLONDE di Andrew DominikForse Blonde avrebbe potuto essere un capolavoro. Forse, se ci fosse stato un enorme correttore di bozze.
Dominik imbastisce una serie di sequenze fulminanti, come quell'incipit ipnotico e vertiginoso in cui madre e figlia attraversano l'aria dove danza la cenere, si dirigono verso il fuoco attraverso le fiamme, per approdare alla ricerca della morte sott'acqua; o le diverse sequenze in cui si passa fluidamente dalla realtà all'allucinazione onirica; o quella in cui in un secondo una disperata Norma Jeane si trasforma, davanti allo specchio del camerino, nella diva pervasa di luce Marilyn Monroe; e l'interpretazione di Ana de Armas, Marilyn/non Marilyn, è di quelle che lasciano segno e memoria nello spettatore. Dominik, sulla scorta del romanzo della Oates, preleva la Monroe dal caldo sogno hollywoodiano e la immerge nel bagno gelido dell'incubo. Ma due cose, forse, lo fregano: il partito preso e l'ambizione. Quello di Dominik è un racconto in chiaroscuro dove il chiaro è sparito, inghiottito dal buio di una negatività senza scampo. Da sceneggiatore, Dominik sposa senza dubbi e reticenze un'interpretazione edipica della fragilità della Monroe: che non conobbe mai suo padre e continuò a cercarlo negli uomini per tutta la sua vita; che non riuscì a superare il trauma rendendosi madre a sua volta; che non si sentì mai veramente amata e scelse di esserlo trasformandosi in un doppio di se stessa, un'irresistibile immagine di sensualità disponibile a qualsiasi intimità. Ma non c'è situazione descritta dallo Dominik regista, nel racconto della vita di quella che fu la diva più amata e più desiderata dello schermo, che non sia corrotta da una visionarietà che distorce e guasta, che non sia invasa da nefaste premonizioni sonore che inquinano anche le situazioni apparentemente più tranquille, quando anche ritirare un pacco alla porta diventa un incubo lynchiano. Dominik ripercorre metodicamente l'iconografia che è nella nostra mente e nei nostri cuori solo per allargare lo sguardo al di là dei margini della fotografia o del fotogramma, e mostrarci quanta infelicità, quanto squallore, quanta brutalità la circondino. Non sarebbe forse ancora di per sé un peccato mortale, non fosse che Dominik dilata il racconto a dismisura (rincorrendo le oltre mille pagine del romanzo cui si ispira), reiterando le situazioni e gli effetti lungo i 167 minuti del film; così si ripetono i fish eye e le allucinazioni; i suoi cinici amanti (gli junior di Chaplin e Robinson) tornano a tormentarla qua e là con incomprensibile crudeltà; i formati dell'immagine e l'alternanza colore/bianco/nero si succedono continuamente senza che se ne capisca sempre il motivo; le lettere del padre fantasma inseguono reiteratamente la protagonista lungo tutta la seconda parte del film; i feti che stanno dentro l'utero si moltiplicano tanto che alla fine acquistano addirittura il diritto alla parola; il padre che parlava alla figlia dalla propria fotografia, come se fossimo ne Il favoloso mondo di Amelie, alla fine accoglie in persona Norma Jeane tra le nuvole dell'aldilà. In molti hanno rimproverato al film il feto parlante, il padre angelico, la lunga fellatio in primissimo piano (che diventa proiezione nella proiezione – schermo nello schermo – tanto dell'autocoscienza infelice e dello sdoppiamento di personalità della protagonista che del voyeurismo dello spettatore); in meno hanno notato la soggettiva sull'occhio del dottore dall'interno della vagina della protagonista dilatata dallo speculum ginecologico (va bene voler indagare l'interiorità della donna e diva, ma quando è troppo è troppo...). Alla fine l'impressione è quella di un regista abilissimo e capace di soluzioni anche visive raffinate, ma sopraffatto dall'ansia di stupire, di disturbare, di scioccare, di épater les borgeois, di ingrassare lo sguardo dello spettatore anche a costo di servirgli palate di junk food insieme a pietanze ricercate. Lo stesso finale ne è un esempio, capace di accostare le pietose e limpide sequenze intorno al corpo di Marilyn esanime nel letto (una sorta di ultimo beffardo e lugubre commiato da tutti gli uomini che la sognavano nuda tra le lenzuola), mentre le luci del mattino penetrano dalle finestre e ne accarezzano pietosamente le estremità senza vita, alla grottesca immagine del padre tra le nuvolette - in perfetta tenuta da seduttore anni '30, con tanto di cappello in testa, baffetti assassini e sorriso malizioso. No, ci voleva un produttore di quei tempi lì, di quelli con le forbici in mano. O semplicemente un correttore di bozze. Ma uno bravo. Ma non tutti la pensano così: Mauro Caron ad esempio è molto più indulgente: clicca qui per