L'UOMO CHE CADE di Don DeLilloCiascuna delle tre (ma vedremo poi che in realtà sono sei) parti in cui si divide la narrazione de L’uomo che cade è intitolata ad un nome di persona. Ma i titoli, anziché orientare il lettore, lo spiazzano: per buona parte della lettura ai nomi evocati non sarà possibile collegare nessun personaggio del libro. Si tratta di false piste: i nomi sono in effetti storpiati e resi irriconoscibili, o sono nomi segreti e nascosti, o ignoti a lungo agli stessi personaggi. Lo stesso titolo del romanzo può avere almeno tre interpretazioni (e la triplicità torna in molti aspetti del romanzo), essendo legittimamente riferibile sia al protagonista che sembra cadere nel gorgo di una crisi inarrestabile, che agli uomini che tutti - in immagini agghiaccianti - abbiamo visto precipitare dall’alto del World Trade Center in fiamme, che infine ad un misterioso performer che in luoghi pubblici della città rimette in scena ossessivamente e silenziosamente il terribile trauma collettivo. Siamo dentro e all’indomani dell’11 settembre 2001, e la dimensione psicologica dell’America (ma in generale del mondo che si riconosce nel sistema occidentale, e in particolare degli abitanti di N.Y.) è disorientata e sconvolta. L’unica realtà pensabile è inconcepibile, l’unica realtà tangibile, impressa negli occhi, nelle orecchie, nel naso, nella bocca, sulla pelle di chi l’ha vissuta, è inaccettabile come un incubo che non ci si riesce a scrollare di dosso. Perché l’11 settembre ci sono stati “gli aeroplani”, e, dopo, nulla può più essere lo stesso, nemmeno alzare gli occhi verso il cielo. Keith, il protagonista maschile, è uno dei sopravvissuti. Ha sentito l’impatto degli aerei che si schiantavano contro le torri mentre lui c’era dentro, ha raccolto tra le braccia un amico morente, ha sceso le interminabili scale della torre destinata a crollare. E’ tornato a casa. Ma il suo è un ritorno apparente. Dall’epicentro del trauma, Keith inizia una deriva che lo porterà sempre più lontano, come seguendo onde concentriche che si allontanano dal punto d’impatto; prima oltre il parco, dove vive un’altra sopravvissuta, con cui condividere lontano dalla famiglia un’esperienza talmente aliena da essere inenarrabile e inconfessabile, poi nell’atmosfera artificiale delle sale da gioco, lontano dalla città e dalla Storia, alla ricerca di una dimensione dell’esistenza in cui l’assurdità del caso e del destino possa venire imbrigliata nell’accettabile imprevedibilità del meccanismo ludico dell’azzardo consapevole. Ma se il percorso di Keith, nella dimensione del “dopo” è centrifugo, di allontanamento e perdita, a questo se ne contrappone un altro di segno opposto, nella dimensione del “prima”, scandito da altre tre parti del libro che si alternano a quelle cui abbiamo già accennato. Scandito da nomi di luoghi che segnalano un progressivo avvicinamento (dalla Germania alla Florida al cielo sopra New York), è il percorso centripeto di un giovane terrorista, riflesso speculare di Keith: tanto ciecamente orientato all’obiettivo della distruzione e del martirio quanto Keith è disorientato; animato dal fanatismo religioso mentre Keith vive in un mondo senza Dio; diffidente nei confronti del sesso che vede come una pericolosa distrazione mentre per Keith è il momentaneo sollievo ad una solitudine intollerabile. Le due esistenze sono destinate ad avvicinarsi in un vero e proprio punto di fusione, il momento in cui l’aereo con il terrorista a bordo si schianta contro la torre e Keith deve riprendere la propria discesa, al termine della quale l’avevamo trovato nell’incipit del libro, permettendo a DeLillo di chiudere con un’apparente circolarità un anello di Moebius che attraversa. lo spazio e il tempo. Nelle parti dedicate a Keith, un ruolo forse ancora più predominante occupa la figura di sua moglie Lianne, attorniata da diverse figure collaterali, aprendo lo spazio narrativo ad una molteplicità di figure e di voci, e ad un accenno di riflessione anche