LA TERRA DEI FIGLI di GipiLa terra dei figli, l’ultima opera di Gipi (alias Gianni Pacinotti, che aveva affrontato uno spunto fantascientifico anche nel suo lungometraggio per il cinema, L’ultimo terrestre) parte da una situazione non particolarmente originale, quella della rappresentazione di un mondo catastrofico dove sopravvive un’umanità regredita e sofferente. In effetti quello della graphic novel (pubblicata qualche mese fa da Coconino Press) più che sembrare un futuristico mondo post-qualcosa sembra un regressivo mondo pre-culturale, dove gli uomini lottano duramente per una stentata sopravvivenza, dove il rapporto con la natura è non-sentimentale, bensì strumentale e cinico, e dove le relazioni umane sono ridotte alla lotta degli uni contro gli altri o al massimo allo scambio utilitaristico attraverso il baratto. E’ una riduzione all’essenziale che ben si adatta allo stile letterario e grafico di Gipi, amante dei silenzi e scabro nel segno. Nel contesto parafantascientifico d’altra parte riemergono con prepotenza molti dei temi e degli stilemi di Gipi: dalla figura dei due ragazzi protagonisti, al romanzo di formazione, al rapporto con la figura paterna, ai paesaggi sull’acqua che rimandano a tutti i fiumi, i laghi e i mari presenti nell’opera dell’autore toscano, da Diario di fiume a, in particolare, Le facce nell’acqua (in Esterno notte), che presenta inquadrature che sembrano quasi bozzetti pittorici per le vedute grafiche de La terra dei figli. E’ innanzitutto il personaggio del padre a farsi carico nel romanzo della mediazione tra il passato, il presente e il futuro. Da una parte è una figura interdittiva, autoritaria, che sente il compito di inculcare ai figli le conoscenze e i comportamenti basilari per sopravvivere in un mondo depauperato e ostile; d’altra parte, contraddicendo la stessa epigrafe autografa posta all’inizio del libro e riportata sulla quarta di copertina (“Sulle cause e i motivi che portarono alla fine si sarebbero potuti scrivere interi capitoli nei libri di storia. Ma dopo la fine nessun libro viene scritto più”), il padre scrive. E’ un diario/libro/quaderno in cui probabilmente confluiscono i ricordi del passato, le riflessioni del presente, le apprensioni per il futuro che minaccia lui stesso e soprattutto i suoi figli. Ma l’impulso incoercibile, inattuale alla scrittura si rivela un inutile atto solipsistico, quasi una forma automatica e involontaria di resistenza umana, che non può trasformarsi in memoria o in testimonianza: i figli non sanno leggere e il lettore, quando si trova davanti a ben dieci pagine coperte da una scrittura fitta, macchiata e disperata, neppure. Il posizionamento etico (per quel che di etico rimane) dei personaggi segue due assi. Il primo è legato al genere: le uniche due donne (vive) che compaiono nel libro sono una “strega” (così la chiamano i due ragazzi che la vedono con ostilità) e una giovane tenuta in cantina, nuda e malamente rapata a zero, per essere venduta come carne umana. Eppure entrambe conservano una residua umanità che gli uomini induriti fanno più fatica a far riemergere. L’altro asse dispone invece i personaggi secondo l’età: dagli adulti, per i quali i valori umani sono ormai un ricordo, ai giovani, che dovranno invece, se tutto va bene, riscoprirli da capo. Oltre ai due giovani fratelli protagonisti, l’uno più ribelle e incattivito, l’altro apparentemente più ingenuo e remissivo, ai quali sono in buona parte affidate le speranze del futuro - benché nel corso della storia abbiano torturato e ucciso un innocente -, sono i caratteri di alcuni personaggi maschili a spiccare nella loro ambivalenza morale. Già si è detto del padre, ma struggente è anche la figura di Aringo, il ringhioso vicino di laguna, che non può vedere gli uomini ma che soffre sordamente per l’uccisione del suo cane, e che conserva in