Napoli grand tour: la teatralità come metafora e come modo di essere
Ogni città ha una chiave. Anzi, la maggior parte delle volte ne hanno diverse. Napoli è forse una città che, tra le molte altre, ha una chiave universale, capace di aprire tutte le porte, di gettare luce su ogni suo aspetto, o quasi. Non è una chiave originale, probabilmente ne avevo già sentito parlare tante volte, ma stavolta l’ho scoperta, l’ho vista con i miei occhi e poi l’ho provata, ed effettivamente tutte le porte si sono aperte. La chiave, è ovviamente, il teatro. Napoli è davvero una città teatro, dove tutto è costantemente in scena, dove tutto sembra concepito per una rappresentazione, non necessariamente gradevole o accattivante, ma pur sempre una pubblica esibizione. D’altra parte Napoli è una città che aderisce spesso e volentieri ai propri stereotipi, sia positivi che negativi: la città della musica, del fatalismo ironico, dell’allegria esuberante, e anche quella dei topi per la strada in pieno giorno, della sporcizia che rende impraticabili alcuni marciapiedi, del degrado (la nostra cognata cubana Nenè ama Napoli perché le ricorda L’Habana: il mare, la città splendida e decadente, l’architettura della Spagna secentesca, la schiettezza degli abitanti...). Lo spettacolo della città incantò Cervantes, che la definì la più bella d’Europa, e Stendhal, per il quale era la più bella dell’universo; scandalizzò con lo spettacolo della cuccagna di Carnevale e del mercato del sesso un inopinatamente moralista marchese de Sade in fuga dai propri crimini; Dickens scrisse dello spettacolo del risveglio della città che, tra Pulcinella, comici, mendicanti, marionette, sporcizia e degradazione, sciorina al sole ogni giorno “il suo abito d’Arlecchino”. Ma ovviamente non parlo del teatro vero e proprio, anche se la tradizione del teatro partenopeo è universalmente riconosciuta (da Pulcinella a Totò, da De Filippo a Martone e al cabaret teatrale di Troisi) e se la città si vanta di avere il maggior numero di sale teatrali rispetto al resto d’Italia (e se, mentre scrivo, ad esempio a Milano ci sono in scena sia De Filippo che Pulcinella). E neppure di quel teatro espanso che sono il cinema e la televisione, anche se alcuni dei più interessanti e originali film italiani della scorsa stagione sono stati prodotti e girati a Napoli (e variamente premiati con i David di Donatello: Ammore e malavita, Gatta Cenerentola, Napoli velata – che mi ha istillato la voglia di rivedere Napoli dopo tanti anni); e anche se l’immaginario della fiction televisiva è stato delineato in opposte direzioni da Un posto al sole – la più longeva soap italiana – e da Gomorra; e se davanti a Castel Capuano (oggi sede del tribunale) ci siamo imbattuti nei mezzi di produzione di Un’amica geniale, la fiction tv ispirata alla celeberrima saga di Elena Ferrante.
Parlo della città, delle strade, dei muri, della gente, dei suoni, delle chiese, delle vetrine, del panorama. Tutto è teatro, comico a volte, drammatico altre, e i napoletani sono i personaggi di una gigantesca rappresentazione: una rappresentazione insieme popolare e coltissima, piena di librerie, di archivi, di splendidi musei, di intellettuali, di storia; una rappresentazione affollatissima, che riempie le strade e le piazze di personaggi, con scene di massa impressionanti, fiumane immense, inesauribili, che scorrono lungo via dei Tribunali, Spaccanapoli, Toledo, e le intasano, che riempiono il lungomare pedonalizzato; famiglie, anziani, bambini, ragazze orgogliosamente prosperose, inevitabili signore giaguarate, tamarri vestiti in quella che loro interpretano come ultima moda; tanta gente che satura locali e ristoranti, che riempie i tavoli e si allinea nelle strade e nei vicoli aspettando il proprio turno al ristorante. Una rappresentazione esuberante, affabile, rumorosa, ostica, che si esprime in dialetto e che risuona nelle strade, nei vicoli sotto le volte dei portici o dei passaggi coperti, che a volte assumono un aspetto mediorientale; che anima i mercati e le onnipresenti bancarelle e che riempie lo spazio aereo nei vicoli di biancheria perennemente stesa ad asciugare (un’intimità domestica rovesciata all’esterno, perennemente messa in piazza e in pubblico); una rappresentazione disordinata fatta anche di traffico pesante e impaziente, di motorini che sfrecciano dovunque e dai quali bisogna continuamente guardarsi, di motociclisti in gran parte senza casco, di famiglie intere sullo stesso motorino – come abbiamo visto sorprendendoci in India o in Indonesia -, o bande di ragazze sullo stesso sellino, o – i più spericolati – bambini che sfrecciano nei vicoli in scooter, tagliando gli angoli, zigzagano spericolatamente in mezzo a passanti, bancarelle, altri bambini appiedati. In un vicolo si rompe una tubatura e dal muro prorompe un poderoso getto d’acqua che forma un torrente che scorre fino a via dei Tribunali: quando arriva una signora con la borsa della spesa un uomo tappa la falla con la mano e la fa passare...