politica in un romanzo dove a prevalere è decisamente la dimensione esistenziale e psicologica. Lo stile di DeLillo, ellittico e insieme preciso come un bisturi, è magistrale, quanto di meglio si possa pretendere ad un autore contemporaneo, con pezzi di bravura davvero ammirevoli. Ma se tema, struttura, scrittura, capacità di indagine psicologica sono di prim’ordine, motivi per una lettura irrinunciabile, qualche dubbio sorge proprio sulla necessità di certe divagazioni, o figure secondarie; dove a volte sembra smarrirsi quell’urgenza e quella necessità a loro volta intimamente necessarie ad un libro che tratta un tema così straziante per tutta la coscienza e l’immaginario dell’Occidente.
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AMERICAN WIDOW di Alissa Torres e Sungyoon ChoiSpesso le graphic novel (soprattutto italiane, mi sembra) prendono spunto da vicende reali: vite di uomini e donne in qualche modo illustri, episodi di cronaca o di storia, controinformazione. I risultati sono ovviamente di qualità e riuscita differente: a volte si ha l’impressione che la scelta sia dettata da una sorta di pigrizia creativa (si trova un canovaccio già pronto e si deve cercare il modo per dargli un taglio narrativo e per trovare un modo possibilmente originale di illustrarlo), a volte la tematica è più sentita e dà luogo a opere di pregio. L’incontro tra racconto della realtà e l’esperienza autobiografica ha generato un capolavoro difficilmente eguagliabile come Palestina di Joe Sacco, una specie di opera capostipite da cui discendono vari epigoni come Il fotografo di Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre, Frédéric Lemercier o Kobane Calling di Zerocalcare. In American Widow, come preannuncia il titolo stesso, la narratrice non è solo una testimone presente sul campo, ma una vittima. La novel racconta infatti di un anno della vita di Alissa Torres, newyorkese, sposata con un immigrato colombiano e incinta di sette mesi. L’11 settembre 2001 suo marito è al suo primo giorno di lavoro, in una ditta che l’ha appena assunto, e che ha sede in una delle Torri gemelle. Sarà tra quelli che non tornerà mai a casa. American Widow racconta quindi, concedendosi vari flashback sulla vita precedente di Alissa, di Eduardo, sul loro incontro e sulla storia d’amore, un anno della vita della donna, fino al settembre 2002. E’ un anno di lutto e di dolore, ma anche un viaggio grottesco attraverso le conseguenze di una delle tragedie più particolari, oltre che più iconiche e raccontate (qui trovate la mia recensione de L’uomo che cade di Don De Lillo, che pure rielabora il trauma dell’11 settembre) della storia recente. La vicenda segue quindi Alissa in un calvario diviso in tappe e stazioni, dai primi giorni tormentati dalla speranza di trovare Eduardo ancora in vita, alla conferma della sua morte, e poi attraverso un percorso che vede le manifestazioni di affetto e di solidarietà, ma anche di insofferenza e quasi di invidia per i benefici concessi ai parenti delle vittime, o addirittura di satira giornalistica sulle vedove; gli sforzi dello Stato e delle organizzazioni internazionali per garantire assistenza e aiuto ma anche gli intoppi burocratici, le lungaggini, le incomprensioni di operatori non sempre attenti alla sensibilità delle persone. Alcuni particolari sono strazianti, come le operazioni successive di recupero di brandelli dei corpi, con le relative inumazioni parcellizzate, altre volte grotteschi come la definizione degli algoritmi per la quantificazione del “valore economico” di ciascuna vittima ai fini dei risarcimenti o la curiosità morbosa dei media. Ma infine lasciamo Alissa alla ricerca di un nuovo equilibrio, non sola, ma con la consolazione del piccolo Joshua, nato nel tempo del lutto, e con la forza e il coraggio di raccontare la propria non facile storia. American Widow si impone quindi per la forza dei propri contenuti e per la naturale autorevolezza della voce narrante, che peraltro cerca di evitare i toni