segreto le fotografia di un tempo felice definitivamente scomparso; così anche i mostruosi Gemelli Testagrossa (che a loro volta hanno dei precedenti iconografici nelle vittime dei bombardamenti di S.) sono nello stesso tempo degli spietati schiavisti ma anche, probabilmente, sinceramente amorevoli e protettivi nei confronti dei due ragazzi; o, ancora, il Boia senza naso e senza orecchie della Fabbrica è capace di un gesto di violenza dettato da un riflusso di umana pietà. Dopo i sontuosi e cupi acquerelli di unastoria, Gipi torna in questa opera, dove mescola aperture bucoliche, biancori acquei e luminosi, notti scarabocchiate al nero e squarci horror, a un monocromatismo essenziale, inciso, quasi graffiato, che sembra sgorbiato; di nuovo, orgogliosamente, rabbiosamente ben “disegnato male” - come la vita raccontata in una delle sue novel più celebri, che si intitolava, appunto, LMVDM - La mia vita disegnata male.
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I MALAVOGLIA di Giovanni Verga, rielaborazione drammaturgica di Micaela MianoOgni adattamento teatrale di un’opera letteraria si trova di fronte a maggiori difficoltà e maggiori rischi rispetto all’allestimento di un testo già concepito per la scena. Forse ancor più rispetto agli adattamenti per il cinema, dove le componenti extraverbali sono talmente potenti da trasportarlo sul piano di un linguaggio radicalmente differente. La riduzione poi di un’opera così articolata e ricca di avvenimenti come I Malavoglia, che segue le vicende di una famiglia attraverso tre generazioni, tra battute di pesca funeste o miracolose, affari, maldicenze, morte e lutti, matrimoni celebrati e mancati, contrabbando, seduzioni, partenze e ritorni, sullo sfondo di guerre, tasse, rivoluzioni mancate e così via era un’impresa abbastanza improba. Ci prova progetto Teatrando, mettendo in scena l’opera di Giovanni Verga rielaborata per il teatro da Micaela Miano e diretta da Guglielmo Ferro (figlio di Turi, che già aveva avuto frequentazioni verghiane sia teatrali che televisive). Cast nutritissimo, giustamente corale, con sedici attori sul palco, che ospita una sorta di zattera centrale in legno, circondata da una passerella, che è di volta in volta barca, molo, piazza di paese, cortile. Ma purtroppo, I Malavoglia teatrali di Teatrando diventano teatro. Non nel senso migliore del termine, cioè l’esaltazione o la reinvenzione dello spunto originale attraverso le specificità di un linguaggio nuovo (e vecchio di millenni), bensì in quello di adottarne tutte le convenzioni e i manierismi. Il punto più dolente a mio parere è costituito dallo stile di recitazione adottata: una recitazione, appunto da vecchio teatro borghese, stereotipata (soprattutto in alcuni dei caratteri principali) secondo canoni teatrali, agli antipodi dal verismo e dal naturalismo ricercato da Verga. Una sorta di tradimento della poetica verghiana rivolta verso gli umili, verso i vinti dalla Storia. Se la scenografia astratta e (necessariamente?) stilizzata è in contraddizione poi con i costumi d’epoca degli attori, è utilizzata anche in modo discutibile dalla regia come macchina narrativa: piuttosto banalizzante appare infatti la scelta di rappresentare alcuni degli episodi più drammatici del testo dietro una tenda/vela, sulla quale i personaggi si proiettano come ombre cinesi. Il risultato è quello di sminuire il pathos a scapito di una scelta estetizzante, per non dire decorativa, non nuova né funzionale né capace di suscitare suggestioni o emozioni. La mancanza di necessità, o di una precisa chiave di interpretazione e di riattualizzazione del testo verghiano, finisce col lasciarne emergere il sedimento tematico datato e conservatore, dove la difesa delle radici, della casa, della famiglia, del mestiere che si tramanda di generazione in generazione, diventa aprioristica conservazione