leggere la sua recensione in Hollybloog. Lasciate ogni speranza, voi che entrate in Titane. abbandonate qualsiasi speranza di logica, di coerenza, di verosimiglianza. Titane non è e non ha nulla di tutto questo. Titane racconta di una donna che prima è una ballerina sexy, poi un'assassina, poi l'amante di un'automobile, poi una serial killer, poi un ragazzo scomparso dal viso scomposto e tumefatto, poi un figlio ritrovato, poi un apprendista pompiere, poi una creatura gravida, poi una madre aberrante. Alexia è fatta di carne e della placca di titanio che ha in testa, parte donne e parte uomo, parte assassina efferata e parte salvatrice e datrice di vita, parte umana e parte macchina, i cui capezzoli e la cui vagina secernono un liquido scuro come olio motore anziché latte e sangue. Come il film che racconta di lei, è' una creatura fluida, ibrida, incompleta, transgender, transumana o oltreumana. Come il film che la racconta, forse è solo un punto di passaggio, verso un'umanità e verso un cinema che già oggi sono in gestazione. Alexia e Titane (i Titani sono i proto-dei della mitologia greca, forze primordiali e mostruose che vengono prima dell'intervento regolatore e ordinatore degli dei olimpici) vivono entrambi di opposizioni: maschile e femminile, padri e figli/figlie, infanzia ed età adulta, assassini e soccorritori, carne e metallo, esibizione e occultamento, seduzione e ripugnanza, violenza e ricerca di amore, vita che viene tolta e vita che viene data, freddezza del metallo e calore delle fiamme e del desiderio carnale, canzonette ed echi solenni di musica barocca. Ma il gioco degli opposti conduce alla fine ad una composizione che sana tutte le dicotomie: attraverso un percorso delirante il punto finale sancisce la paradossale unità di una trinità blasfema che porta all'accettazione del diverso anche nelle sue forme più estreme, della com-passione di anime perdute in un atto estremo di ri-generazione. La Ducornau azzarda una narrazione giocata sull'eccesso e sul deragliamento, accumula tematiche cronenberghiane (la nuova carne commistione di umano e di artificiale, l'erotismo delle macchine, la maternità mostruosa), impagina immagini fiammeggianti, dall'impatto onirico e disturbante, pompa il film di steoridi anabolizzanti come il suo disperato protagonista maschile, e mette in scena un corpo estraneo e letale che non ha più nemmeno la consolazione della bellezza e del fascino che Scarlett Johansson conferiva alla propria altrettanto ferale aliena assassina in Under the Skin. Mentre Alexia sfonda il cranio e il palato di una delle sue vittime con la gamba di uno sgabello, Caterina Caselli canta “Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu”. E sembra che lo stesso monito la Ducornau lo rivolga a noi spettatori, mentre lei scardina senza paura e senza pudore le regole del “buon cinema” e partorisce, come la sua antieroina, una creatura strana e aliena, che non tutti saranno disposti ad accettare. Mauro Caron è per l'appunto dalla parte di quelli che non sono disposti ad accettare: leggi qui la sua recensione di Titane. Mettete un like o un commento per farmi capire quale vi convince di più? C'ERA UNA VOLTA... A HOLLYWOOD di Quentin TarantinoRispondendo a chi mi chiede come ho trovato C'era una volta... a Hollywood, se mi fosse piaciuto o no, se fosse bello o brutto, mi sono reso conto di avere opinioni troppo ambivalenti. Non ho resistito allo pressione e ho cercato un alleviamento dello stress attraverso un sfogo schizofrenico. Ho separato perciò le opinioni positive da quelle più negative e qui e su Hollybloog vi propongo, oltre alla recensione ufficiale, altre due criticamente splittate. Perdonate, e buona lettura. Tarantino è Tarantino, d'accordo. Ma forse qui abusa della reputazione e dell'amore che gli viene tributato ad ogni film. Avete presente il gusto per la chiacchiera e per il cazzeggio che costituisce il marchio di fabbrica del suo cinema? Celeberrimi dialoghi di enorme futilità costituivano lo straniante prologo a scene di esplosiva violenza già in Reservoir Dog (Le iene) o Pulp Fiction. Avete presente il gusto citazionistico di Quentin, croce e delizia di schiere di fans, che infarcisce e accessoria le sue opere di riferimenti e allusioni soprattutto al cinema della sua infanzia e adolescenza, ai film di genere e ai b-movies? Espressioni di genialità, direte, marchi di stile inconfondibili, esplicitazione di una visione personale e postomoderna di intendere il cinema e di rileggerne la storia. Bene, ma il problema di C'era una volta... a Hollywood è che il prologo diventa il film, l'accessorio diventa l'essenziale. Per più di due ore (durante le quali ci si annoia più del