Anche quest'anno Jazzmi è passato con una ventata di grande musica e se ne è andato troppo presto (anche se visti i tempi non era nemmeno scontato che arrivasse). Una valanga di concerti in città, in una moltitudine di luoghi, con un'incredibile varietà di declinazioni di quello che può stare sotto l'etichetta jazz, la possibilità di ascoltare mostri sacri e giovani talenti, ma anche di scoprire angoli inediti di una città che ha da offrire sempre più di quanto sembri. Quest'anno abbiamo ascoltato otto concerti nell'arco di una settimana circa, quasi tutti ad ingresso libero, in sei diverse location. L'ultimo giorno del festival, domenica 31, è stata una giornata ricca di soddisfazioni e di godimento musicale, con tre concerti ospitati in Villa Necchi Campiglio. La villa, nelle vicinanze della fermata della metropolitana di Palestro, risale agli anni '30 ed è ora proprietà del Fai che organizza visite guidate nei suoi interni e nel parco circostante. In effetti, per la precisione, i concerti si sono tenuti nell'ex-campo da tennis della villa, ora chiuso in una specie di serra tutta vetrata (soffitto compreso), ad offrire una sorta di auditorium moquettato e riscaldato, con vista sullo splendido giardino carico d'autunno della villa. Purtroppo non c'erano sedie, ma solo sottili cuscinetti blu sul pavimento. E sentire tre concerti, sia pure di un'oretta l'uno, seduti sul pavimento, almeno alla nostra età, si avvicina abbastanza all'idea di un supplizio. Per fortuna la musica offriva un'ampia consolazione alla scomoda ospitalità. Partiamo da quella che per quanto mi riguarda è stata la rivelazione dell'anno. Il gruppo si chiama Lorr, e Lorr, alias Laura Salvi, ha in realtà un'aria da brava ragazza prima della classe, vestita con maglioncino e jeans, occhiali e cerchietti alle orecchie. E in più è timida, e le sue presentazioni dei brani naufragano regolarmente in un conclusivo “e... beh... niente”. Ma è l'autrice della maggior parte dei brani proposti, e appena comincia la musica si trasforma in una cantante grintosa, con una grande estensione vocale, e perfino movenze musicalmente sensuali. Gran belle canzoni, di quelle che piacerebbe vedere in qualche tipo di classifica, con composizioni che si impongono con naturalezza e autorevolezza già dal primo ascolto. Il genere è il soul con inflessioni british e il rythm'n'blues e oltre ai brani composti dalla frontwoman nella scaletta appaiono alcuni brani dell'ispiratrice anglo-giamaicana Jorja Smith. Alle spalle della cantante, un'implacabile macchina da musica con chitarra (Tommaso Caccia), basso (Giuseppe Viscomi), tastiera (Pietro Garcea, anche alla tromba) e batteria (Alex Canella). Il gruppo si è formato al Conservatorio di Milano e non ha ancora inciso nulla. Lorr mi dice che qualcosa è in preparazione, intanto stanno creando l'hype. Da tenere d'occhio; il pubblico li ha accolti con un calore che ha stupito loro stessi (“Siete probabilmente il pubblico più caloroso che abbiamo avuto”). Non è una sorpresa ma una nuova riconferma invece quella di Cosimo & The Hot Coals, che abbiamo già avuto il piacere di ascoltare diverse volte. Cosimo è in smoking, gli Hot Coals in giacca cravatta e panciotto. Sono giovani (anche loro vengono dal Conservatorio di Milano), ma la loro passione è il sound di New Orleans. Di ascolto in ascolto però si stanno sempre più staccando dal repertorio tradizionale per proporre sempre più brani originali, composti da loro, con testi in italiano e musica in rigoroso stile hot jazz. Cosimo è sempre più mattatore, con baffetti, capelli impomatati, la voce perfetta per il ruolo e un talento per la tromba, a metà tra scanzonato speakeasy e elegante vaudeville, tra la tromba di Armstrong e l'strionismo di Cab Calloway, tra il citazionismo e l'ironia di Buscaglione e Carosone. Tra una canzone sui luoghi comuni e una sull'onnisapienza d'epoca Covid, ma sempre con souplesse e leggerezza, Cosimo (Pignataro) trova disinvolte spalle per le sue gag nei complici Martin Di Pietro (piano) e Stefano Della Grotta (chitarra e banjo), mentre nelle retrovie Mirko Boles e Michele Capasso al contrabbasso e alla batteria svolgono con serietà e competenza il loro dovere ritmico. Bis, ovviamente, con When the Saints Go Marchin' In e pubblico in visibilio. Il loro ultimo album si intitola, appunto, Speakeasy. Si sono incontrate al Conservatorio di Ferrara le tre ragazze che hanno scelto l'accattivante nome di Le Scat Noir per il loro progetto tutto al femminile. Si