dello status quo socioculturale, contrapposto all’anelito al cambiamento, visto come velleitaria aspirazione ai falsi valori della modernità e di una vita facile e (si desume) dissoluta. La pletora di avvenimenti, percorsi per forza di cose con celerità dalla folla di personaggi, lascia l’impressione di un riassunto, o meglio di un bigino del testo. Forse, effettivamente, lo spettacolo potrebbe essere gradito dagli insegnanti, che potrebbero a loro volta offrire agli studenti una chiave di accesso al testo differente rispetto a quella che gli è immediatamente propria e congeniale, cioè la lettura. Il pubblico della prima ha gradito: non solo lo spettacolo è stato salutato con calorosi applausi, ma battimani a scena aperta hanno addirittura salutato la morte di padron ‘Ntoni, interpretato da un istrionico Enrico Guarneri. Escludo che fosse un modo per manifestare sollievo per l’approssimarsi della fine dello spettacolo. THE FLICK di Anne Baker, regia di Silvio Peroni La scenografia rimane sempre identica: qualche fila di sedie di cinema rivolte verso il pubblico, alle spalle la torretta della cabina di proiezione, sul pavimento, risporcato a ogni buio in palcoscenico, i resti lasciati dagli spettatori dopo la fine del film: pop corn, cartoni, sacchetti di patatine, resti di insalata e macchie di bibite. Siamo dentro al Flick, un vecchio cinema dove si proiettano ancora film in 35 mm, mentre tutto il resto del mondo sta passando alla proiezione in digitale. I personaggi (tranne uno spettatore addormentato) sono solo tre: Rose, la proiezionista, Sam e l’ultimo arrivato, Avery, addetti alle pulizie, al botteghino e al bar. Niente cambi di luce, se non l’accendersi e lo spegnersi delle luci in sala, o su in cabina, o il fascio di luce che ogni tanto esce dalle finestrelle di proiezione. E niente musiche o rumori aggiunte, se non il ronzio del proiettore in funzione o qualche brano di colonna sonora, o “Le tourbillon”, la canzone cantata da Jeanne Moureau in Jules e Jim, il film di Truffaut che, guarda caso, parla della relazione tra due uomini e una donna. Perché di questo parla The Flick, nella sua essenzialità: di due uomini e una donna. Tre persone trovatesi insieme per caso, sullo stesso posto di lavoro, a ripulire lo sporco lasciato come scorie materiali dal passaggio dell’immaginario e dalla condivisione di sogni, a condividere una quotidianità che inevitabilmente porta alla confidenza, e al complicarsi dei rapporti. Gradualmente, scena dopo scena, mentre si discute di cinema e della cresta da fare sui soldi incassati per integrare la sottopaga, di merda da pulire nei cessi e di dolori personali, di problemi famigliari e di film che contano veramente. Avery è un cinefilo duro, appassionato e enciclopedico, per il quale l’amore per i film (mentre il suo lavoro è spazzare i pavimenti di un cinema) funziona anche da filtro nei confronti di un mondo in cui non si sente a proprio agio (e se nel mondo tutti recitano una parte, allora è preferibile il mondo dichiaratamente fittizio del cinema); Sam, non più giovane, ma rimasto confinato nella più umile delle mansioni, cova sotto l’apparente bonomia dispiaceri famigliari e soprattutto il dolore di un amore inappagato; Rose ha un’apparenza dura, tanto da poter sembrare una lesbica, ma convive con la sofferta e consapevole incapacità di mantenere una relazione sentimentale stabile. Avery, Sam e Rose sembrano vivere ciascuno in una propria bolla esistenziale, in cui stabilire un vero rapporto con gli altri è problematico. Eppure nella sala cinematografica deserta, giorno dopo giorno, si dipana e si scatena la dinamica dei rapporti, tra amicizia, amore, desiderio, gelosia, invidia, senso del tradimento, simpatia, condivisione della propria intimità. Il testo di Annie Baker (poco più che trentenne quando The Flick vinse nel 2014 il premio