previsto, se si considera che si sta guardando un film di Tarantino; meno del previsto, considerate le premesse e l'andamento del film), il film accumula chiacchiere, cazzeggio, citazioni, fantacinema e metacinema, senza che lo spettatore abbia la possibilità di capire da che parte il film sta andando a parare. Certo, qualcosa ci mette in sospetto, la presenza di Sharon Tate (e del marito Roman Polanski), la data (il 1969 del massacro di Cielo Drive), l'ambientazione (lo Spahn Ranch abitato da una strana “famiglia”). Ma le linee narrative che riguardano le vicende di un attore in declino e del suo stuntman molto cool e quelle della giovane attrice (presenza che stenta a farsi personaggio) sembrano non incrociarsi mai; la costruzione di una Hollywood parte vera, parte verosimile, parte inventata, parte ambigua, non sembra mai fornire una chiave di senso all'operazione. Tutto si spiega, in qualche modo, nell'epilogo. Tarantiniano, all'ennesima potenza. Violenza parossistica, humor nero, spregiudicatezza. Per Tarantino non esiste storia, non esiste la brutale verità della cronaca, non esiste la triste realtà. Esiste il cinema, con il suo inalienabile diritto (riaffermato più volte durante il film – perché del film è in fondo il suo senso e la sua ragion d'essere) di obbedire solo alla fantasia, al desiderio, con il suo gigantesco infantile impulso a rifuggire il principio di realtà per abbandonarsi con gioia ludica a quello del piacere. Rimane il dubbio che tra prologo ed epilogo forse ci sarebbe voluto un film in mezzo. Anche perché la clamorosa sorpresa che ci aspetta nell'ultimo segmento del film, è per certi versi analoga a quella già vista in un suo film precedente. E aspettare per due ore una sorpresa che alla fine si rivela un po' di seconda mano, può essere un po' frustrante. E, ancora una volta, si riconferma l'astuta (ma anche un po' naïf) strategia di Tarantino per cercare di legittimare e e moralizzare quella violenza estrema che costituisce una delle ragion d'essere del suo fare cinema. Assistere a terribili atrocità viene proposto come un piacere etico oltre che estetico (e, si potrebbe aggiungere, erotico, vista l'assenza della dimensione propriamente sessuale nel suo cinema, che qui con un espediente narrativo diventa addirittura esplicito rifiuto), giustificato dal fatto che vittime finali di questa violenza sono gli esseri peggiori e più meritevoli di castigo: serial killer, nazisti, schiavisti, assassini, satanisti. Come non tifare per la violenza tarantiniana? Come non essere felici qualora la storia riservasse un inaspettato happy end, come, appunto, nelle favole? Eppure, malgrado Quentin ci dia la sua beffarda assoluzione all'uscita dal cinema, un senso di disagio e l'impressione di essere stati in qualche modo moralmente turlupinati permane... GREEN BOOK di Peter FarrellyLeggi prima Tutto bene su Hollybloog C'è che Peter Farrelly abbandona il politicamente scorretto che aveva reso nuovo e popolare il suo cinema, perdendo per strada anche il fratello Bobby, che finora aveva sempre coprodotto i suoi film, oltre che codirigerli in molte occasioni. Non è un male in sé; non ho mai amato il cinema dei Farrelly, che per il mio gusto eccedeva in scemenza e volgarità. Qui però rischiamo di trovarci nel campo del racconto morale edificante. I due personaggi vengono tratteggiati in chiaroscuro (Tony è troppo violento, culturalmente razzista, ignorante e arruffone; Don è snob, un po' spocchioso, e gay - “nessuno è perfetto” avrebbe chiosato Billy Wilder con il beneplacito di Tony “Lips”); ma nessun spettatore dubita mai fin dal primo istante che i due rappresentano personaggi entrambi positivi, e che tra loro sboccerà un'amicizia sincera e duratura. E' una storia vera, si obietterà, quindi cosa c'è da dire. E sia, ma sembra che Hollywood abbia una sospetta predilezione per affrontare la questione afroamericana adottando i colori pastello del passato, se non addirittura quelli seppia dell'epoca schiavista ottocentesca. Storie vere e anni '50-60, il modello di successo è un po' quello de Il diritto di contare (dove si aggiungeva la discriminazione di genere a quella razziale): guardiamoci indietro, e guardiamo come erano assurdamente e odiosamente razzisti i nostri antenati! Mica come adesso. Adesso che l'America è moderna, emancipata, democratica, aperta. Adesso che c'è Trump. Ah, vi siete accorti anche voi che c'è qualcosa di stonato? Spetta al solito arrabbiato Spike Lee, lui che afroamericano lo è davvero, che è “nero abbastanza”, prendere sì una storia vera, tirarla sì fuori dal passato (ma siamo un significativo passo più avanti, negli anni '70), far sì divertire lo spettatore con BlaKkKlansman, ma