luttuosi fini a se stessi e le forzature drammatiche, limitandosi a un racconto cronachistico venato ovviamente di emozione e di malinconia. Decisamente meno riuscita mi sembra invece la realizzazione grafica affidata a Sungyoon Choi, coreana di origine ma newyorkese di adozione (collaboratrice anche del “New York Times”). La disegnatrice adotta un tono anch’esso antiretorico, con un disegno molto semplice e diverse soluzioni di impaginazione, ma sempre ispirate a uno stile piuttosto naïf, utilizzando il bianco e nero oltre al verde acqua per le ombreggiature (cui si aggiungono nel finale i colori della bandiera americana , di qualche fiore e di un paio di pagine fotografiche). Ma il segno grafico a mio parere rimane troppo approssimativo e poco incisivo, privo di necessità e di eleganza. Sarà una scelta voluta, ma quella parte di piacere che si prova guardando, oltre che leggendo, una graphic novel qui mi è stato negato. Probabilmente per una questione di (comprensibilissimo) pudore poi si è rinunciato a mettere in immagini una delle pagine (l’87, per la precisione) più forti e intense del libro, in cui Alissa racconta il proprio parto, dove si mescolano la sensazione di star dando la luce ad una nuova creatura, le reminiscenze sessuali legate al rapporto con il marito e la percezione schiacciante della sua assenza. IL GRANDE PRATO di Roberto GrossiRovi, Lamiere, Fango, Plastica, Cemento, Fumo, Sangue, Ossa, Polvere, Formiche, Fuoco, Cenere. Sono i titoli dei dodici capitoli in cui è scandito Il grande prato, l’esordio in volume per Coconino Press – Fandango (aprile 2017) di Roberto Grossi. Sono gli elementi che disegnano immediatamente un paesaggio che è morale oltre che materiale ed estetico, simbolici e letterali nel medesimo tempo. Lo spunto non è dissimile da quello de La terra dei figli, di cui parlo in questo stesso sito: due fratelli senza padre (e senza madre), ridotti a una condizione quasi selvaggia, che devono sopravvivere in un ambiente dove la natura e gli uomini sembrano egualmente ostili. Ma mentre la novel di Gipi è ambientata in un prossimo futuro, dopo una catastrofe che ha fatto regredire l’umanità a uno stato primitivo, nel romanzo grafico di Grossi l’apocalisse è quella quotidiana e attuale delle nostre città. Il grande prato è ambientato alla periferia di una città innominata, dove i palazzi popolari, nati già fatiscenti, si affacciano su una natura residuale che ne è contaminata e inquinata a sua volta. I due bambini gemelli protagonisti vivono tra la schiuma della società, emarginati senza sapere di esserlo, dimenticati dalle istituzioni, irraggiungibili da qualunque welfare. Intorno a loro, un paesaggio umano fatto di miseria, rabbia, delinquenza. Spacciatori, anziani miserabili che frugano nella spazzatura, politici arroganti, razzisti che sfogano le frustrazioni nella violenza, uno zio inetto e fallito come unica figura parentale di riferimento. I due fratelli vivono la loro condizione in una specie di simbiosi allucinata, cinici per condizione, curiosi come lo sono per natura i bambini, avventurosi in un paese senza meraviglie. Grossi ne segue le avventure picaresche in una terra di nessuno che non è città né campagna, come dei moderni Huckleberry Finn e Tom Sawyer in un mondo corrotto e rabbiosamente disperato, sbavando qualche nota solo quando il suo discorso si fa più esplicitamente politico (gli unici personaggi positivi e accoglienti sono stranieri o zingari - e i gemelli non avrebbero mai usato l’aggettivo “squallido” per definire il palco da dove sbraita il politico Carloni). I due fratelli hanno facce segnate dai graffi e dallo sporco, occhi grigi senza pupille a guardare un mondo che è così e che loro non sanno possa essere altrimenti. Grossi usa più didascalie che dialoghi, quasi che i gemelli si esprimessero attraverso una telepatia simbiotica, e limita la sua tavolozza al bianco/nero (con un segno che a volta ricorda quello dark di Charles Burns) e ad una gamma scalare di grigi, che