Pulitzer), disegna il delinearsi e lo svilupparsi dei caratteri e dei rapporti con ammirevole finezza e naturalezza, prendendosi il lusso di una lunghezza inusuale, accumulando quadri su quadri in cui nulla sembra accadere mentre in realtà tutto cambia insensibilmente e tutto acquista senso. Tra chiacchiericcio (con tanto di “normale” turpiloquio) e citazione cinefile, umorismo e malinconia, il testo restituisce alla fine tre ritratti generazionali delineati con grande umanità e tenerezza. Pur essendo un testo estremamente contemporaneo nel linguaggio, nel contesto e nei personaggi - tre giovani o diversamente giovani alle prese con precariato lavorativo e con una difficile definizione di un’identità sociale, sessuale e esistenziale -, The Flick appare nello stesso tempo anche come un testo profondamente cecoviano. Le vicende dei tre, sognatori che non sanno fare abbastanza per realizzare i propri sogni, romantici sospesi tra le velleità di una vita differente e una sorta di abulia o di sospensione esistenziale che blocca ogni loro tentativo di azione, si stagliano significativamente nell’epoca del passaggio dalla proiezione da pellicola a quella in digitale. La vendita di The Flick, l’acquisto da parte di un nuovo proprietario che si disferà del vecchio proiettore spezzando il cuore di cinefilo romantico di Avery e che vieterà a Sam di portare l’inseparabile cappellino che ne nasconde la precoce calvizie, sta a The Flick come la vendita e il taglio degli alberi sta a Il Giardino dei ciliegi cecoviano: il cambiamento ineluttabile anche se indesiderabile, e anche l’implacabile avanzare della realtà prosaica che spazza via velleità e sentimentalismi. Silvio Peroni, amante del teatro contemporaneo, in particolare di quello anglosassone, asseconda perfettamente il testo, mantenendolo nella sua nuda eppure ricca essenzialità, non risparmiando sulla durata (ma potrei citare innumerevoli spettacoli in cui la visione di dieci minuti affaticava di più delle due ore e 40 minuti di durata di The Flick), gestendo con autorevolezza anche i silenzi e i momenti di imbarazzo, con una regia invisibile che esalta la scelta naturalistica (o iperrealistica) della narrazione. Di grande efficacia il lavoro con gli attori, tutti perfettamente allineati sulla linea di una credibile e godibile naturalezza: da Sara Putignano (già diretta da Peroni in Cock), che evita abilmente le trappole del personaggio forse più a rischio di stereotipizzazione, ad Alberto Malanchino, il ragazzo forte in cinefilia e fragile nella vita, e a Mariano Pirrello, che conquista il cuore con un’interpretazione mimetica piena di umorismo e di malinconia. Di sabato sera, il teatro Verdi (il testo è in prima nazionale) non era molto affollato (forse lo sarebbe stato di più se la pubblicità avesse insinuato - cosa d'altra parte letteralmente vera - che ci sono due che scopano per tutto lo spettacolo?). Un vero peccato, perché The Flick è uno spettacolo intelligente, emotivamente coinvolgente e divertente che merita di essere visto da tutti (affrettarsi: è in scena fino al 19 marzo; ma dal 21 Peroni rimette in scena la Baker con The Alien, stavolta al Filodrammatici). E per i cinefili (quale io mi reputo) è assolutamente da non perdere: da culto, il giochino sui gradi di separazione che separano gli attori, in cui bisogna risalire da un attore all’altro ricostruendo la catena di chi ha lavorato con chi in quale film, o le discussioni sui film americani veramente grandi degli ultimi dieci anni... You can read the english version hereMIA PHOTO FAIR 2017 - The Mall, Milano, fino al 12 marzo Ancora oggi e domani si tiene a Milano, nel nuovo spazio espositivo The Mall, in piazza Bo Bardi, a Porta Nuova, il Mia Photo Fair, che segue di poche settimane l’Affordable Art Fair, la mostra dell’arte “abbordabile” tenutasi al Superstudio Più. La