La CASA MUSEO DI FRANCESCO MESSINA a MilanoPur vivendo accanto a Milano da una vita, non ci eravamo mai accorti dell’esistenza nel centro città della casa-museo di Francesco Messina, interessante per la sua collocazione oltre che per la sua collezione. L’artista siciliano, stabilitosi a Milano (già dagli anni ’30 insegnava e poi dirigeva l’Accademia di Brera), ottenne in comodato d’uso la secentesca chiesa di San Sisto, abbandonata e in rovina, proprio in fondo alla via Torino che porta da piazza Duomo al Carrobbio. L’accordo prevedeva la ristrutturazione della chiesa e dell’adiacente canonica; in cambio l’artista lasciò al Comune, alla sua morte, la struttura e una collezione delle sue opere, che ora vi sono esposte. Messina, insieme a Manzù, Martini e Marini, viene considerato uno dei più grandi scultori figurativi italiani. La sua vita e il suo itinerario artistico attraversano praticamente tutto il secolo scorso, dal 1900, anno di nascita, fino alla morte avvenuta nel 1995. Sue opere sono esposte in varie città e musei del mondo; la più vista, considerata la grande esposizione, appunto, televisiva, è il cavallo bronzeo che è diventato il simbolo della Rai, collocato davanti alla sede di viale Mazzini. L’acceso della casa-museo è da via San Sisto e l’ingresso è gratuito. La chiesa è una piccola costruzione del XII secolo, con una semplice facciata barocca e la parte absidale ricostruita che oggi ospita un grande finestrone. Nel luminoso interno, al piano terreno, sono esposte diverse opere di Messina, soprattutto bronzi, ma anche terracotte, alcune dipinte, e gessi. Appare chiaro che l’interesse dello scultore era rivolto soprattutto al volto e alla figura umana, soprattutto femminile, e al movimento nello spazio. Da qui la passione per i cavalli, ritratti in pose drammatiche, e per le ballerine , i cui corpi dagli arti protesi interagiscono con lo spazio circostante. Altre opere sono poi esposte nel seminterrato, visibile già dalla larga apertura nel pavimento dell’ex-chiesa, e nella ex-canonica, che ospitava l’abitazione e, all’ultimo piano, lo studio dove l’artista lavorava, da una parte illuminato da un lucernario spiovente e dall’altra affacciato sulla navata della chiesa. Qui, dal 1974 in poi, sono nate molte sue opere nei materiali più leggeri, e i calchi che poi l’artista portava in una fonderia di Ripa Ticinese per la fusione dei bronzi. In tutto le sculture esposte sono un’ottantina, tra cui ritratti della Fracci e della Savignano, oltre ad una selezione di disegni su carta che costituivano spesso il primo stadio delle idee da cui si sviluppavano poi le opere plastiche. Il museo ospita anche mostre temporanee; noi abbiamo visto “La grammatica delle forme”, con cui l’artista visuale Giuliana Cuneaz ha sviluppato in forma visiva (video in animazione digitale, dipinto, decorazione della finestra absidale) alcune suggestioni presenti in testi poetici dello stesso Messina. All’interno c’è un vecchio ascensore, ma non siamo sicuri che persone con problemi di deambulazione riescano a raggiungere i piani inferiore e superiori. Siamo in centro a Milano, e ovviamente usciti dal museo c’è solo l’imbarazzo della scelta sulla direzione da prendere. A pochi minuti a piedi si raggiungono alcuni tra i principali monumenti milanesi di epoca romana (come le colonne di San Lorenzo), medievale (tra cui Sant’Eustorgio o, in direzione opposta, Sant’Ambrogio), rinascimentale (San Satiro in via Torino), oltre che moderna. Se è vero che Milano non è di quelle città che invitano a perdersi, potrebbe valere la pena di vagare senza meta prestabilita nell’intrico di viette e piazzette che sta sulla destra di via Torino scendendo da piazza Duomo, dove ci si può imbattere di volta in volta resti romani e chiese medievali, luoghi di culto riservati ai polacchi o pavimenti secenteschi riscoperti, colonie feline e discutibili interventi di arredo urbano, palazzi del ‘700 e edifici modernissimi, a volte in stridente contrasto. Si può concludere controllando che il serpente bronzeo in Sant’Ambrogio sia sempre in cima alla sua colonna (diversamente la fine del mondo sarebbe vicina), o annusando e auscultando i fori nella colonna colpita dalle corna del diavolo (dovreste sentire puzza di zolfo e rumori infernali), o più serenamente concedendosi un happy hour nello storico bar Magenta.