Le foto che pubblico in questa pagina danno un’idea solo della scena, dello sfondo, ma non possono rendere giustizia: manca l’azione, la performance, la musica, il suono delle parole e delle cose. E se si sa che la gente di teatro è proverbialmente superstiziosa, i napoletani li surclassano con i profluvi di smorfie, cornetti portafortuna, talismani e amuleti, ma anche ex-voto (nelle librerie c’è perfino un libro che raccoglie le più bizzarre richieste di grazie espresse dai napoletani) e altarini ed edicole religiose piazzati nelle strade e nei vicoli, veri e propri teatrini architettonici, illuminati, popolati di immagini e personaggi. In uno abbiamo visto molti personaggi tridimensionali bruciare vivi nelle fiamme dell’inferno, in un altro Maradona è adorato come un dio. Si familiarizza con gli altri spettatori, ragazze canarie che fanno l’Erasmus, un quartetto di belgi di Anversa con un uomo e tre donne, dei francesi di Tolosa, delle monzesi impazienti; si incrociano altri turisti/spettatori, che compulsano agli angoli di strada le guide, come alla ricerca della spiegazione di uno spettacolo difficile da interpretare. Noi veniamo spesso scambiati per stranieri, forse per la carnagione chiara e per non avere vestiti e accessori firmati. Se ci fermiamo a prendere uno spritz ad un euro in un vicolo dei Quartieri Spagnoli, ci sono subito dei ragazzi con cui chiacchierare, come Peppe, con cui parliamo di cinema, di Tarantino e Winding Refn, di emigrazione e di esperienze all’estero, di politica e di De Magistris, di pensiero critico e di prospettive della sinistra, e di come ancora poco tempo fa nei Quartieri, a fianco della via Toledo dello shopping e dei negozi firmati, ci si sparasse in testa.
Per le strade si fa anche spettacolo, sul serio: nelle piazze si incontrano gruppi musicali, danzatrici del fuoco, madonnari, percussionisti neri che cantano in dialetto partenopeo, un omone corpulento che recita Macbeth e Lady Macbeth tutto da solo; ad un angolo di strada sentiamo musica e ci guardiamo intorno cercando di capire da dove venga: lo scopriamo guardando uno stretto vicolo laterale e alzando gli occhi: c’è un signore su un balcone, tutto ornato di limoni finti, che canta canzoni napoletane al microfono, con un piccolo impianto di amplificazione. La gente sta con naso all’aria, alza i telefonini per fotografarlo e riprenderlo; lui ogni tanto rientra a far partire le basi e regolare l’impianto e ogni tanto cala dal balcone un cestino di vimini per raccogliere le offerte: è “il balcone della canzone”. In quale altra città? D’altra parte anche la musica tradizionale napoletana ha carattere teatrale: da Malaffemmena o La cammesella, che è uno sketch musicato, a tutta la tradizione della sceneggiata, che porta già nel nome la commistione tra musica e teatro, alla musica colta di De Simone, al pop raffinato degli Avion Travel, per i quali l’aggettivo “teatrale” si è speso innumerevoli volte.
Teatro pietrificato sono i presepi, di cui Napoli è la capitale mondiale, di cui traboccano le botteghe di via San Gregorio Armeno, ma che si ritrovano nelle case, nei musei, nelle chiese: una gigantesca opera infinitamente replicata, dove il canovaccio è sempre lo stesso, ma dove le scenografie, gli attori e i personaggi si rinnovano continuamente, perennemente in bilico tra la tradizione e la più stretta attualità, riletta sempre con occhio sardonico e irriverente; teatro pietrificato è di nuovo il gruppo del compianto sul Cristo morto, con statue in terracotta a grandezza naturale, in Sant’Anna dei Lombardi; teatro pietrificato per eccellenza è Pompei e la sua memoria, con una città intera immobilizzata in un attimo della sua vita, con i suoi personaggi, i suoi animali e oggetti di scena, tutti riprodotti per una rappresentazione impossibile ed eterna, di cui recano traccia non solo il fantastico Museo archeologico, ma perfino il Madre, dove l’arte contemporanea si specchia e gioca con le memorie del passato nel progetto espositivo Pompei@Madre.