formula è simile: ospitalità alle gallerie, o anche a singoli artisti, piccoli spazi di esposizione, possibilità di acquistare le opere, ma nel caso della Mia il focus è ovviamente tutto sulla fotografia. Se siete degli appassionati di foto, l’occasione è ghiotta: ci sono 130 stand, il che vuol dire migliaia di opere esposte e centinaia di autori; gli stand non sono poi organizzati con la logica del bazar, ma hanno una loro coerenza interna, dedicata a uno o a pochi autori, o a tematiche o a Paesi (quest’anno è la volta di Brasile, Asturie, Ungheria). L’impressione è quindi quella di visitare tutte insieme (con un effettivo rischio di saturazione se si vuole vedere tutto) una miriade di piccole mostre, in cui è possibile farsi un’idea delle tendenze della fotografia contemporanea. Se in mostra si possono vedere anche alcuni dei grandi nomi della fotografia italiana e internazionale (per fare solo qualche nome alla rinfusa: Scianna, Salgado, Weston, Basilico, Klein, Berengo Gardin, Secchiaroli, Roiter, Araki, De Biasi, Polillo), molti sono i nomi e gli autori da scoprire, mentre si gira tra gli stand fotografando mentalmente (ma sfoderare lo smartphone e scattare non è proibito) le fotografie esposte e si cerca di capire da che parte tiri il vento della fotografia contemporanea. Operazione molto stimolante, ma difficile comunque trarre delle conclusioni; effettivamente in mostra c’è di tutto, dai ritratti (compresi quelli molto belli dedicati ai grandi del jazz, a Picasso, a Giacometti, a Sade) alle riflessioni sul corpo, la foto di paesaggio e quella architettonica, la foto di studio e di ricerca e così via. Trattandosi di opere che aspirano all’arte piuttosto che alla documentazione, il tratto comune è comunque quello della ricerca, dell’interpretazione della realtà, del tentativo di trovare nuove prospettive, nuovi modi di guardare, nuovi filtri estetici attraverso cui guardare al mondo. Grandi assenti, giustificati, quindi la fotografia di reportage e quella più propriamente naturalistica. E’ anche l’occasione per fare un viaggio attraverso le tecniche fotografiche, sia di ripresa e di manipolazione dell’immagine che di stampa su diversi supporti: si gira quindi tra le molte stampe su plexiglass, tra lightbox e retroilluminazioni, tra stampe lenticolari con un impressionante effetto tridimensionale (Jeffrey Robb) e collage, tra composizioni articolate e immagini fantastiche ottenute attraverso l’elaborazione digitale. E’ impossibile ovviamente, dare conto di tutto (e qualsiasi tentativo di racconto lascia necessariamente fuori molti artisti e opere anche di grande interesse), ma è anche al di sopra delle mie possibilità (mnemoniche prima ancora che di giudizio) fornire una guida ragionata o al meglio. Tento comunque di fornire qualche suggestione. Molto interessante ho trovato gli esperimenti illusionistici di commistione tra fotografia e pittura, come ad esempio nelle immagini di Claudio Gobbi (vincitore della V edizione del premio Bnl Gruppo Bnp Paribas) o dell’ineffabile Liu Bolin, che si fa dipingere il corpo con estrema accuratezza in modo da inserirsi su sfondi anche complessi con uno stupefacente effetto mimetico. Pure stimolanti le riflessioni sulla memoria e sulla sua corruttibilità (temi intrinsecamente connaturati alla teoria e alla pratica fotografica), come nelle deteriorate immagini famigliari di Camilla Biella (14 settembre (la memoria familiare)), o nella memoria che si trasforma in incubo nelle manipolazioni mostruose di Nico Mingozzi (Unbelievable Monsters), o ancora, passando dalle persone alle cose, nella ricerca di relitti navali in giro per il mondo da parte di Stefano Benazzo o negli ambienti dismessi di Marina Paris. Imprevedibili e affascinanti gli effetti delle riprese zenitali (riprese da droni o da elicotteri), come nelle immagini, di Massimo Sestini, di