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Una Francesca Ajmar particolarmente di buonumore, ieri sera, ha esordito (come altri musicisti prima di lei) esprimendo (come altri musicisti prima di lei) il proprio senso di affetto per il centro culturale Valmaggi e il suo pubblico, per l’attenzione, il rispetto, il clima caldo e concentrato che si crea in sala durante i concerti. Elegante e solare (uso qui a ragion veduta un aggettivo purtroppo insopportabilmente abusato), pervasa da una straripante passione per la cultura e la musica brasiliana, la Ajmar ha presentato una stringata formazione in trio, che prevedeva oltre alla sua voce i bassi di Tito Mangialajo Rantzer e il flauto traverso di Carlo Nicita (che, rispetto a quanto annunciato in programma, sostituisce la fisarmonica di Fausto Beccalossi, assente giustificato per il suo impegno in tournée con Al Di Meola). Essenziale e acustico, il trio ha proposto una carrellata di brani di grandi autori della musica brasiliana, da Tom Jobim a Gilberto Gil, da Baden Powell a Dorival Caymmi. La Ajmar è un’habitué del Valmaggi, e, avendo avuto il piacere di ascoltarla più volte, credo di poter dire che è maturata e migliorata con gli anni. La sua voce, chiara e nello stesso tempo ricca di sfumature, interpreta con sicurezza e disinvolta padronanza un repertorio in cui ai ritmi del samba o della bossa nova si mescolano spazi di improvvisazione di matrice jazzistica. Ottimo il contributo dato dai suoi musicisti: l’impeccabile e incalzante contrabbasso di Tito (che è anche suo marito) e il flauto di Carlo, che svolge un ruolo melodico e ritmico insieme, a volte simile a una voce, a volte a una percussione. Gustosi anche gli aneddoti intervallati dal palco da una divertita Francesca, come quella dell’amico brasiliano disperato per il passaggio dal febbrile e disinibito carnevale carioca a quello tristissimo, freddo e impaludato di Venezia. Settimana prossima si continua con l’hard bop di Stefano Sernagiotto. Se volete un vero jazz club, e non un locale alla moda dove la gente chiacchiera, beve, guarda il telefonino e si fa i fatti suoi, il posto che cercate è in via Partigiani 84 a Sesto san Giovanni. Gallerie d'Italia (al plurale perché altre sedi espositive sono a Vicenza e Napoli), in piazza della Scala a Milano, ospita fino a marzo la mostra dedicata a Canaletto e Bellotto, due dei più noti vedutisti del '700. Andare a visitare la mostra è prima di tutto un'occasione per visitare il complesso di palazzi (costruiti tra il '700 e il '900) che ospita anche le collezioni permanenti di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, dedicate all'800 (da Canova a Boccioni) e al '900. All'ingresso, molta bella è la parte che ospitava la Banca commerciale italiana, costruita all'inizio del '900 da Beltrami: ampi e luminosi saloni, marmi e ferro battuto, grandissimi soffitti a lucernario con vetri a piombo policromi, i bellissimi sportelli d'epoca della banca, ecc. Si respira l'aria dei soldi e di una grandeur d'anteguerra; ma i soldi, come la storia dell'arte insegna, sono stati anche grandi produttori di bellezza estetica. Dopodiché siamo venuti qui per vedere Canaletto e Bellotto, “Lo stupore della luce”. Ci sono più Bellotto che Canaletto, innanzitutto. Bellotto era il nipote di Canal, detto Canaletto, e uno degli allievi della sua bottega veneziana di pittura. Talmente bravo da imparare la tecnica e la poetica dello zio con perfezione tale che a un occhio profano è difficile distinguere le opere dell'uno da quelle dell'altro. Alcuni soggetti sono stati dipinti da entrambi i pittori, con risultati pressoché indistinguibili. Bisogna fare molta attenzione alla tecnica di resa delle architetture e alla qualità della luce atmosferica, ma vi assicuro che anche così è facilissimo sbagliarsi. Famosissime sono le loro vedute di Venezia, una città che ha mantenuto ancora fino a oggi la sua inconfondibile identità architettonica e urbanistica, arrivata senza troppi stravolgimenti dall'epoca dei due pittori fino ai giorni nostri, ritratta dai due in