a denti stretti, a mente sveglia, facendo cortocircuitare lo ieri del ku klux klan con l'oggi, quando i suoi slogan vengono ripetuti dalle labbra del Presidente in persona; e i tempi in cui i neri venivano linciati senza tante storie all'oggi, quando i suprematisti bianchi riprenderebbero volentieri queste simpatiche tradizioni, quando i ghetti esistono ancora, e quando ancora troppi ragazzi neri rimangono morti sull'asfalto in dubbie circostanze. Certo, ci vuole coraggio per cambiare il cuore della gente. Speriamo che Hollywood ne trovi abbastanza. E che, come Spike, faccia la cosa giusta. Puoi leggere una mia recensione più estesa sul numero di marzo di SegnoCinema. READY PLAYER ONE di Steven SpielbergQuanto è meraviglioso RPO? Un film che ricapitola tutto l'immaginario del cinema fantastico (ma non solo: c'è anche La febbre dei sabato sera) e ne inventa di nuovi; che ripercorre tutta la storia del video gaming e la canonizza; che fa il punto sullo stato dell'arte del cinema (e del mondo) digitale e lo proietta nel futuro verso altre dimensioni. Guardate appena il film si apre la panoramica sulle Stacks, le Cataste, la giungla di torri di tubi e container dove forse vivremo nel 2045: è già un mondo (visivo) nuovo. Forse solo Avatar negli ultimi decenni può stargli alla pari per l'autorevolezza con cui ha dato alla luce un mondo nuovo. Rpo è un ottovolante dai quale non si vorrebbe mai scendere, dove nulla è definitivo, dove le personalità possono essere cambiate e dove di conseguenza le differenze non esistono. Dove l’età, il genere, l’aspetto fisico non contano più o sono modificabili. E’ l’Isola-che-non-c’è dove vivere scegliendo di essere Peter Pan per sempre. Dove nulla è sul serio, e dove perfino un’incursione all’Overlook Hotel può trasformarsi semplicemente in un nuovo giro di giostra, e dove si può danzare sospesi nell'aria senza peso e senza gravità (anche se ultimamente - da La La Land a La forma dell'acqua - ormai lo fanno un po’ tutti). È un cinema talmente spettacolare da non avere bisogno di attori, semplici funzioni di una macchina-cinema autonoma e autosufficiente; che non ha bisogno di messaggi o di morali; che non ha più bisogno, al limite, nemmeno di una storia, ma solo di pretesti, missioni da compiere, obiettivi da conseguire, classifiche da scalare. Cinema puro. Una festa audiovisuale. Un puro gioco. Un’Oasis per tutti, grandi e piccini. Mauro Caron la pensa diversamente: leggi la sua versione in Hollybloog, ma se vuoi la recensione completa, cercala sul numero 211 di Segnocinema in uscita a maggio. THE POST di Steven SpielbergSpielberg continua con la sua revisione (da ottica democratica) della storia americana: dopo film come Amistad, Il colore viola, Lincoln, Il ponte delle spie, eccoci ora negli anni ’70 a parlare di stampa e potere, proseguendo la tradizione epica del cinema sul giornalismo americano, che va dal citatissimo L’ultima minaccia (cui ho preso in prestito a mia volta il facile titolo del post) a Tutti gli uomini del presidente, fino al recente Il caso Spotlight e, in un certo senso, a Snowden. Il potere - concepito come arbitrio, come legittimità di agire alle spalle della Nazione per fini inconfessabili e inconfessati, mettendo a rischio la vita dei propri concittadini, arrogandosi il diritto di nascondere la verità, di mentire, di adottare politiche interne ed estere tutto meno che etiche – e la stampa - concepita come atto di fede nella verità, nella giustizia, nel dovere di informare i cittadini e di metterli nelle condizioni di giudicare la politica, qualsiasi sia il prezzo da pagare – arrivano al punto di collisione quando, nel 1971, emergono delle carte segrete uscite dal Pentagono che dimostrano che diversi governi e presidenti americani hanno mentito sulle reali motivazioni e sull’andamento della guerra in Vietnam, in cui tanti giovani americani hanno perso o rischiano la vita e teatro di stragi che hanno colpito anche la popolazione civile. Quando il New York Times viene bloccato da un’ingiunzione governativa, spetta al meno blasonato e più provinciale Washington Post raccogliere la staffetta (costituita fisicamente da scatoloni pieni di migliaia di documenti, i cosiddetti Pentagon Papers) e sfidare le ire e l’ostilità del governo Nixon, le conseguenze penali e la prigione, e anche le conseguenze finanziarie (il giornale stava in quegli stessi giorni per essere quotato in Borsa) e di conseguenza il destino e la sopravvivenza stessa del giornale. A salire sulla barricata è il direttore Ben Bradlee, ma a permettergli di superarla è Katharine Graham, editrice del giornale dopo la morte del padre e del marito, cui spetta la decisione finale se dare