Antoine Rose, o di Kapcer Kowalski, dove, grazie al punto di vista insolito e innaturale, la realtà assume un aspetto da una parte perturbante e dall’altra suggestivo, ridisegnando la nostra percezione attraverso grafismi cui contribuiscono talvolta anche le ombre proiettate sul terreno. Molte ricerche si indirizzano all’astrazione (texture, geometrie architettoniche: v. tra gli altri Xavier Goodman, Carlo D’Orta, Carlo Borlenghi o Malena Mazza); tra i non molti che sembrano intervenire più direttamente in un discorso critico sulla società contemporanea citiamo la serie Il futuro gettato di Andrea Taschin o la Snow storm on the Cayman Islands, che fa scendere una fitta nevicata di dollari su una spiaggia esotica. La natura appare molto spesso filtrata, e appare quasi sempre remota, a volte portata quasi all’invisibilità dall’affiorare del bianco (neve, acqua) che la sommerge, come in Mario Daniele o in Pierre Pellegrini, o dal buio nel quale sprofonda (Piero Roi, Fabio Bucciarelli, le Terre incognite radiografate da Giorgio Majno, i contrasti esasperati di Mimmi Moretti, ecc.). Tra le immagini di sintesi, sorprendenti quelli di Maurizio Sapia, che usa la figura umana moltiplicata per comporre volumi impossibili (sfere, vortici) e formidabili i paesaggi impossibili del belga Eric De Ville. Per concludere saltando qua e là: molto interessanti gli esperimenti con la luce di Vera Rossi, che compone vere e proprie finestre verso illusori esterni, simpatico il portfolio su lettori e lettrici di Claudio Montecucco, divertenti le composizioni di Bernard Pras, che ricostruisce icone pop assemblando oggetti di uso comune, molto belli e intensi i ritratti di Tom Hoops e di Mart Engelen, geniale la riflessione sugli oggetti in rapporto alla prospettiva e alla luce di Mario Cucchi. La foto più bella? Non è nuova: il girotondo dei preti in tonaca nera sulla neve, di Mario Giacomelli (di cui si apre una personale a Legnano il 19 marzo). Ovviamente eventi, libreria, caffetteria, incontri con galleristi, artisti, esperti, ecc. Per informazioni e biglietti (un po’ cari): http://www.miafair.it/milano/. Umberto Seveso era un sestese. Ha vissuto l’infanzia nella villa Torretta, prima dimora nobiliare, poi cascina, edificio in rovina e oggi prestigioso hotel a 4 stelle, da cui dovette fuggire a causa di un grave incendio. Era una Sesto San Giovanni che oggi è difficile immaginare, tra i campi del nonno contadino e la nuova città delle fabbriche dove lavorava il padre. E’ quella che compare nei suoi dipinti, tra chiese e case di ringhiera, muri di fabbrica e spazi vuoti che oggi non esistono più. Gran parte delle sue diverse vite si svolgono qui: da una parte nella fabbrica in cui a sua volta lavora, in parte alla scuola civica “Federico Faruffini”, dove impara e approfondisce l’amore per la pittura. E’ operaio, pugile, pittore, ma anche emigrato in Australia, animatore culturale della sua città, partecipante e a volte cofondatore di iniziative come il Premio Piazzetta e il Quartiere delle botteghe. Oggi il centro culturale Valmaggi gli dedica una doverosa mostra, a meno di un anno dalla sua scomparsa. Una scomparsa che ha lasciato il vuoto, perché Seveso non è stato solo un protagonista di una fervida e forse irripetibile stagione artistica sestese (a fianco di artisti e amici come Diana Forassiepi, Giuliano Barbanti, Giancarlo Curone, Enzo Contini, Giorgio Marangon, Renzo Macchi, Enzo Basello, Lino Marzulli, Riccardo Perego), ma anche una persona dotata di grande umanità, di modestia e di senso dell’umorismo, un milanese (o un sestese) identificabile immediatamente dall’accento (il suo damm a trà è rimasto proverbiale per tutti quanti l’hanno conosciuto) e di cui forse si è perso lo stampo. La pittura per lui non è mai sembrata essere un lavoro, né un mezzo di affermazione di sé; incurante delle logiche