vedute nitide, immersa in una luce diffusa, serena e mai troppo violenta, con un'attenzione minuziosa ai più minuti dettagli architettonici e animata dalle figure dei personaggi impegnati nelle proprie attività quotidiane. Tra il signore col bastone alzato ricorrente in molti quadri, i signori in tabarro, i cagnolini, le gondole e le carrozze, i popolani e le rare figure femminili, ci si aspetta davvero di scorgere la figura di Giacomo Casanova: se infatti i quadri di Bellotto e Casanova ci offrono una preziosissima rappresentazione visiva dei paesaggi e dei costumi dell'epoca, le Memorie di Casanova, oltre a costituire una lettura di impagabile godimento per la sbalorditiva quantità e varietà di avventure vissute (e in grandissima parte documentate) dal personaggio, sono un formidabile affresco in campo letterario della vita non solo veneziana ma panaeuropea che copre buona parte del XVIII secolo. Gli stessi Bellotto e Canaletto non sono riducibili alle sole celeberrime vedute veneziane: ottenuto un clamoroso successo, infatti, le loro richiestissime attività pittoriche si spostano non sono attraverso l'Italia (Milano, la valle dell'Adda, Vicenza, Torino, Roma, le cui rovine danno lo spunto per numerosi capricci, cioè paesaggi che includono elementi di fantasia o collocati altrove, con un gusto in bilico tra neoclassicismo e preromanticismo), ma anche in Inghilterra e in Germania, dove riscuotono un grande apprezzamento (Bellotto muore a Varsavia, lontano dalla Venezia della sua giovinezza e della sua formazione). Apprezzamento che si appannò in seguito nel giudizio dei critici, che videro in Canaletto un freddo riproduttore della realtà esistente, poco rielaborata personalmente e artisticamente, e peggio ancora nel Bellotto il riproduttore di un riproduttore. La rivalutazione avviene solo qualche decennio fa; i quadri esposti, spesso di dimensioni medio-grandi, meritano di essere apprezzati nella veduta d'insieme e nei dettagli. Tra le curiosità, a questo proposito, io mi sono divertito ad osservare l'evoluzione dell'abilità del Bellotto a ritrarre i cavalli, inizialmente quasi nascosti o ripresi di sguincio, poi sempre più protagonisti anche in seguito alle esperienze inglesi, dove l'animale godeva di una grande reputazione anche in campo pittorico. Altra curiosità che merita attenzione è la camera ottica, per certi versi antesignana della moderna macchina fotografica, uno strumento molto utile per i pittori dal vero soprattutto alle prese con la resa di grandi architetture. Il biglietto costa 10 euro (mostra e collezioni permanenti), con varie riduzioni; domenica 5 marzo però, con l'ultima Domenica al museo, c'è la possibilità di visitare la Galleria gratuitamente. Ci sono a disposizione delle audioguide gratuite; noi non ce ne siamo serviti ma i pannelli esplicativi sono sufficienti a orientare nella visita, che fatta con un minimo di attenzione richiede certamente più di un'ora, considerando anche i possibili rallentamenti causati dalle visite guidate di gruppo. Gli ambienti sono comunque spaziosi e c'è la possibilità di tornare su qualche stanza inizialmente evitata per troppo affollamento. Filmati rivolti ai più piccoli, guardaroba (ma nel piovoso giorno della nostra visita venivano ritirati i soli ombrelli), caffetteria e piccola libreria completano i servizi. Soprattutto per chi milanese non è, ricordiamo che, usciti dalla mostra, che avrete raggiunto molto probabilmente scendendo alla fermata Duomo della linea rossa della metropolitana, molti degli edifici più celebri di Milano (Teatro alla Scala, Galleria Vittorio Emanuele, Duomo, Castello sforzesco), così come le vie dello shopping (da Corso Vittorio Emanuele a via Dante al quadrilatero della moda trar via Montenapoleone e via della Spiga) sono tutti raggiungibili a piedi in pochissimi minuti. Recentemente sono stata ad accompagnare una classe di studenti al Museo di Scienze Naturali di Milano. La classe (una seconda dell’indirizzo chimica e biotecnologie sanitarie) ha partecipato all’attività “Evoluzionismo, Darwin e i meccanismi dell’evoluzione”. La guida ha condotto gli studenti in un percorso che attraverso l’osservazione di fossili rinvenuti in varie parti del