tratta sostanzialmente di un trio vocale, ma solo Ginevra Benedetti si limita a usare la voce, mentre Sara Tinti suona anche la tastiera e Natalia Abbascià usa il violino suonandolo con l'archetto, a pizzico, o a percussione. Il trio usa comunque anche la bocca, le mani, il petto, le guance per produrre il proprio sound e il proprio ritmo. Le Scat Noir fondono nel loro programma, amalgamandolo col loro stile particolare, generi diversi, passando con disinvoltura dal gospel alla canzone brasiliana (con un Djvan già rifatto dai Manatthan Trasfer), dalla Nuvolari di Dalla (che speravo di sentire eseguire da Servillo e orchestra nel concerto di cui parlerò dopo, magari come bis fuori programma) alle canzoni popolari franco-canadesi, dalle composizioni originali (una sulla preparazione della zuppa di cipolle) fino a It Don't Mean a Thing di Duke Ellington, tutto con armonizzazioni originali e audaci, del tutto prive di timore reverenziali verso i mostri sacri. A volte effervescenti e a volte lunari, secondo le loro stesse parole - capaci di ammettere di essersi impappinate, con il sorriso sulle labbra e il divertimento nell'anima - tre belle e intrepide voci complementari che lasciano il pubblico ammirato. Gli Arianna Masini & the City Flowers, gruppo formatosi nella Civica Scuola di Jazz, si presentano invece con una formazione essenzialista alla Carmel, con voce, contrabbasso (e basso elettrico) e batteria. Il programma prevede un pout pourri che spazia tra composizioni originali anche in italiano (come quella in cui si mescola fame d'amore e fame di pasta al sugo; evidentemente le compositrici amano mescolare musica e riflessioni sentimental-culinarie) e in inglese, qualche standard jazz, un'ampia parentesi brasiliana e alcuni hit celeberrimi come Via con me di Conte o un brano dei Police. Arianna ha una gran bella voce e una notevole grinta, ma a lasciarmi qualche perplessità è stata proprio qualche scelta di repertorio e il trattamento riservato ai brani più famosi: va bene accelerarli, ma a volte si rasenta la sbrigatività, con la chiusura dei versi quasi tronchi in calando, come se prevalesse l'urgenza di tirare avanti. E' comunque una voce che mi farebbe piacere risentire. Il concerto si è tenuto nel bar dello Sheraton Milano San Siro, che ospita il ristorante di Javier Zanetti e sorge sul margine verde della città, dove si possono incontrare anatre e scoiattoli. In un'altra area verde, il parco che circonda l'ex-istituto psichiatrico Paolo Pini, che ora ospita un ristorante gestito da Olinda, abbiamo ascoltato all'aperto la Lazy Sloths Jazz Band, un gruppo molto giovane che avevamo incrociato al loro esordio in Jazzmi due anni fa. Stavolta sono non poco penalizzati dall'afonia del loro ironico portavoce, Giacomo Bertazzoni, che per fortuna però conserva il fiato necessario da dedicare al proprio sassofono e comunica con il pubblico con appositi cartelli con scritto “Salve” o “Grazie”. Jazz della tradizione di New Orleans, con basso tuba, chitarra e banjo oltre al sax. Una band simpatica, che necessiterebbe, visto anche il genere prescelto, un'iniezione supplementare di energia e calore. Allo Sheraton Diana Majestic abbiamo ascoltato invece il programma di standard di jazz moderno proposto dall'Impressions Duo composto da Simona Daniele alla voce e Lorenzo Barcella alla chitarra acustica ed elettrica. Una formazione minimale, con spazio per lo scat e le improvvisazioni della vocalist. La sala dove si tiene il concerto è abbastanza fredda, ma poco più in là il Diana nasconde il suo gioiello più prezioso, il bel giardino privato dove prendere un aperitivo in una piccola e affascinante giungla addomesticata nel centro di Milano. Veniamo infine ai fuoriclasse. Rincrociamo Gianni Coscia e Gianluigi Trovesi in una location insolita, la chiesa di Santa Barbara di San Donato Milanese, una costruzione di quegli anni '50 in cui sorgeva Metanopoli, che cita nella facciata le cattedrali toscane e che contiene all'interno uno dei più grandi mosaici d'Europa e uno stupendo soffitto che sembra composto di tappeti etnici, concepito da Andrea Cascella. Coscia e Trovesi sono due maestri ottuagenari (facendo la media dell'età), che non hanno più nulla da dover dimostrare e che propongono con eleganza e sicurezza un programma interamente ispirato alla musica degli anni '30 e 40, girando intorno alle suggestioni contenute nel romanzo di Umberto Eco - ampiamente autobiografico – La fiamma della regina Loana, cui forniscono