del mercato, dipingeva per vocazione, per necessità intima, cedendo a volte le sue opere per un prezzo che superava di poco o nulla quello della cornice che la conteneva. In mostra ritroviamo i suoi temi preferiti, i suoi “periodi” (peccato non avere in mostra informazioni sull’epoca di realizzazione dei dipinti, peraltro a volte di non facile datazione: su un suo quadro ho trovato tre date diverse, a conferma di una ricerca continua, di un’insoddisfazione che spinge a rimettere mano, a ritoccare, a cercare ancora): i paesaggi, i ritratti, gli animali, i ritratti, i personaggi del circo, gli angeli, le teste. I suoi paesaggi nudi degli anni ‘50, la Torretta, la chiesa di Santo Stefano, visti da prospettive oggi perdute, risvegliano echi sironiani. Sono abitati da presenze umane: uomini, donne, un carrettino tirato da un cavallo, bambini, saltimbanchi. A volte sono figurine in lontananza, a volte vengono in primo piano: presenze mute, spesso immobili, riprese di fronte. Si capisce che appartengono profondamente a quelle periferie, a quella Sesto antica, dimessa, vicina a Milano eppure lontana, sfiorata dal progresso delle fabbriche e della modernità ma non intaccata, immote in una quieta drammaticità priva di tempo e di storia. A volte un filo di perle - un arco di piccole pennellate che allineano tondini bianchi intorno al collo di qualche figura femminile - segna appena uno scarto, un incongruo segno di volontà di bellezza, di ornamento, di emancipazione sociale ed estetica. Eppure sono forse ancora loro, gli stessi uomini e le stesse donne, che a un certo punto scivolano verso una deriva visionaria, verso una fuga poetica. Senza cambiare di molto la fisionomia, ecco allora gli angeli e i personaggi fantastici del circo. E’ una fuga provvidenziale, che gli permette anche di allontanarsi dal bozzettismo provinciale, e di evitare il rischio incombente del patetismo. La mestizia dell'aspetto e l'inerzia delle pose si spezza: gli angeli sembrano in equilibro precario, mentre ali bianche coronano la figura o altre ali nere si dispiegano nell’impeto della rivolta; i corpi degli artisti di circo si disarticolano in pose plastiche, disegnano nell'aria traiettorie impensate. Ecco quindi un mangiatore di spade dispiegarsi nel gesto ampio che richiede la sua arte; ecco gli equilibristi roteare quasi dissolvendosi intorno al palo delle acrobazie; ecco l'acrobata (nuda e ornata di perle) tendersi in una arco latteo al di sopra di un bianco cavallo fiabesco incrostato di preziosità, ecco un animale fantastico forzare con le braccia nere la costrizione di una gabbia. Anche la tavolozza aggiunge, agli ocra e ai bruni prevalenti nei paesaggi, colori fantastici e accesi, bianchi nivei, blu e rossi rubati alle tele chagalliane, ai suoi circhi e alle sue fiabe. Quasi di conseguenza anche la pesantezza dei volumi dei paesaggi urbani e suburbani si dissolve in sfondi saturi di colore, dove qualche linea appena tenta di squadrare una quinta, di mantenere un contesto di riferimento, un'inquadratura prossima a sfaldarsi nel colore. Ma sopravvive talvolta anche in questi esseri liberi e fantastici un'inquietudine, un'incompletezza, quasi una premonizione che a volte ne altera i lineamenti quasi in muti urli baconiani. Ecco allora negli anni ‘90 le teste, i ritratti degli amici scomparsi; sorta di maschere funerarie che bilanciano nel segno di una necrotica afasia le fughe visionarie dove i colori squillavano e dove l’esistenza, qualche volta, è stata gesto ardito, acrobazia, sfida; dove il tendone del circo della vita, qualche volta, avrà risuonato di applausi e di grida di meraviglia. Fino al 19 marzo (ingresso libero). Da martedì a domenica dalle 16 alle 19; giovedì e venerdì anche dalle 21 alle 23. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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