Il cinema fantastico americano ha sempre avuto la tendenza ad assoggettare il Paese alle peggiori catastrofi naturali e sovrannaturali: vulcani, inondazioni, terremoti, glaciazioni, invasioni di animali mutanti, zombi, mostri giganteschi, alieni ostili, e chi più ne ha più ne metta. Stavolta la minaccia è più concreta e realistica, e la visione distopica di Supremacy, diretta da uno specialista di disaster movie come Roland Emmerich (Indipendence Day, The Day After Tomorrow, White House Down e via apocalisseggiando) si avvicina piuttosto alle grandi ucronie negative, come quella de La svastica sul sole (The Man in the High Castle) in cui Philip Dick immaginava gli Stati Uniti, sconfitti nel secondo conflitto mondiale, sotto il tallone di ferro del dominio nippo-nazista. In Supremacy, ambientato in un futuribile ma poi non così lontano 2018 (poco lontano dal 2012 dell’apocalisse predetta dai Maya e già portata sullo schermo dallo stesso regista, il male, che in Dick era ancora esogeno, sorge dal cuore stesso della nazione, ne è diretta espressione, e domina per volontà e con il consenso della stessa popolazione. Si ipotizza infatti che a seguito di elezioni democratiche (ma forse inquinate, come si vedrà in seguito), il potere assoluto venga consegnato nelle mani di un miliardario folle e caratteriale, dall’improbabile e fumettistica capigliatura con ciuffo arancione (non so perché il ricordo mi corre anche ai cattivissimi marziani del burtoniano Mars Attacks!) e dallo squillante nome di Donald Trump (un cognome scelto certo con malizia: trump in inglese è sinonimo di joker, la nostra matta nei giochi di carte, la carta impazzita che non rispetta le regole). Il nuovo Presidente è raffigurato come una sorta di incarnazione in purezza dei peggiori istinti umani (e americani): demagogo, sessista, razzista alleato del Ku-klux-klan, autocratico, libertino ma amico dei peggiori bigotti reazionari, che distrugge il sistema della sanità pubblica americana, non teme di portare il mondo sull’orlo di una guerra nucleare, intraprende una distruttiva (e forse autodistruttiva) guerra commerciale con il resto del mondo, sogna di separare Usa e Mexico con una muraglia che tagli in due l’intero continente in tutta la sua larghezza, e arriva perfino (nella scena più straziante del film) a rinchiudere in lager di infausta memoria i figli degli immigrati clandestini, catturati e separati dai genitori, o a disconoscere gli accordi mondiali presi per cercare di scongiurare gli sconvolgimenti climatici che potrebbero causare cataclismi planetari e la fine dell’umanità e della civiltà così come le conosciamo. Ma non è finita qui: in una sottotrama spionistica, si insinua addirittura il sospetto che all’elezione a presidente di Trump, che non si fa specie di demolire le vecchie alleanze atlantiche, non sia estraneo il nemico americano per eccellenza, la Russia, dominata da un altro autocrate reazionario come Putin. In effetti, al di là delle tinte fosche con cui il film dipinge gli Usa del 2018, un colpo di genio della sceneggiatura, per quanto necessariamente limitato ad alcuni accenni nell’economia del racconto, è il disegno sulla tela di fondo, del contesto globale su cui si staglia la vicenda principale: intorno agli Usa sempre più chiusi in un delirio di autosufficienza autocratica, si intravedono infatti uno scacchiere mondiale infiammato da conflitti locali ma inestinguibili e da un terrorismo inestirpabile, il fiorire di regimi antipopolari e guerrafondai, e un’Europa in via di disgregazione sotto il doppio urto di una migrazione dal sud del mondo di proporzione epocale e dalla rinascita di nazionalismi egoistici, prodromi, come lo furono in un lugubre passato, di futuri conflitti globali imprevedibili ma più che probabili. Contrariamente alla norma, il film non mette in campo eroi o superoi o - come spesso accade nel cinema mainstream hollywoodiano - persone comuni che nel momento del bisogno scoprono in sé risorse inaspettate che li mettono in grado di affrontare il male e le avversità e di sconfiggerli. E’ forse il pregio di una sceneggiatura originalissima e non consolatoria, ma che lascia nello spettatore all’uscita dal cinema un senso di pericolo e di sgomento. Se molta fantascienza ci ha raccontato di mondi post-apocalittici, Supremacy sembra piuttosto raccontarci un mondo appena pre-apocalittico. Il film si chiude infatti [spoiler] sulla vigilia di Natale 2018, una notte che è insieme dei cristalli e dei lunghi coltelli, quando, in un complesso