alle stampe il materiale. Interpretata da una trepidante intrepida Meryl Streep, donna sola in un mondo in cui tutte le leve del comando (nella politica, nella finanza, nell’informazione) sono in mano a maschi, la Graham è solo una delle figure femminili, che, anche se con ruoli e capacità d’influenza decisamente inferiori, costellano il film (la moglie di Bradlee, la figlia della stessa Graham, l’assistente della Procura, la giornalista del Post, le donne in attesa fuori dal tribunale dove si decide le sorti del conflitto Governo vs Post e Times), mettendo in luce la presenza femminile in un mondo apparentemente di soli uomini (la sceneggiatura è stata scritta da una donna e un uomo, Liz Hannah e Josh Singer). Il resto è lavoro, ancora prima che etica (“che lavoro pensi che facciamo qui?” chiede il direttore a un collaboratore dubbioso), di cui ci vengono mostrate fasi e retroscena, in cui emerge anche la dimensione collettiva e condivisa del lavoro: le ricerche delle fonti, l’ordinamento dei documenti, i pareri legali, la composizione dei testi, la stampa in rotativa. Anzi, è un lavoro connaturato con l’etica (almeno in una dimensione ideale e hollywoodiana), un lavoro che ha l’etica come fonte, come regola e come obiettivo, consapevole che “il giornalismo è la bozza della storia” (citazione ripresa recentemente anche da papa Bergoglio), e che sulla base della storia le azioni degli uomini verranno giudicate. Non è un caso che il film sia stato realizzato durante il primo anno di presidenza di Donald Trump, che dalla sua discesa in campo, e ancora più e ancora peggio dal momento della sua elezione, conduce una personale e asimmetrica guerra personale e politica (ma, di nuovo, nel senso di un esercizio oppressivo e mistificatorio del potere più che di un’azione finalizzata al bene pubblico) contro la libera stampa, a base di accuse, insulti, false notizie. Per non parlare poi di Paesi dove i giornalisti invisi al potere vengono assassinati o imprigionati: secondo il rapporto di Reporters sans frontières, sono stati circa una quarantina i giornalisti e le giornaliste assassinati deliberatamente nel mondo nel corso del 2017 (oltre a quelli rimasti uccisi per “effetti collaterali”), mentre sono 380 quelli detenuti o tenuti in ostaggio (a non molta distanza dall’”ovvio” primato cinese, per numero di giornalisti imprigionati spicca un aspirante futuro membro dell’Unione europea, la Turchia di Erdogan). Un film quindi, malgrado l’ambientazione storica, l’aspetto esteriore vintage e la convenzionalità dell’assunto drammaturgico e stilistico, di stretta e necessaria attualità. Sapido il finale, in cui spiamo dalle finestre all’interno di due edifici: il primo è la Casa Bianca, dove ascoltiamo Nixon dare al telefono ordini espliciti di perpetuo ostracismo verso il Washington Post; il secondo è il Watergate Building, dove assistiamo all’effrazione all’interno della sede del Comitato nazionale democratico: l’episodio che diede inizio allo scandalo Watergate, fatto esplodere dallo stesso giornale, che causò l’impeachment e poi le dimissioni del presidente repubblicano... Mauro Caron invece lo ritiene un film retorico e convenzionale: leggi la sua recensione in Hollybloog. NAPOLI VELATA di Ferzan OzpetekDi nuovo una magnifica presenza? Ozpetek torna a giocare con i fantasmi, ma anche con l'uomo che visse due volte (mettendo in apertura l'immagine di una stupenda scala a spirale che cita i vortici e le immersioni direttamente dentro l'occhio dei memorabili titoli di testa che Saul Bass creò per l'Hitchcock di Vertigo – La donna che visse due volte), con i gemelli, le doppie personalità, i complessi di colpa, le storie famigliari e gli omicidi a luci rosse, che portano più verso la declinazione depalmiana dell'archetipo hitchcockiano. Ma Ozpetek è Ozpetek, per cui, pur raccontando una storia di assenza – il protagonista maschile scompare poco dopo l'inizio -, si sente in dovere di stipare il film di persone, corpi, performer, fantasmi, luoghi, vedute turistiche (peraltro di indubbio fascino), simboli (veli, maschere, scale, occhi, ecc.). La sua bulimia è incontenibile: il film si espande sui piani di lettura (simbolico, psicologico, psicoanalitico, antropologico, metacinematografico), sconfina tra i generi (drammatico, erotico, crime, melò, ghost movie, film a chiave), accumula i rimandi (da Basic Istinct all'Almodóvar più cupo, al cinema francese di Ozon e Assayas). Già tre segmenti d'apertura (l'omicidio iniziale, la performance teatrale, la scena erotica – di rara intensità), in pochi minuti squadernano un ventaglio di opzioni che vanno dal dramma famigliare con delitto al simbolismo, all'erotismo. La ricchezza