mondo (alcuni originali e altri riprodotti) li ha portati a meglio comprendere i meccanismi dell’evoluzione di tutte le specie viventi, facendoli riflettere sulle modifiche che si sono sviluppate nel tempo in relazione alle caratteristiche della zona della Terra in cui questi organismi vivevano. È stato naturalmente molto interessante ma soprattutto è stata un esperienza che ha permesso a questi ragazze e ragazzi di osservare alcune prove scientifiche a sostegno della teoria evoluzionista che ogni tanto qualcuno contesta. È stato bello nell’epoca delle bufale virali sui social network vedere i miei giovani studenti ragionare su dati concreti e non in base al sentito dire. A questo proposito questa sera ero seduta al tavolo di un bar e ho sentito il mio vicino dire “Certo che l’AIDS è sempre un mistero, l’hanno creato in laboratorio ma poi il virus non esiste infatti non l’hanno mai isolato in laboratorio”. ?!?! Forse sarebbe il caso di organizzare visite guidate anche nei laboratori dove il virus dell'HIV (più precisamente un retrovirus) viene isolato tutti i giorni! Dal 9 al 12 febbraio presso il Museo di Scienze Naturali di Milano ci saranno tre giornate ad ingresso libero ricche di appuntamenti proprio in onore di Charles Darwin. L’iniziativa dal titolo “Tutti insieme appassionatamente – Simbiosi: la vita insieme di organismi diversi”: conferenze, dibattiti, incontri e laboratori didattici permetteranno di approfondire varie tematiche confrontandosi con esperti e scienziati. Alessandra MIELE di Ian McEwan e NUMERO 11 di Jonathan CoeHo letto recentemente (e casualmente; le mie letture sono più rabdomantiche che sistematiche) due romanzi scritti da due esponenti di primo piano della letteratura britannica dei nostri giorni. Si tratta di Numero 11, di Jonathan Coe (La famiglia Winshaw, La casa del sonno, La banda dei brocchi, Expo 58) e di Miele (il titolo originale è Sweet Tooth), di Ian McEwan (molti dei cui romanzi hanno ispirato trasposizioni cinematografiche: come Cortesie per gli ospiti, Lettera da Berlino, Il giardino di cemento, Espiazione, L’amore fatale, Chesil Beach). Mi è sembrato che i due libri avessero alcuni elementi in comune. Innanzitutto, cominciamo dal più visibile, i due romanzi offrono due notevoli affreschi della Gran Bretagna in due diversi momenti storici. Numero 11 è ambientato nell’Inghilterra di oggi, di cui mette in luce, dietro una narrazione apparentemente bonaria, piana e lineare (ma che non rinuncia a fughe nel pastiche poliziesco o nell’apologo horror di sapore lovercraftiano), al cui centro si trovano in genere persone che possiamo definire comuni, alcune grandi problematiche del Paese negli anni 2000: dalle menzogne governative sulla guerra in Iraq allo sfruttamento dei lavoratori stranieri; dagli abnormi accumuli di ricchezze della finanza (con riflessi sulla stessa composizione urbanistica londinese) all’acrimonia della destra conservatrice accanita contro qualsiasi cosa che assomigli al welfare. Ma Numero 11 si spinge più in là dei confini della propria isola, guardando alle storture del mondo contemporaneo globalizzato e interconnesso, dove i rapporti umani possono essere decisi da un messaggino scritto o letto troppo frettolosamente, dove l’immaginario si costruisce sull’irrealtà dei reality (è bene sottolineare l’ironia che fa sì che reality=irrealtà) e dove i social media possono diventare i vettori lungo i quali si incanalano e si ingigantiscono con effetto valanga l’odio, la frustrazione, l’invidia, la distruttività fine a se stessa. McEwan, dalla scrittura decisamente più complessa e ricercata, racconta invece - sotto le spoglie di una spy story sui generis - degli anni ’60-70, in un’Inghilterra alle prese con la guerra fredda (che si combatte soprattutto in campo ideologico e culturale) e con la questione irlandese; con l’austerity economica e con i sogni di emancipazione; indecisa tra la fedeltà ai costumi impaludati e ingessati del passato e la rivoluzione sociale e culturale di una nuova Inghilterra emergente, spesso velleitaria e inconcludente. Letti di seguito, i due romanzi possono quindi dare una panoramica di una buona parte della storia britannica degli ultimi decenni. Ma