La pittura e l’architettura del secolo d’oro di Napoli sono quelle del barocco, lo stile più enfatico, artificioso e teatrale della storia. Ma lo spettacolo, come a teatro, non è all’esterno dell’edificio, ma al suo interno: ecco allora i sontuosi saloni nascosti, i cortili come piccoli palcoscenici di vita, le scale monumentali. I muri stessi non sono (più) semplici elementi costruttivi, che sorreggono e che escludono lo sguardo: al contrario, sono a loro volta tela continuamente dipinta, rappresentazione continua. Ai segni della storia, del tempo, del degrado e dell’usura che li segna, li sbreccia, li screpola, dà loro una nuova pelle scabra e sofferta, indizio di una malattia incurabile ma non letale, si sovrappongono i segni dell’attualità, la sporcizia delle tag e degli scarabocchi che imbrattano qualsiasi parete, anarchicamente, disordinatamente, ma anche le espressioni di una figuratività spesso sorprendente. Grandi murales coprono intere facciate, immagini fanno capolino dovunque. Tra i panni stesi ad asciugare compare un gigantesco San Gennaro giovane; un altro San Gennaro ha ai suoi piedi un’adorante sirena Partenope mentre lì vicino ‘o vulcano è in eruzione, e un altro ancora esibisce da un manifesto la propria carta d’identità di santo patrono; si vedono animali fantastici, personaggi metà donne e metà pesce, creature di ogni foggia, preti a mani levate usati come san sebastiani, poliziotti e manifestanti che si fronteggiano – ed è Milo Manara -, fride kahlo e fantasmi di marylin, pulcinelle con mandolino e pini danieli; Maradona palleggia su un muro, sorride da un altro, occhieggia da una vetrina, da un’edicola votiva; da qualche parte, ma democraticamente confusi in una babele di segni e di icone, ci dovrebbero essere anche un paio di Bansky, ma chi se ne importa.
Anche le parole danno spettacolo: non solo le creative insegne dei negozi, ma anche i cartelli dei negozi, di solito scritti a mano, disordinatamente, a volte sgrammaticati o dialettali. Su uno che ho fotografato, accanto a un teschio con tibie incrociate, c’è scritto: “Non sostate fuori bottega. Entrate o proseguite, altrimenti le macchine vi arricettano senza pietà”; un altro, stampato, supplica i più distratti (con le maiuscole così come le riporto): “Si Prega di non depositate la Spazzatura. I Contenitori non ci sono più”. Perfino un volantino ben stampato accanto all’università pubblicizza esuberanti “sbobbinature”.
Ma il teatro non è solo palcoscenico, è fatto anche di sottopalco, di botole, di quinte, di palchi e praticabili: Napoli si moltiplica allora su più livelli e su più ambiti, in verticale e in orizzontale. Napoli è forse una delle città viventi al mondo ad essere interessante sottoterra quasi quanto sopra il livello del suolo. Sotto il mondo visibile si nascondono resti archeologici della città di un tempo, cave di tufo, cisterne per l’acqua piene di leggende, catacombe piene di ossa e di mistero, bunker, rifugi antiaerei ancora trasudanti delle tragedie di un’umanità spaventata e vessata eppure viva e piena di voglia di vivere (in quello che abbiamo visitato noi c’erano ancora dei perturbanti giochi per bambini-fantasma). Per non parlare della metropolitana: se nelle altre città le stazioni della metropolitana sono dei non-luoghi che assomigliano l’uno all’altro, anonimi e anodini, a Napoli sono state trasformate in luoghi dove l’arte si mette in scena, scenografie creative una differente dall’altra. Risaliti in superficie si scoprono i bassi, sorta di camerini senza finestre e senza luce se non quella artificiale, i cui attori non sono visibili finché non escono sulla scena esterna; si scoprono le scale a vista nei cortili barocchi, rampe come praticabili e pianerottoli come palchi dove affacciarsi a guardare il palcoscenico del cortile; si scoprono le macchine teatrali come ad esempio le scale mobili o le funicolari, che collegano l’alto e il basso, l’emerso in superficie e il sommerso ctonio.
