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BLOG NOTES

L'ARTE DEL RIFUGIO

2/12/2019

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IGLOOS di Mario Merz
fino al 24 febbraio al Pirelli Hangar Bicocca, via Chiese 2, Milano

Foto
Nel visitare la mostra Igloos di Mario Merz, in una piovosa domenica di febbraio, al quarto mese di esposizione, abbiamo trovato un discreto numero di visitatori che si aggiravano tra le capanne semicilindriche appoggiate sui pavimenti di cemento dell'enorme navata dell'hangar Bicocca.
Condizioni metereologiche a parte, mi sono chiesto il perché del successo di una mostra che non offre al visitatore l'immediata godibilità di altre esposizioni.
Indubbiamente l'ingresso gratuito (se non si rimane pienamente soddisfatti per lo meno non bisogna rimpiangere l'esborso per il biglietto) e l'autorevolezza dell'Hangar Bicocca come contenitore-diffusore dell'arte contemporanea sono due fattori determinanti, ma validi per qualsiasi esposizione all'interno di questo grande spazio posto ai confini con Sesto San Giovanni.
Più nello specifico, forse giocano a favore di Merz il rappresentare un'arte contemporanea già storicizzata (le opere esposte vanno dal 1968 all'anno della morte dell'artista, il 2003), già certificata dal sistema museale ed espositivo delle grandi istituzioni artistiche internazionali e già predigerito dal sistema di ricezione del pubblico dell'arte contemporanea; e nello stesso tempo (come d'altra parte molte mostre dell'Hangar) il proporre un'arte concettuale ma materica, tangibile e, ancora meglio, fotografabile (e quindi spendibile sui profili dei social network...).
Che cosa noi visitatori profani cogliamo e portiamo con noi, oltre a qualche ermetica foto, è difficile a dirsi. Proverò qui ad azzardare qualche riflessione a caldo.

Foto
La mostra espone (per la prima volta in numero così cospicuo), una trentina di igloo, delle capanne semisferiche disseminate lungo l'ampia navata dell'Hangar.
Quella di Merz è un'operazione artistica semplicissima all'apparenza (Merz è annoverato tra gli esponenti dell'Arte Povera), ma complessa nella sua composizione, in cui entrano pittura, scultura, architettura, poesia, scienza matematica. Se la prima è presente solo come equivalente segnico, o come arricchimento, dei materiali di copertura - ma che portano ad un altro livello l'esplicitazione dell'intervento umano nella costruzione della struttura -, a dominare sono soprattutto la seconda e la terza, per la loro natura, a differenza delle altre, di arti tridimensionali.
E' evidente infatti, immediatamente e a chiunque, che gli igloo dialogano con lo spazio circostante (e, in un allestimento come quello dell'Hangar, tra loro, ciascuna autonoma ma componente nell'insieme di una specie di disabitato villaggio arcaico). L'elemento principale che si percepisce guardando le opere è quello della tensione tra esterno e interno, tra dentro e fuori. Il concetto principale che gli igloo esprimono è quello del riparo, come prototipo e archetipo di qualsiasi costruzione (e condizione) umana destinata a fornire rifugio, alloggio, abitazione. E se il rifugio (dove sono compresenti materiali antichi e naturali - come l'argilla, la pietra, il legno - e moderni e lavorati - come le lastre di vetro, i tondini di ferro, le reti metalliche, i sacchetti di plastica, i morsetti) è il significante, il significato che per primo emerge è quello della precarietà.
Le lastre di vetro spezzate o quelle irregolari d'ardesia e di marmo, formano coperture discontinue, frammentarie, che non garantiscono l'inviolabilità degli interni, penetrabili dalla luce e dagli sguardi così come permeabili da eventuali agenti esterni. Sono spazi provvisori, già abbandonati (luoghi senza strada, come titola un lavoro del '94, solo raramente abitati dall'artista, come Is space bent or straight?, del 1973, oggi occupato da una macchina da scrivere con un foglio ancora inserito), come il gigantesco nido di fascine di legno accostato all'igloo di Architettura fondata dal tempo, architettura sfondata dal tempo (1981): abitazione fragile (almeno all'apparenza), effimera e temporanea, che dell'igloo rappresenta quasi un prototipo naturale e rovesciato, con la sua concavità contrapposta alla convessità dell'igloo.
Ma fin dalle prime opere composte nel '68 Merz fa dialogare i propri rifugi non solo con la natura, ma con un esterno che non è solo ambiente ma è anche società e storia. I tubi al neon, materiale contemporaneo per eccellenza, compongono scritte che si appoggiano all'esterno della cupola dell'igloo, rivolta verso lo spettatore. Da una frase di un generale vietnamita negli anni della guerra del Vietnam (Igloo di Giap, 1968), a un accenno alla riflessione sull'oggettualità e sul consumismo negli anni della contestazione (Object cache-toi, stesso anno), si passa poi alla dimensione letteraria e poetica, con le citazioni in alcune opere di versi di Ezra Pound, che sposano in certo modo le strutture celibi delle capanne, mentre blocchi di vecchi giornali impacchettati alludono ancora ad un sedimento linguistico, stavolta inerte, che ha un valore plastico quasi archeologico, ma ormai illeggibile.
Alla diversità dei materiali e delle tecniche si lega la dialettica tra le linee e le superfici, che entrano anch'esse in relazioni complesse, dove giocano il concavo e il convesso, il dritto e il curvo, i vuoti e i pieni della reticolarità, il chiaro e lo scuro, la campitura della pittura e la grafia della scrittura corsiva, la regolarità e l'irregolarità, il liscio e lo scabro, il pulviscolare e il ramificato, le masse e le superfici, e così via.