c’è un altro motivo di apparente assonanza, che mi induce ad accomunarli in un unico discorso. E’ in questo caso un’affinità (anche se in realtà si tratta di una dissimiglianza, come si vedrà) strutturale, narratologica. Entrambi i romanzi, in effetti, contengono al loro interno dei racconti, più o meno autonomi, che ne fanno parte integrante. Il romanzo corale alla Coe si dispiega qui in una serie di segmenti indipendenti, a malapena legati da alcuni personaggi che passano da un racconto ad un altro (e da rimandi discreti alla saga dei Winshaw). Si tratta di una composizione a mosaico, o parattatica (la consenquenzialità dei racconti è anche temporale), il cui scopo è evidentemente quello di fornire la rappresentazione di un tutto (la società britannica contemporanea, appunto, che si inserisce in quel gigantesco affresco del proprio Paese che Coe va costruendo pezzo per pezzo) attraverso la giustapposizione e la composizione di frammenti. McEwan si muove su un livello narratologico più sofisticato, in cui la stessa profusione di dettagli (il romanzo rischia in effetti la prolissità, cosa strana per uno scrittore che aveva esordito nella forma della short story con Primo amore, ultimi riti e Tra le lenzuola) ha un carattere eminentemente illusionistico. E’ una narrazione dove non tutto (per usare un eufemismo) è come appare, e non solo perché ci troviamo all’interno di un contesto vagamente spionistico, dove la menzogna, la dissimulazione e il travestimento sono all’ordine del giorno. La protagonista è una ragazza giovane e bella, appassionata di letteratura, che per conto dei servizi segreti inglesi deve irretire un giovane scrittore che a sua volta, ignaro di essere blandamente manovrato, può essere utile col suo lavoro alla causa dell’Occidente nella lotta contro l’ideologia sovietico-socialista. I racconti dentro il testo, stavolta, sono quelli opera dello scrittore interno al libro, incastonati nella narrazione principale. Ma si tratta in realtà di racconti dello stesso McEwan, prelevati dalle sue raccolte d'esordio, e qui ricollocati all’interno di un disegno narrativo superiore. Ma ancora, i racconti non sono riportati nella loro forma compiuta, così come McEwan li scrisse, ma in modo promiscuo, parte come il riassunto che ne fa (ma anche qui, con un effetto illusionistico) la protagonista, parte con le citazioni letterali dei testi originari che lei stessa riporta nella sua narrazione (in prima persona, elemento narratologico da non sottovalutare). Sembra quindi che lo stesso McEwan entri autobiograficamente, benché sotto mentite spoglie, nell'intreccio di Miele. A costo di risultare oscuro, non posso dire di più per non sciupare l’effetto voluto da McEwan, che svela le sue carte sono nelle ultime pagine del suo ponderoso romanzo (anche se, al dire il vero, personalmente ho avuto un’illuminazione rispetto alla sorpresa finale qualche decina di pagine prima della conclusione). Si tratta comunque di una costruzione a scatole cinesi, o appunto illusionistica, il cui scopo e senso (al di là della meticolosità descrittiva che si dispiega sia a livello psicologico, che a livello del contesto storico, politico, e socioculturale, che infine di quello della rappresentazione dall’interno dei meccanismi dell’intelligence e di un’insospettabile guerra culturale) sta tutto all’interno della tecnica e dell’intenzionalità narrativa. E’ una struttura concentrica che proprio sul senso della propria vettorialità costruisce la sua rivelazione intesa a sorprendere il lettore. Il romanzo arriva addirittura a decidere deterministicamente al proprio interno la logica della dislocazione della propria edizione rispetto a quella della effettiva redazione narrativa; ricordando un po’ quella tradizione del “manoscritto ritrovato” con cui tanti autori classici (da Cervantes a Potocki) sbalzavano la propria narrazione rispetto all’epoca narrata. Ma se ad esempio Scott o Manzoni usavano l’espediente per conferire credibilità e fondamento storico alla propria narrazione, evidentemente del tutto differente è l’intento del gioco di specchi di McEwan. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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