un'apocrifa colonna sonora intitolata naturalmente La musica della regina Loana. Un omaggio sentito e doveroso: sia Coscia che Eco sono originari di Alessandria e coltivarono una grande amicizia e lo scrittore dedicò vari scritti al percorso musicale del duo. Il fisarmonicista e il sassofonista giocano il loro collaudato e affiatato interplay non solo attraverso gli strumenti, ma anche con un continuo scambio di battute contrassegnato da cultura, ironia e bonomia, rileggendo a modo loro alcuni episodi musicali, sia americani che italiani, del periodo pre- e postbellico: da Basin Street Blues a Moonlight Serenade, da un medley di canzoni italiane d'epoca (durante il fascismo il jazz in Italia era ufficialmente proibito, ma a Coscia sarebbe molto piaciuto che queste canzoni “travestite” diventassero degli standard jazzistici come meritavano), fino all'inno dei sommergibilisti che gli amici intonavano nelle serate goliardiche a casa Eco. In una sede più tradizionale, nell'enorme Teatro Dal Verme, era ambientato invece il concerto dedicato ad un album storico della canzone d'autore italiana, Anidride solforosa, musicato da Lucio Dalla su testi del poeta bolognese Roberto Roversi. Era il 1975, e la musica pop incontrava inevitabilmente l'impegno politico e sociale. Concerto bellissimo. Unico elemento scenico uno schermo con ciminiere disegnate che si colorano di rosso o di blu; Mario Tronco (ora direttore dell'Orchestra di Piazza Vittorio, già tra i componenti originari della Piccola Orchestra Avion Travel) arrangia i brani avvolgendoli in un sound che ha l'energia del presente e il fascino delle perimentazioni di Dalla; e Peppe Servillo resuscita i versi di Roversi facendogli omaggio della sua istrionica ma raffinata teatralità. Il sodalizio Dalla-Roversi dura lo spazio di tre album. Poi il rigore di Roversi comincia a stare stretto a Dalla che cerca una dimensioni più accessibile e popolare. Per cui mentre io spero in un bis con Nuvolari, presente nel successivo album Automobili, Servillo salta a Disperato Erotico Stomp, quasi un'irriverente rivendicazione di libertà e disimpegno del “nuovo” Lucio Dalla.
In bilico tra Avion Travel e Orchestra di piazza Vittorio, oltre a Servillo in scena e Tronco dietro, nel gruppo sul palco (tutti in tuta da metalmeccanico) ci sono Peppe D'Argenzio (sax), Marcello Tirelli (tastiere), Emanuele Bultrini (chitarra), Pino Pecorelli (basso), Davide Savarese (batteria) e Kyung Me Lee (i fan di Zoro la vedono ogni venerdì in tv nella Propaganda Orchestra).
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Gli ALBICOCK alla Cascina Nuova ArmeniaI percorsi di Jazzmi ci hanno portato sabato nel quartiere di Dergano, in una cascina data in affido dal Comune all’associazione Nuova Armenia, che ne vorrebbe fare un centro per la multiculturalità e realizzarvi anche, coraggiosamente controtentendenza, un cinema di quartiere. Ci aspettavamo un contesto semi o post-rurale: ma Dergano (ex-comune indipendente, poi aggregato ad Affori e quindi a Milano) è in realtà un quartiere residenziale come tanti, con una significativa presenza di immigrati. La cascina, ai margini di un parco pubblico, ha sicuramente un passato e si spera abbia un glorioso futuro, ma oggi è piuttosto malmessa e i lavori di ristrutturazione sono ancora di là da venire. Il concerto si tiene sotto un portico, all’aperto, in un pomeriggio novembrino soleggiato ma piuttosto freddino. Un banchetto propone molto opportunamente infusi e tisane caldi. Come la cascina, forse anche gli Albicock hanno bisogno di un po’ di messa a punto per migliorare ricerca musicale e affiatamento del gruppo. L’uso del piano elettrico e del moog conferisce al loro sound un’aria fusion un po’ datata. Per formazione (tastiere, sassofono, basso elettrico e batteria) e atmosfere, il loro punto di riferimento potrebbe essere individuato nei Weather Report: il repertorio del concerto oltre a brani originali composti dai componenti del gruppo comprende un brano meno noto di Miles Davis (Little Church) e una rivisitazione de La garota di Ipanema di Jobim. GAVINO MURGIA BLAST QUARTET al Palazzo della TriennaleIl nostro slalom tra architettura milanese e musica jazz, nell’ambito di Jazzmi, una rassegna che ci fa sentire piuttosto newyorkesi, prosegue al Palazzo del Triennale, casa e tempio del design internazionale. Siamo sempre negli anni ’30 come epoca di costruzione e nel solco del classicismo, ma se il planetario visto qualche giorno fa interpretava la classicità