SANI! - TEATRO TRA PARENTESI di e con Marco PaoliniE' tornato a teatro anche Marco Paolini, uno dei più grandi artisti del teatro di narrazione italiano. Torna a suo dire cambiato, dopo l'infuriare della pandemia, il lockdown, la chiusura forzata dei luoghi di spettacolo (e di tanto altro), il periodo di inattività con il cervello che non smette di funzionare, e lo spettacolo di un mondo che non era difficile immaginare tanto fragile, ma che della propria vulnerabilità ha dato un esempio talmente convincente da sembrare una sinistra prova generale. Sembrano scaturire tutti da qui, lungo diversi ma alla fine non inconciliabili rivoli, i racconti che vanno a riempire il teatro tra parentesi di Sani!. “Sani” è una formula di saluto in uso in alcune zone del Veneto, ma qui suona anche come un auspicio per il futuro, e ancora come un'esclamazione di sollievo, al ritrovarsi di nuovo vivi, in una sala gremita, ad assistere di nuovo all'antico rito collettivo del teatro. Si parla così di teatri e luoghi di spettacolo chiusi; ma siamo tornati indietro nel 1983, a seguito del disastroso incendio nel Cinema Statuto di Torino. Paolini partecipò a quel tempo all'organizzazione di uno spettacolo teatrale che doveva servire a raccogliere fondi e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla situazione degli operatori dello spettacolo, soprattutto i più piccoli e i più penalizzati. Ne scaturisce il racconto di un'avventura rocambolesca dove si mescolano l'inesperienza, l'ingenuità, la cieca fiducia nel potere della cultura, attraversata dalla figura lunare e inaccessibile di Carmelo Bene, inconsapevole testimonial (retribuito) della fallimentare iniziativa. E' il momento più godibile e divertente dello spettacolo, dove il racconto della débâcle si ammanta di umorismo e autoironia. Perché il prologo dello spettacolo è più hard, con Paolini che, sullo sfondo di un troneggiante simbolico castello di carte (il castello delle cose, una torre di Babele tanto esorbitante quanto facile a rovinare ad un tocco di dita o a un soffio d'aria), dà i numeri, raccontando di come il peso di tutti i manufatti umani abbia ormai raggiunto (e si prepara a superarlo, in una crescita esponenziale inarrestabile), l'intero peso della biomassa terrestre, ovvero l'insieme di tutti le forme di vita presenti sul pianeta. Sono delineati così i due binari su cui corre lo spettacolo (e che innervano il percorso artistico di Paolini, tra l'autobiografia sentimentale degli Album personali e le narrazioni civili di eventi collettivi, come ne Il racconto del Vajont o in Parlamento chimico), tra la dimensione delle memorie personali e quella dei grandi temi: il mondo che cambia o meglio che scivola lungo una china rovinosa, tra pandemia, cambiamenti climatici, e un'Europa che smarrisce e tradisce i propri valori. C'è quindi un alto ufficiale sovietico (Stanislav Evgrafovic Petrov) che, nello stesso 1983, con la propria capacità di giudizio e la propria volontà evita la risposta ad un presunto attacco militare americano (che in realtà era un abbaglio del sistema di difesa russo), scongiurando un'apocalisse nucleare. C'è una donna comune che in mezzo alle macerie del terremoto di Gemona offre senza battere ciglio (come il pescatore di De Andrè) quel che poco che le rimane, un po' di vino, un caffè caldo e corretto: un'eroina della resilienza prima che fosse creato il termine (e che, se il termine fosse esistito, non ne avrebbe capito il significato). C'è un sogno di Giorgio Gaber (raccontato nell'album E pensare che c'era il pensiero, un titolo che suona oggi di grande e desolante attualità), con un uomo su una zattera che si interroga se far posto ad un naufrago che rischia di affogare o dargli una remata in testa per non correre rischi (e sullo stesso uomo che si ritrova in mare rischiando di affogare mentre l'altro sulla zattera si chiede se accoglierlo o dargli una remata in testa per risolvere il problema). C'è un uomo che in un racconto di Raymond Carver deve descrivere ad un cieco una cattedrale, e c'è Antoni Gaudì, che progettò la Sagrada Familia senza avere la speranza di vederla mai finita, capace di vedere il futuro oltre il limite della propria esistenza. Da storie apparentemente slegate emerge quindi chiaro il messaggio. Bisogna essere capaci di ricominciare; bisogna essere resilienti, coraggiosi, in grado di giudicare rettamente sulla bilancia il valore della vita umana e dei beni materiali; bisogna essere uomini e donne capaci di opporsi al male con la propria individuale volontà, di spingere lo sguardo oltre il futuro e di avere la forza e la visionarietà di progettarlo. Sono le fondamenta de La fabbrica del futuro, un progetto che Paolini ci invita a cercare e seguire nei prossimi mesi. Il consumato talento affabulatorio di Paolini si conferma ineccepibile come sempre, anche nell'apparente dispersività dei temi; meno riuscite a mio parere le canzoni (sulle stesse tematiche) che intervallano i quadri dello spettacolo, quando Paolini fa un passo indietro per lasciare spazio al musicista Lorenzo Monguzzi e alla cantante italo-etiope Saba Anglana, una presenza scenica comunque suggestiva per vocalità ed eleganza.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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