CINEMA SPECULATION di Quentin TarantinoParlo in ritardo di Cinema Speculation di Quentin Tarantino, uscito a fine 2022, ma non è grave, perché Trantino non mette certo l'attualità, neppure quella cinematografica, al centro delle sue speculazioni. Anche se il libro ci dice molto del suo cinema e della sua “poetica”, attraverso il racconto dei suoi gusti, le sue passioni, le sue idiosincrasie e la sua storia di spettatore (l'etimologia latina di speculation porta d'altra parte anche al concetto di specchio), le sue riflessioni rimangono saldamente ancorate ad un fulcro temporale che è sostanzialmente il cinema degli anni '70, che per Tarantino si può dire costituisca quella che per Freud era la scena primaria, l'accesso traumatico al mondo degli adulti senza avere ancora gli strumenti per interpretarlo e decodificarlo. Gli anni '70 sono poi gli anni dell'infanzia di Quentin, che impara a frequentare e ad amare il cinema attraverso sua madre e i suoi compagni, amici ed amiche, coinquiline e coinquilini, ma sono anche anni di profondo rinnovamento, anzi si potrebbe dire rivoluzione, per il cinema mondiale e per quello americano in particolare. In quel periodo (seguito secondo Tarantino dalla normalizzazione e dall'infantilizzazione della produzione cinematografica nel corso degli anni '80 – e ne sappiamo qualcosa anche noi nel panorama anno), il cinema va oltre i limiti che fin lì si era imposto o che gli erano stati imposti, soprattutto nel campo della rappresentazione del sesso e della violenza, che raggiunge livelli di messa in scena esplicita mai toccati prima, almeno dal cinema mainstream. Nei film irrompono improvvisamente e massicciamente parolacce, ambienti sordidi, droga, prostituzione; l'horror genera le efferatezze dello slasher, il sottogenere revenge movie partorisce il sotto-sottogenere che il critico William Margold definisce revengeamatics, nascono il cinema a luci rosse, la blaxploitation (il cinema di genere esplicitamente concepito per il pubblico afroamericano); ma anche lo spettatore comune non in cerca di emozioni forti si trova davanti a opere scioccanti come Taxi Driver, Un tranquillo week-end di paura o Il mucchio selvaggio, firmati da autori riconosciuti e prodotti dai grandi studios, mentre la New Hollywood ribalta i criteri estetici ed etici del cinema classico. Figuriamoci l'effetto che l'esposizione spregiudicata a dosi inusitate di sesso e soprattutto di violenza e di brutalità, fin da bambino, dovette produrre sul piccolo Quentin, spesso l'unico non adulto a trovarsi al cinema a vedere quei film. Ma insomma, gli piacque. E molto. Atterrito o sconvolto che potesse essere - anche se confessa che come per molti bambini di quella generazione lo shock più potente fu la morte della mamma di Bambi nel film Disney -, Quentin era affascinato, turbato, divertito. I suoi gusti ricevono un imprinting indelebile e vengono orientati da tendenze sadiche, spingendo Quentin a diventare un fan avido e sfegatato di cinema soprattutto di genere, incuriosito soprattutto dai film che avevano la fama di essere estremi e violenti. Sia il cinema che il suo spettatore sembrano impegnati in una sfida, ciascuno impegnato a misurarsi e a superare i rispettivi limiti, del rappresentabile e del guardabile. Tutto questo è evidentissimo a chiunque abbia visto i suoi film: scorrendo la sua filmografia si direbbe che Tarantino sia sempre alla ricerca dei cattivi più spregevoli che esistano - malavitosi, nazisti, schiavisti, satanisti, ecc. - per giustificare ipocritamente l'orrore suscitato dalla violenza che questi esercitano sopra le proprie vittime, e poi del godimento (quasi) assolto dal senso di colpa provato dallo spettatore quando alla fine la stessa violenza si ritorce contro di loro. Ora, in Cinema Speculation, Tarantino assembla alcuni suoi scritti incentrati su quel periodo, componendo un affresco che è insieme un romanzo di formazione, un'educazione sentimentale e un'autoanalisi da una parte, e un libro di critica cinematografica, e un saggio sulla nuova Hollywood vista da un appassionato. Quello che rende appassionante e divertente il libro è senz'altro la commistione tra il piano personale (Quentin ci informa sul perché per anni non ha leccato la fica alle ragazze, tanto per citare uno dei deragliamenti più clamorosi dal percorso saggistico) e quello più squisitamente cinematografico. Lo sguardo che Quentin getta su film, su autori, su vicende e periodi cinematografici, è insieme quello di un bambino scioccato, stupefatto e affascinato; quello di uno spettatore vorace, onnivoro e ossessivo (Quentin ci informa su dove e quando ha visto i film di cui parla, a quali altri film erano abbinati se si trattava di un doppio o triplo spettacolo, spesso con chi li ha visti e su come ha reagito il pubblico in sala; tutto meticolosamente e ossessivamente annotato); quello di un giovane critico appassionato (spassoso il racconto in cui, recatosi ad intervistare un regista munito di una sola audiocassetta, visto il prolungarsi della conversazione e per non fare brutta figura, rimette nel registratore la stessa cassetta, sovraincidendo tutta la prima parte dell'intervista che quindi è andata perduta); perfino quello del videonoleggiatore (con l'ottica quindi dell'esercente che tasta in diretta il polso del gradimento del pubblico); quello di uno sceneggiatore e di regista di successo planetario; quello di un professionista del cinema profondamente inserito in un ambiente di cui conosce o indaga appassionatamente vicende e retroscena. I suoi scritti prendono in esame spesso singoli film, ma inquadrandoli nella produzione precedente e successiva del regista, legandoli al clima cinematografico dell'epoca e alla temperie legata alle politiche produttive (o tout court sociali e politiche), entrando nei dettagli della produzione del film, della stesura delle sceneggiature e del casting.