Foto
Ma se la materia è inerte, si può dire che invece il ruolo vivificatore, di rottura, sia affidato soprattutto all'uso del neon, che, oltre che nelle scritte di cui si è detto, torna ancora (a iniziare dai primi anni 70, per ricorrere poi costantemente fino alle ultime opere), per comporre sequenze numeriche di Fibonacci (successioni di numeri in cui il terzo di ogni segmento è sempre dato dalla somma dei due precedenti). E' un elemento in contraddizione con l'aspirazione (quasi sempre frustrata) alla chiusura e alla con-clusione degli igloo (già significativamente perforati e penetrati a volte da lance e tubi luminosi), e che allude invece ad una crescita costante e potenzialmente infinita, la cui natura astratta si riflette nella lettura dei fenomeni naturali e organici. La progressione implacabile e inarrestabile dei numeri di Fibonacci (come in forma più umile ma materica lo sgocciolio continuo in La goccia d'acqua, 1987) sembra quasi farsi scherno delle strutture pericolanti degli igloo, che si trovano a essere contemporaneamente simboli di costruzione e di edificazione, testimoni muti dell'attività dell'homo faber, e nello stesso tempo emblemi di disgregazione e di decadenza, di incompiutezza e di fallacità dell'umano operare (sarebbe stato interessante far dialogare gli igloo con le torri celesti di Kiefer, che si elevano eterne e precarie, sghembe e significanti, nella navata accanto).

Foto
Isolata in quella che rappresenta una sorta di abside terminale della navata dell'edificio industriale, sullo sfondo di una vertiginosa scala a chiocciola che potrebbe a buon diritto interagire concettualmente con lei, la grande opera Senza titolo del 1987 rappresenta in certo senso la summa di molti degli elementi fin qui individuati, portando a compimento e nello stesso tempo a nuovo scompiglio molte delle contraddizioni presenti nelle opere di Merz: l'igloo si raddoppia in un gioco dialettico di interni ed esterni; le fascine di legno allineate verticalmente nel centro sono in stridente contraddizione con le curvature delle nervature in ferro; la natura (l'opera era stata oltretutto concepita per essere esposta all'aperto, nei giardini della Fondazione Serralves di Porto) pare trionfare con la presenza alla sommità della grande cupola di un maestoso cervo impagliato, la cui iconica vitalità è radicalmente negata dalla sua mortale fissità; la progressione di Fibonacci è citata, ma con una sola sua componente (il numero 10946), che sembra porre un termine funereo allo stesso concetto di flusso infinito e di crescita continua.
Un'opera dunque quasi testamentaria, non ultima nella produzione dell'artista (datata 1998), ma giustamente posta a conclusione e a suggello del percorso espositivo.

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    Mauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà.

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