E il panorama stesso, con il mare brillante, le montagne a fare da sfondo, il vulcano a imprimere la sua impronta inconfondibile, non è forse esso stesso un formidabile sfondo teatrale, un’eterna quinta da sceneggiata, da carosello napoletano? Sulle mura del castello di Sant’Elmo, dove si gode una vista unica al mondo, a 360° gradi, sulle montagne, sull’intera città di cui si può cogliere ogni singolo dettaglio – piazze, strade, edifici, castelli, chiese, i grattacieli del centro direzionale, le cupole di pietra e quella di vetro della Galleria Umberto I, il rettifilo ombroso di Spaccanapoli -, su due penisole, sul mare, su tre isole, su un vulcano ancora attivo, ci si sente una specie di deus ex-machina che osserva dall’alto le pedine delle vicende umane.
Torniamo con i piedi per terra per andare a mangiare, nelle stradine ripiene di scenografico cibo da strada: cuoppi traboccanti di fritture, pizze a portafoglio, babà al rum sovrapposti adagiati tra strati di creme. Per cenare nelle trattorie del centro storico (alcune delle quali godono di grande fama) alla giusta ora ci si deve mettere in fila e socializzare con gli altri avventori in attesa. Ogni sera al ristorante è stato un piccolo teatrino. Alla trattoria Capri la signora impersonava la smorfiosa che guardava con diffidenza e preventivo disprezzo i clienti che osavano farle una richiesta; da Nennella il proprietario esce tra i tavoli affollati disposti nel vicolo, annuncia a gran voce, ad uno ad uno, i piatti del menù, e prende nota delle mani alzate; in via ... c’è una fila in attesa davanti a un ristorante con le saracinesche abbassate, malgrado il signore che lì accanto vende sulla strada aperitivi ad un euro e mezzo alterni il roboante appello “Aperol spritz!” ad altrettanti perentori “E’ chiuso!” “Apre domani domattina!”. Il suo socio mi spiega che è stato lui a dire alla gente di mettersi in fila ad aspettare. Così “stanno a diggiuno, fanno ‘a dieta”. Alla Trattoria Toledo portano il menù al tavolo, ma quando si fanno le ordinazioni si scopre che quasi tutti i piatti sono finiti. Il responsabile è lucidamente affranto. I nostri vicini ordinano un piatto di cozze e gli portano senza una parola di spiegazione un piatto di vongole. Quando protestano educatamente il proprietario gli spiega che le vongole sono “proprio finite”. Il cliente si rassegna e comincia a mangiare; dopo qualche minuto arriva al tavolo, sempre senza una parola, un bel piatto di cozze. Poco dopo al tavolo vicino portano un altro piatto di cozze. Ma non le avevano ordinate. Conoscevo una barzelletta che si basava su un dispositivo comico simile. Nel frattempo le signore di un altro tavolo avevano ordinato un’insalata di polipo. Arriva silenziosamente un’insalata di mare. La signora richiama il cameriere e gli chiede se è un'insalata di mare o di polpo. Lui le conferma che è un’insalata di mare. La signora obietta che lei però aveva ordinato un’insalata di polpo, e: è un’insalata di polpo, afferma lui, cambiando versione all'istante con una stanca imperturbabilità.
Ovviamente una parte preponderante nella teatralità napoletana è occupata dalla religione. Già dicevo delle edicole votive, delle chiese barocche (in Duomo angeli alati aprono il sipario sull’altare di una cappella laterale); ma la settimana di Pasqua in cui abbiamo visitato la città è una delle occasioni in cui la religiosità diventa spettacolo da strada, con le processioni dei vari sedili (gli antichi quartieri) che sfilano per strade e vicoli, con gli uomini che oscillano sotto il peso dei baldacchini votivi, i richiami e i canti a piena gola che risuonano misteriosi e indecifrabili, le luci, i fumi colorati, le coreografie dei portatori e degli accompagnatori, la musica chiassosa dei gruppi musicali che seguono o procedono suonando di tutto, a proposito e a sproposito, anche Il Piave mormorava, anche Bandiera rossa. Nella cappella di San Severo Cristo è un mistero velato da un sudario marmoreo talmente trasparente da essere a sua volta un mistero; ma pochi metri sotto, nella cripta, la sacralità del corpo umano è totalmente svelata e denudata, in uno spettacolo perturbante di ossa ma soprattutto di vene e arterie, metallizzate e minuziosamente conservate con un prodigioso e inspiegato procedimento alchemico Nelle chiese, molte tombe antiche sono fatte a baldacchino. Edicole di pietra sotto le quali è distesa la statua del defunto o della defunta. Davanti, gli angeli schiudono le tende pietrificate per rivelare l’interno. Si apre il sipario. Alla fine anche la morte, naturalmente, a Napoli è una messa in scena.