sbiadiscono in occasione di una scena notturna e onirica. Gli unici colori possibili, in un mondo dove il segno della primavera che arriva, se arriva, è dato dalle infiorescenze dei brandelli di plastica impigliati tra i rami lungo uno sporco fiume che porta verso un mare utopico che forse non c’è. IL GUSTO DEL CLORO di Bastien VivèsNe IL GUSTO DEL CLORO (ripubblicato da Coconino Press nel febbraio 2017, ma già edito nel 2009 da Black Velvet e già pluripremiato), su 135 pagine si contano sulle dita di una mano quelle non ambientate all’interno della piscina che il giovane protagonista è costretto a frequentare, spinto dal suo fisioterapista, per curare dei disturbi alla schiena. Non succede molto: se fosse un film, apparterebbe al genere boy meets a girl. Il giovane va in piscina, nuota di malavoglia, si guarda in giro, vede una ragazza; grazie all’aiuto involontario di un amico più intraprendente, scambia qualche parola con lei. L’appuntamento settimanale con la piscina diventa l’attesa dell’incontro con la ragazza. Svolgendosi tutto in un unico ambiente, chiuso, illuminato da luci artificiali costanti che non cambiano con le variazioni metereologiche, Il gusto del cloro ha una straordinaria compattezza e coerenza grafica e cromatica, la cui delicata eleganza è già percepibile solo sfogliando le parole del libro. La tavolozza comprende poco più che le tonalità del verde acqua, del grigio rosa delle porzioni di corpi seminudi che emergono dall’acqua e del grigio più denso dei corpi immersi, del nero dei costumi da bagno e delle cuffie, con appena qualche conveniente nuances in più negli spogliatoi, nello studio fisioterapico, o nei pochi vestiti. Ma nel poco-o-nulla che succede Bastien Vivès, che ha realizzato il suo racconto prima dei trent'anni, è molto abile e sensibile nel raccontare quella speciale dimensione sospesa tipica della piscina, uno strano ambiente in cui le sensazioni visive, auditive, olfattive, tattili (nel titolo c’è in sovrappiù il senso del gusto), e persino quelle relative al peso del nostro corpo e al nostro modo di muoversi nello spazio appaiono strane e differenti. E’ una sospensione delle sensazioni e dei corpi, ma quasi anche mentale, uno svuotamento che apre una finestra temporale, una bolla d’aria, una strana parentesi nel flusso dei pensieri di tutte le ore di veglia. Le pagine, molte delle quali senza dialoghi o parole (il numero delle vignette mute è ben superiore a quello di quelle parlate, e le uniche didascalie presenti riportano tutte e solo un’unica dicitura: “il mercoledì seguente”), seguono pertanto i protagonisti mentre nuotano, si fermano appesi al bordo della piscina, si strizzano gli occhi o il naso, guardano gli altri bagnanti o osservano scorrere il soffitto mentre scivolano nell’acqua sul dorso. Alla fine, davvero, sembra quasi di sentire l’odore del cloro nelle narici. Ma non è ancora una sospensione dei sentimenti. Mercoledì dopo mercoledì, mentre le capacità natatorie progrediscono, l’ora di piscina diventa un’attesa piacevole e dolorosa, in cui l’apparire di una capigliatura scura liberata dalla cuffia può dare un tuffo al cuore, un braccio alzato in segno di saluto in una vasca affollata può donare un attimo di gioia e di euforia. La piscina diventa lo spazio ritagliato di un breve incontro, iscritto in una dimensione astratta e separata dal caos del mondo, in cui potrebbe nascere qualcosa tra il ragazzo e la ragazza che forse non si sono neppure ancora detti i propri nomi. Potrebbe. Se si potesse intendere il senso di una frase o di una parola pronunciata sott’acqua. Se la ragazza tornerà un altro mercoledì. Se si riuscirà ad avere abbastanza fiato da riuscire a starle dietro. Se si comincerà ad assaporare lo strano gusto del cloro. PIRATI, di Gianluca De Angelis, scritto in collaborazione con Silvio Cavallo e Alessio Parenti, regia di Gianluca De AngelisQualche sera siamo andati al Teatro Verdi di Milano a vedere PIRATI. Si tratta di uno spettacolo di teatro-cabaret, composto