Un tema ricorrente è quello del passaggio dalla sceneggiatura al film, che spesso comporta cambiamenti e adattamenti, a volte migliorativi, a volte peggiorativi e a volte entrambe le cose rispetto allo script iniziale, con particolare riguardo alle sceneggiature di Paul Schrader (la cui carriera negli anni '70 rappresenta una presenza costante e trasversale ricorrente nel libro), nello specifico per Taxi Driver e Rolling Thunder (un revenge movie da noi pressoché sconosciuto). In un cinema pensato da maschi per i maschi, scritto, diretto ed interpretato da maschi, sono ovviamente – con rarissime e parziali eccezioni, come la Ali McGraw di Getaway! - gli attori uomini, icone e modelli di virilità, a dominare la rassegna critica di Tarantino: come lo Steve McQueen di Bullit o di Getaway!, o il Clint Eastwood de L'ispettore Callaghan o di Fuga da Alcatraz, o ancora il Burt Reynolds coprotagonista di Un tranquillo weekend di paura. Un tema che emerge con insolito rilievo è quello della presenza dei personaggi neri nei film (una lunga trattazione è riservata ai motivi per cui i papponi neri della sceneggiatura di Taxi Driver si trasformino in bianchi - offrendo ad Harvey Keitel la possibilità di farsi notare nel ruolo di Sport). Ma Tarantino non si limita a dichiarare le sue affinità con registi e sceneggiatori; un capitolo intero – che porta con sé una carrellata critica dei critici cinematografici, dove Quentin approfitta anche per togliersi qualche sassolino dalla scarpa facendo nomi e cognomi - è infatti dedicato a Kevin Thomas, critico cinematografico in seconda del Los Angeles Times, alfiere leale ed entusiasta del cinema di genere, spesso disprezzato dalla critica più paludata, con il quale il giovane Quentin sente una vera e propria fratellanza spirituale, pur non conoscendolo di persona (almeno fino alla premiazione di Pulp Fiction da parte dell'associazione dei critici di L.A.). Un capitolo intero in appendice, che ha un rapporto indiretto con il resto della trattazione, riguarda il rapporto del ragazzo Quentin con Floyd, un adulto nero amico della madre e delle sue coinquiline, con cui va al cinema, discute di film, grazie al quale si appassiona alla blaxploitation e di cui legge un paio di sceneggiature, mai realizzate, scritte dall'uomo. Un personaggio che eserciterà un imprinting decisivo sul futuro del ragazzo, carico di affettività, e che dice qualcosa anche della presenza di eroi neri (Jules di Pulp Fiction, Jackie Brown, Django, il Maggiore di Hateful Eight). Poco o nulla incline invece alla rappresentazione del sesso nel proprio cinema, Tarantino si sofferma sul tema della violenza omosessuale, da Un tranquillo week-end di paura ai film carcerari. Per quanto ci riguarda, Tarantino cita spesso anche il cinema italiano (forse il preferito, insieme a certo cinema giapponese), che effettivamente contribuì non poco al rinnovamento dei generi, nel senso prediletto dal regista, come con gli spaghetti western, che rivoluziona e stravolge il classico western hollywoodiano, o con gli horror di Dario Argento o di Mario Bava, precursori che spingevano molto più in là i limiti della rappresentazione della violenza esplicita. Devo dire che il mio piacere nel leggere il libro deriva anche dal fatto di essere quasi coetaneo del regista sceneggiatore, e di aver vissuto anch'io in prima persona i turbamenti dello giovane spettatore che si trovava al cospetto di opere sconvolgenti come Taxi Driver o Un tranquillo week-end di paura. Tarantino poi non ha timori reverenziali nei confronti di nessuno (compresi maestri del cinema come Robert Altman) e i suoi giudizi sono pertanto lapidari, brutali, coloriti e definitivi, divertenti anche quando sono discutibili: non mancano quindi attrici “cagne”, attori che fanno “schifo”, film che sono “cagate”, o affermazioni spericolate come quella che designa Non aprite quella porta, horror peraltro ammirevole ed epocale, come "uno dei più grandi film di tutti i tempi (...) uno dei pochi film perfetti che siano mai stati realizzati"...