di temi e di personaggi, di possibilità di lettura e di generi, di rimandi e di citazioni, non è certo un difetto in sé, anzi. Il problema è che Napoli svelata non serra le fila della narrazione, senza per questo fare del detour un progetto, uno stile o un obiettivo narrativo, si ingorga in circoli viziosi, si perde tra personaggi mal disegnati (e attori non sempre all'altezza: discutibile la stessa doppia interpretazione di Alessandro Borghi, una troppo fredda – malgrado la scena bollente – l'altra troppo fragile; mentre Vittoria Mezzogiorno impegna, letteralmente, anima e corpo per dare corpo e anima al film), tra fantasmi con lo zainetto in spalla, poliziotte con la pistola alla cintola manco fossero Wyatt Earp (o Calamity Jane), occhi strappati dalla vittima ancora viva (qualcuno sa fornirmi una spiegazione narrativa o simbolica di cotanta crudeltà?), travestiti che partoriscono pupi insanguinati, coreografie di lesbiche assassine danzanti, e omicidi a base di granita (la vittima morendo crede di vedere il volto della madre: forse la stessa che gli diceva di non mangiare la roba troppo fredda...). Peccato; gli spunti interessanti non mancano, la regia sa creare atmosfere, la scelta delle location è estremamente affascinante e il film rivela un coraggio e una generosità di temi e di stimoli rari nel cinema italiano; con un po' più di rigore nella scrittura e una cura maggiore dei caratteri, Napoli velata avrebbe potuto essere un film da ricordare. Non sei d'accordo? in Napoli velata c'è di più? Leggi la sagace recensione di Mauro Caron... BLADE RUNNER 2049 di Denis VilleneuveDopo aver incrociato più volte i guantoni a distanza, Mauro Caron e Oruam Norac, già campioni italiani di critica schizofrenica, si affrontano finalmente face to face sullo stesso ring. Il motivo del contendere vale la pena di uno scontro: BLADE RUNNER 2049. Oruam Norac (ON): Quindi? Mauro Caron (MC): A te magari è piaciuto? ON: Beh, direi che se la sono cavata con onore. Toccare un film cult comporta sempre un rischio altissimo. Direi che Villeneuve e compagnia sono stati onesti. La coerenza con il primo Blade Runner c’è tutta. Persino lo smarrimento nel labirinto dell’umano-non umano. Oserei dire che è un film più dickiano del primo episodio. MC: Mmh. ON: Ma a te Blade Runner almeno era piaciuto? MC: Se ti dicessi mica tanto? Prima di andare a vederlo pensavo sarebbe stato il film della mia vita. Non è stato così. Una Rachel così poco sexy (sarà stata colpa degli anni ’80), un cacciatore così inefficiente, le lacrime “che si confondono con la pioggia” e le colombe bianche che frullano in volo al rallentatore mentre Harrison Ford segue il tutto con lo sguardo da ebete. Tappati le orecchie che sto per dire un’eresia: un misto tra John Woo e Baci Perugina. ON: Ah beh, cominciamo bene. Sarà difficile allora convincerti della bontà di 2049. Eppure nota bene che è un seguito che non gioca, come succede di solito, la logica scontata della moltiplicazione/accumulazione. Di solito il secondo episodio segue la via facile della proliferazione. Se nel prototipo c’era un alien, nel secondo episodio metticene a decine. Se ci sono tre velociraptor nel secondo metticene di più, e dei T-Rex, e così via. 2049 invece vola intenzionalmente basso, si mantiene quasi speculare al primo. Se là c’era un eroe umano che forse era un replicante, qui c’è un replicante talmente umano da dubitare di poter essere umano. E non solo: 2049 è straordinariamente coerente anche con il precedente film di Villeneuve, Arrival. Anche qui c’è al centro c’è una storia della tua vita, un concepimento anomalo: là dovuto a un corto circuito temporale, qui ad un corto circuito genetico. Ah, aspetta, e poi c’è anche la coerenza visiva: Arrival era un film giocato su un uovo nero e uno schermo bianco, e anche qui mi sembra ci sia un’ammirevole economia figurativa; e anche rispetto al primo Blade Runner, malgrado gli anni passati e la disponibilità di effetti speciali che una volta non c’erano, gli autori hanno avuto il buon gusto e il pudore di mantenere una certa continuità iconografica. MC: Va bene, ma non è (solo) con la coerenza che si fanno bei film. Un film va giudicato per se stesso, non perché assomiglia a qualcun altro. ON: E’ vero, ma solo in parte. Un film non è un’isola, ogni film interpella la nostra memoria di spettatori, in un gioco anche inconscio di confronti e rimandi, e poi qui stiamo parlando di un sequel, che per natura fa riferimento ad un altro film. Anzi, si pone umilmente nella situazione di essere figlio di un altro film, rispecchiando la fabula in cui K è o potrebbe essere il figlio di Deckard. MC: A te è piaciuta la coerenza. Ma secondo me il film ha