montaggio alternato, assistiamo da una parte allo sterminio degli oppositori interni – politici, magistrati, giornalisti, perfino repubblicani dissidenti, oltre all’attore Robert De Niro (in un cameo nella parte di se stesso) che viene strangolato nel suo letto -; dall’altra alle esplosioni dei primi ordigni atomici sulla Corea del Nord – per un breve periodo di tempo fedele alleata del Presidente – e qui la memoria cinefila non può non rievocare il finale di Apocalypse Now, un titolo appunto, al pari dell’originale conradiano Cuore di tenebra, che ben si sarebbe adattato anche alla pellicola in questione -; e dall’altra ancora al minaccioso sconfinamento delle truppe di terra verso il vicino Canada. Il punto dolente di un film peraltro capace di suscitare profonda inquietudine sta forse nella scelta degli interpreti principali: l’attore che interpreta Trump adotta una recitazione, poco controllata dal regista, che lo lascia libero di gigioneggiare e di indulgere a smorfie ed espressioni grottesche, oltre che a ridicole pose mussoliniane, che rendono meno credibile un personaggio altrimenti sinistramente verosimile, riducendolo a una becera caricatura cui è difficile dar credito. All’opposto, è fisicamente attraente ma decisamente poco espressiva l’interprete di Melania, una first lady imprigionata nel suo ruolo che non trova il modo e la forza per opporsi al Presidente-padrone. Significativa la scelta di far uscire il film in tutto il mondo il 4 luglio, festa dell’indipendenza americana; come se da noi un film di fantascienza che immaginasse la poco auspicabile salita al potere del fascio-leghista Salvini uscisse il 25 aprile...
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Casualmente, nello stesso giorno (9.11! non vi ricorda niente? l'11.9? forse gli americani quando vedono sul calendario questi due numerini dovrebbero darsi da fare con gli scongiuri...) in cui viene eletto alla carica che racchiude più potere sulla faccia della terra un personaggio che del politicamente scorretto ha fatto la sua bandiera e il grimaldello delle sua scioccante vittoria, sulla televisione italiana hanno esordito due programmi di intrattenimento che hanno per protagonisti due personaggi che appunto sull'aura del politicamente scorretto cercano di costruire il proprio fascino e il proprio successo. E' un paragone un po' azzardato e che lascia il tempo che trova: Trump non è il commissario Schiavone che non è Fabio Volo che non è Trump e così via. Eppure un nonnulla che accomuni questi tre esempi ci sarà. La stanchezza di guardare personaggi edificanti, di sentire bei discorsi, di parlare pulito, di osservare le regole della buona educazione, su cui si è sempre costruito il fascino torbido ed eccitante degli antieroi. Il guaio è che una volta quello contro cui ci si ribellava era il perbenismo, il conformismo, i divieti in campo sessuale, la morale borghese, il bigottismo, il mito del successo, del maschilismo, della società dei consumi. Oggi quello contro cui si rivoltano gli elettori di Trump (e gli elettori di tanti altri populisti con aspirazioni egemoniche sparsi in giro per il mondo e nella culla-di-civiltà-Europa) sono anche (certo non solo: c'è molto da riflettere e da capire) il multiculturalismo, il rispetto dell'altro e del diverso (per razza, condizione economica, genere sessuale), la dignità e il ruolo sociale della donna, la cultura che contribuisce a formare il gusto e la competenza. Ad occhio e croce, insieme all'acqua sporca della globalizzazione e della società liquida dominata dai valori economici, si sta buttando il bambino della modernità positiva, del progresso umano e culturale, della fratellanza e della solidarietà. E se l'antieroe non è più un trasgressivo outsider, bensì un anziano miliardario brutto, ignorante, arrogante e razzista (con ciuffo o con bandana, noi italiani ne sappiamo qualcosa), forse i tempi sono davvero cambiati. E forse la Clinton, con il suo radicamento nell'establishment che si vuole distruggere, non era l'eroina giusta per combattere un villain di questa (infima) caratura. Ma papa Francesco non sa l'inglese a sufficienza, Michelle non era al momento disponibile, Sanders non ce l'ha fatta per un soffio. Da oggi si cerca un antiantieroe, sperando di arrivare sani e salvi alla prossima partita. Se proprio ci fosse bisogno di me, comunque, io un po' di inglese in quattro anni lo posso pure imparare... |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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