da una sessantina di sketch brevi e brevissimi, tutti ispirati e ambientati nel mondo della filibusta, ovviamente con abbondanti ammiccamenti a situazioni e comportamenti contemporanei e in una chiave goliardica e surreale. Nell’abbondanza dei siparietti, in cui si inseriscono anche un paio di tormentoni (uno dei quali rappresenta l’unica eccezione all’ambientazione corsaro-piratesca) e numeri musicali con canto e ballo (tra cui un medley di canzoni marinare-piratesche, da Sono un pirata sono un signore a Il rock di Capitan Uncino, da Il mare d’inverno a Acqua azzurra acqua chiara), alcuni sketch funzionano, altri meno; alcuni fanno ridere, alcuni sorridere, alcuni né l’uno né l’altro, anche se bisogna dire che i cinque interpreti maschili (più due, uno in solitaria sul palco e l’altro, come dirò, in platea) hanno in buona parte il physique du rôle e sono simpatici e bravi. A volte in effetti sembra che gli attori-cabarettisti (i Senso d’oppio, Giorgio Verducci, Silvio Cavallo, Fausto Solidoro, tutti del “giro” Zelig, e il capocomico nonché autore e regista Gianluca De Angelis, che a Zelig faceva il numero dello speed date con Marta Zoboli, di cui qui si conservano alcuni elementi come l’umorismo freddo, il gusto surreale, la velocità seriale di esecuzione) siano migliori dei testi e la costruzione delle situazioni sia più godibile ed efficace della chiusa comica, che talvolta manca o è debole. Il momento clou dello spettacolo però, per noi, è stato quando un giovane spettatore seduto in una platea non molto affollata si è alzato in piedi durante la rappresentazione ed è intervenuto interrompendo gli attori sul palco, presentandosi come un blogger di teatro, facendo i complimenti agli attori e cominciando una disamina critica dello spettacolo (mentre i pirati sul palco abbozzavano con un’aria più scocciata che compiaciuta) che cercava di rintracciarne influenze, fonti d’ispirazione e citazioni, dai Monty Python a Ben Turpin e alla tradizione slapstick. Chiaramente era un attore e l’interruzione faceva parte dello spettacolo (impossibile per noi non ricordare le interruzioni dalla platea di un Bebo Storti polemico e acrimonioso durante un memorabile e geniale Romeo e Giulietta messo in scena anni fa da Paolo Rossi, con la presenza sul palco, nei ruoli minori, di spettatori volontari più o meno spaesati, reclutati nel foyer del teatro al momento dell’ingresso). Alessandra si è divertita moltissimo e rideva dicendomi “sei tu! sei tu! Fate proprio così!”, iscrivendomi di diritto nella schiera dei critici analitici che si inventano interpretazioni e rimandi a proposito di opere di autori che magari non se li sognavano neppure. Io annuivo, ammettendolo: avrei potuto benissimo essere al posto dello spettatore importuno e saputo. Quando lui ha detto che magari poteva lasciare agli attori l’indirizzo del blog, ad Alessandra non sembrava vero, pensando a me che approfitto di ogni occasione (ma con pudore, dài!) per rifilare a amici e conoscenti, anche occasionali, il bigliettino da visita di intothewonderland. Tutto vero, aveva ragione Alessandra, anche a me sembrava di sentire parole che avrei potuto dire io. Insomma, il più pirata di tutti è risultato l’attore-spettatore-critico all’arrembaggio del palco-galeone; se non ne provassi vergogna, citerei qui gli scritti corsari di Pasolini, e la funzione della critica (nel suo caso della società e dell’ideologia) come battaglia militante delle idee. Ma ne provo vergogna, e quindi non lo farò, e se l’ho fatto sbadatamente me ne scuso. Io come duellante ideale mi sono inventato addirittura l’Oruam Norac che fa il controcanto critico alle mie recensioni cinematografiche nella sezione Face/Off del sito: ombra che duella con un’ombra su una nave fantasma, come fanno ad un certo punto dello spettacolo anche i pirati sul palcoscenico, sciabolando forsennatamente contro nemici invisibili. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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