la colpa imperdonabile di non reinventarsi un immaginario. Non solo sono passati 35 anni fa dal primo film, con tutto quello che hanno comportato in termini di evoluzione tecnologica e iconografica, ma sono passati anche 30 anni dentro il film. Eppure poco sembra cambiato. Forse, ma parlo a memoria, ancora più ingrigito, con alcune sequenze girate in spazi con inquadrature relativamente strette e spoglie. ON: Però ammetterai che le sequenze aeree della discarica e quella della lotta nel teatro degli ologrammi sono molto belle. MC: Ologrammi. Senti come suona già vecchia la parola? Con un 2049 dove si ascolta ancora Frank Sinatra? Dove si spara con le pistolone e le carrozzerie delle automobili sembrano prese da uno sfasciacarrozze degli anni ’80? ON: Però insisto: secondo me il pregio di Villeneuve sta proprio nell’umiltà, nel modo in cui non ha voluto soppiantare un immaginario con un altro, nel tenersi fedele alla traccia, nel non lasciarsi contaminare da tutto ciò che è venuto dopo. Blade Runner 2049 è il futuro prossimo di Blade Runner, non altro. Così doveva essere. Anzi, il film che più mi è tornato alla memoria come referente visivo, BR a parte, è un film più o meno coetaneo, L’elemento del crimine di von Trier. E guarda caso anche in quel caso si trattava di fantascienza contaminata con il noir, e che nascondeva una tematica esistenzialista e identitaria. MC: Sarà. Ma io gli faccio una colpa di non avermi mai stupito. Wallace è l’ombra di Tyrell, K è l’ombra di Deckard, Los Angeles è sempre quella, Joy è ancora più fantasmatica di Rachel. Non solo, il film si porta dietro perfino i difetti di disegno dei caratteri dell’originale. Deckard era un blade runner inetto, totalmente inadeguato alla missione affidatagli: uno che si salva solo per fortuna, per gli interventi di qualcun altro, o addirittura perché i replicanti sono talmente superiori, fisicamente e spiritualmente, da non prendersi nemmeno la briga di ammazzarlo. Se fa fuori un replicante, è sparando nella schiena a una donna. K. è più o meno di altrettanta inettitudine: il primo replicante si fa uccidere per nascondere un segreto, poi più volte K si trova in difficoltà ed è salvato da droni telecomandati che sparano missili (ti rendi conto di quanto povera sia questa fantascienza? In questo momento droni telecomandati stanno già sparando missili da qualche parte in Medio Oriente), o dai replicanti ribelli. ON: Ti stai soffermando su dettagli trascurabili, stai perdendo di vista l’orizzonte mitico-filosofico del film. A me è piaciuto molto come il film gioca con i miti universali, estraendo il tema della maternità, di cui nel primo film non c’era traccia, dal nome della sua protagonista, Rachel, che evoca la Rachele biblica che morì di parto. O come trasforma l’investigazione del protagonista in una ricerca della propria origine, della propria identità e natura, della propria paternità. Edipo puro. MC: Invece io credo che gli sceneggiatori si siano fatti prendere la mano e abbiano perso il senso delle proporzioni. Anche nella tematica umano-non umano: i replicanti di 2049 sono più umani degli umani. Piangono in continuazione, o hanno sempre gli occhi lucidi come se stessero per farlo. Provano nostalgia, tristezza, solitudine. Soccombono nella lotta, sono vulnerabili, sanguinano, muoiono, non reggono nemmeno sott’acqua. Che replicanti sono? In cosa sono superiori o diversi dagli uomini e dalle donne? Che senso ha? Hanno esagerato; così non c’è più differenza, non c’è più la tensione umano-non umano, appunto. Anche Ishiguro in Non lasciarmi si era reso conto dell’incongruenza dei suoi cloni eccessivamente umani, e si era inventato l’espediente dell’esperimento umanistico di Hailsham. ON: Ma è una fantascienza umanistica, esistenziale, ancora una volta mi sembra che stai perdendo di vista l’essenziale, il senso. Ovviamente il film parla di noi, non di androidi replicanti. Di quanto possiamo sentirci soli, estranei, precari, senza figli e senza padri. MC: Certo. E tuttavia è un film lento, inerte, un po’ lagnoso. Anche Arrival lo era, mi pare l’abbia detto anche tu. Si passa buona parte del tempo a guardare un Gosling inespressivo (l’espressione che gli riesce meglio) che cammina in ambienti inospitali. Sempre per restare su Villeneuve, ho trovato più tensione nella scena del corteo attraverso Ciudad Juarez in Sicario che in tutto 2049. Non fosse per il sound design che tenta disperatamente di ricordarci che stiamo vedendo un film che dovrebbe tenerci sulla corda (e grazie a Dio almeno non c’è l’elettro-pompier di Vangelis), probabilmente saremmo stati sopraffatti un invincibile torpore. ON: Ma non avevi neanche la curiosità di dove sarebbe