come un modello da riprodurre, qui la stessa diventa repertorio e citazione, come nelle arcate monumentali esterne disegnate da Mario Sironi. Per arrivare alla sala Agorà dove si tiene il concerto, dopo aver attraversato il gigantesco atrio e salito la grande scalinata, bisogna passare su una passerella aerea che per l’occasione, grazie all’allestimento grafico della parete di fondo, si è trasformato nel lungo naso di Pinocchio. Tra le altre mostre, infatti, la Triennale ne ospita una dedicata al design rivolto ai bambini, e bisogna ancora passare per una sala semibuia dove emergono alla luce strani pupazzi o oggetti vivacemente colorati e di grande formato. Particolare anche la sala da concerto, affollatissima, le cui pareti sono rivestite da sezioni irregolari di tronchi d’albero, con la zona palco elegantemente illuminata da colori caldi. Calda è anche la musica eseguita (ma il termine “eseguita” è riduttivo) sul palco, dove si esibisce il Gavino Murgia Blast Quartet. Tutte le mie diffidenze preventive (mi aspettavo a torto una sperimentazione originale ma ostica) vengono spazzate via fin dal primo trascinante brano. Il Blast Quartet è formato da musicisti eccellenti e straordinariamente affiatati, e Murgia riesce a fondere in maniera inedita ma assolutamente persuasiva la tradizione jazz con la musica e i suoni della sua terra d’origine, la Sardegna. Complice perfetto del progetto risulta Mauro Ottolini (originario del Garda), che asseconda la vena etnica di Murgia alternando il trombone (con l’uso di varie sordine) a conchiglie marine utilizzate come veri e propri strumenti musicali, mentre Murgia, che lascia da parte gli strumenti etnici per i più tradizionali sassofoni, alterna lo strumento all’uso della voce, ad evocare suggestivamente paesaggi ancestrali che sanno di montagne, di vento, di pecore, di cielo. Il jazz si sposa con i richiami alla tradizione sarda dei tenores, la musica colta si colora di echi aborigeni, in una sintesi di grande fascino e bellezza. Brani di energia fiammeggiante si alternano ad altri di carattere lirico-melodico (come I danzatori delle stelle, una definizione del popolo sardo dovuta allo scrittore Sergio Atzeni, il cui sito dedicato ha per colonna sonora proprio la musica di Gavino), o più introspettivi come Luna in Aggius + Sad Day, che pure non escludono accelerazioni e crescendo entusiasmanti. Di grande talento e fascino anche la sezione ritmica, affidata ad Aldo Vigorito al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria, che non si limita all’accompagnamento dei due mattatori ma partecipa con creatività, personalità e passione al risultato complessivo. Splendido concerto, salutato dall’entusiasmo del folto pubblico presente, tra cui abbiamo riconosciuto Enrico Intra e l’ex-sindaco di Milano Carlo Tognoli. HIGH LIGHTS allo Spazio The Art Land (Fabbrica del vapore)Nell’imbarazzo della scelta mercoledì 8 siamo alla Fabbrica del vapore, quindi passiamo all’architettura di recupero in un'ex-area industriale. Lo spazio è quello che un gruppo di cinque associazioni di diversa natura si è aggiudicato nello scorso settembre con il bando del Comune di Milano. Si chiama The Art Land e facendo base su questo spazio polifunzionale organizza attività musicali, teatrali, artigianali e per bambini. In questa data per JazzMi The Art Land ospita l’High Light, un quartetto di giovani musicisti formatosi al Conservatorio di Milano sotto la guida di Attilio Zanchi, che continua a seguirli anche nelle loro avventure discografiche e concertistiche. L’occasione della serata era la presentazione del nuovo cd Groovin High, seconda prova discografica del gruppo. Punta di diamante del gruppo è il sassofonista di origine siciliana Giovanni Digiacomo, autore anche dei brani più interessanti della serata, che alterna alto e soprano suonando con una passione che traspare anche dalle oscillazioni del corpo che seguono l’energia della musica. I suoi trascinanti assolo si alternano con quelli di Gen Cotena alla chitarra elettrica, mentre Zanchi al contrabbasso tiene una posizione generosamente defilata gestendo la ritmica insieme al giovane batterista Alfonso Donadio. Il repertorio prevede tutti brani originali, con influenze che vanno da Coltrane a Wayne Shorter a Carlos Jobim, ma con nuance europee ed echi lontani della musica tradizionale siciliana. COSIMO & THE HOT COALS in concerto |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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