andato a parare? MC: Proprio qui sta il punto: praticamente mai. E sai cosa mi preoccupa? Che Wallace è vivo e vegeto, Deckard e la sua figliola sono ancora in pista, i ribelli tramano nell’ombra, i replicanti per loro natura si possono replicare. Non è che dopo il reloaded ci aspetta pure il revolution? ON: Speriamo. MC: Speriamo di no. MADRE! di Darren Aronofskymother! è un guazzabuglio difficile da difendere. Il tema dell’intrusione ci sta. Forse solo Haneke con Funny Games era riuscito a raccontare il senso di frustrazione, di impotenza, di angoscia, di imprigionamento, di violazione dell’intimità, con una tale forza e violenza (portando poi con Amour la poetica dell’intrusione al suo grado zero, con l’irruzione della malattia e della morte nella casa di una coppia colta, agiata e borghese, che potrebbe essere, se fosse sopravvissuta, la coppia di Funny Games invecchiata). E forse solo Lynch, che pure ha dato una delle più terrificanti e indimenticabili rappresentazioni della violazione dello spazio domestico nel primo segmento di Strade perdute, ha spinto più oltre la rinuncia alla logica narrativa tradizionale. Aronofsky aggiunge un senso di solitudine, di solidarietà e di intimità tradita, e soprattutto di soffocamento, moltiplicando a dismisura i corpi degli intrusi, evocando una materialità plastica e tattile dell’invasione, e facendo della casa un’estrusione del corpo e della psiche della protagonista. Ma a partire dal concepimento da parte di Lei, sembra iniziare un altro film, che è la scriteriata parodia, la folle e parossistica estremizzazione della prima parte. Nella prima metà il film si regge in un non facile equilibrio tra realismo, presagi horror, derive da teatro dell’assurdo (Le sedie di Ionesco?), fantasia onirica (Lui e Lei esistono veramente? sono vivi o morti? sono la proiezione mentale uno dell’altra? è ricorrente in modo sospetto la continua assenza di Lui – a partire dalla prima sequenza nel letto via via in molte occasioni –; e il mondo esiste ancora intorno alla casa, che sembra sorgere al centro del nulla? e la casa stessa esiste, o è bruciata fin dalle prime immagini, e non ne vediamo che una proiezione fantasmatica?). Ma nella seconda metà, quando lo spettatore si aspetta di vedere giungere ad acquistare un senso le inquietudini e i segnali sinistri disseminati in precedenza, deraglia in una deriva priva di qualsiasi logica e giustificazione, trabocca in una dimensione fantastico-grottesca incontrollata, come se avessero ceduto i freni inibitori di un narratore folle. Cosa c’entrano dimostranti, poliziotti, sfollati, sette esoteriche, manifestazioni, sommosse e guerre che scoppiano dentro la casa? La vertigine, lo spiazzamento, il senso di apnea dello spettatore, la sensazione perturbante di trovarsi al centro di uno spazio domestico che improvvisamente ha perso qualsiasi carattere di familiarità per trasformarsi in uno spazio ostile, sono assicurati da una regia e da un montaggio virtuosistici. Ma a che pro? Lo smarrimento dentro se stesso e la sconclusionatezza di mother! mi ha richiamato alla mente un’opera, pur differente, a cominciare dal diverso medium linguistico utilizzato, come H.P. e Giuseppe Bergman in cui, mentre affinava il suo nuovo ammirevole stile di disegno sulle orme di Moebius, Milo Manara rivelava nello stesso tempo una pericolosa incoerenza narrativa, dove si mescolavano alla rinfusa e senza logica poetica o consequenziale Hugo Pratt e Majakovskij, le incontenibili tentazioni erotiche e l’esoterismo ebraico, la giungla amazzonica e i campielli veneziani, le manifestazioni di piazza degli anni di piombo e i guerriglieri sudamericani. Ma nel finale Aronofsky ha ancora la forza di stupire, chiudendo con un gesto da stregone la deriva del caos in un cerchio perfetto, preannunciato dalle immagini iniziali cui si ritorna dopo un gratuito e frastornante viaggio nell’incubo: ma, appunto, in una prospettiva magico-esoterica (tra inaspettate citazioni dal Vecchio Testamento e cristalli magici che sembrano usciti da un immaginario fantasy davvero cheap), che non può, ancora una volta, che lasciare profondamente perplessi... ...Mauro Caron, invece, ha capito tutto: ve lo spiega nella sua recensione in HOLLYBLOOG |
Dr. Caron e Mr. NoracRicordate quel film di John Woo in cui Travolta e Cage si scambiavano le facce e così il buono aveva la faccia del cattivo e il cattivo aveva la faccia del buono? e poi il cattivo si sfregia la faccia da solo in modo che il buono non possa più riavere la propria faccia e poi il buono colla faccia da cattivo uccide il cattivo colla faccia da buono e così via? Archivi
Novembre 2023
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