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IL PASSEGGERO di Cormac McCarthyMi chiedo se Cormac McCarthy sia ancora uno dei miei scrittori preferiti, dopo aver letto a breve distanza l'uno dall'altro Meridiano di sangue e Il passeggero. I due romanzi sembrano collocarsi agli antipodi rispetto ad una riflessione che è anche una riflessione sulla Storia americana. Nel primo c'è un'America giovane, brutale, per certi aspetti ancora primordiale, intrisa di violenza, dominata da una natura immensa, aspra e indifferente al destino degli uomini. Un mito fondativo intriso di violenza e di sangue, raccontato seguendo le peripezie di un folle gruppo di cacciatori di scalpi, massacratori senza scrupoli e senza un apparente domani. Nel secondo c'è un'America post tutto, un'America che si colloca alla fine della storia del '900, dove tutto sembra già alle spalle: sia la storia individuale del protagonista, sia la Storia tout court, dopo che l'innocenza ingannevolmente ricostruita dopo la fondazione nel sangue è stata di nuovo smarrita e sverginata dalla “sporca” guerra del Vietnam, e ancora di più e ancora prima con la scellerata decisione di impiegare la bomba atomica sopra le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki alla fine della seconda guerra mondiale. Si direbbe quasi che il Giudice di Meridiano di sangue, che assume per il giovane protagonista un ruolo di distorta e mostruosa figura paterna e che alterna il ruolo di capobanda di un folle esercito di assassini - massacratori di uomini, donne, vecchi, bambini -, ai variegati e profondi interessi naturalistici, scientifici e filosofici, si sia evoluto fino a diventare il padre del protagonista de Il passeggero, un fisico che lavorò con Oppenheimer al progetto Manhattan che portò alla realizzazione e poi all'impiego delle prime bombe atomiche, che causarono centinaia di migliaia di vittime innocenti. Il diverso approccio alla Storia si riflette anche nell'età dei protagonisti: Meridiano di sangue (scritto dall'autore già 52enne nel 1985) è un “ragazzo” (the kid, così viene chiamato per tutto il libro) di cui ci viene narrata la storia fin dall'infanzia e dalla sua precoce vocazione alla “violenza insensata”, destinato a scomparire una volta diventato “uomo”. Il passeggero, pubblicato l'anno scorso, un mese prima della morte dello scrittore novantenne, è Bobby Western (il cognome nello stesso tempo ne indica la dimensione esistenziale crepuscolare, allude al destino storico dell'Occidente e segna anche la continuità con una mitologia delle origini inevitabilmente collocata nel West – anche se il romanzo si svolge in gran parte a New Orleans), un uomo adulto che, per quanto ancora giovane, ha già tutto alle proprie spalle: un padre che fu tra i padri della bomba atomica; un grande e impossibile amore perduto e irrecuperabile (la bellissima e intelligentissima sorella, afflitta da turbe psichiche e morta suicida); una serie di carriere non prive di momenti di gloria (brillante studente di fisica, poi corridore automobilistico, ora sommozzatore professionista specializzato nel recupero di relitti); perfino una ricchezza fortuita e inaspettata. Ma Western, nel suo lutto invincibile e inestinguibile, sembra essersi lasciato alle spalle anche qualsiasi passione e interesse; per gli amici e le donne è un enigma irresolubile, una sorta di fantasma che ad un certo punto sembra animato solo da un meccanico istinto di sopravvivenza. Perché in effetti alle origini de Il passeggero c'è un mistero, e nel suo sviluppo un pericolo che si fa via via più incombente. Western nelle prime pagine del libro compie un'immersione insieme ad un collega: sott'acqua entra nel relitto di un aereo precipitato in mare. A bordo ci sono nove cadaveri, ancora seduti compostamente ai loro posti. Ma manca un decimo passeggero che risulta sui documenti d'imbarco, e anche la scatola nera dell'aereo. Western comincia a subire le visite di agenti (non meglio identificati dal narratore) che sembrano convinti che lui sappia più di quello che dice di sapere. Mentre il suo collega scompare durante una missione, lui cerca di sfuggire dibattendosi in una misteriosa rete di pressioni e di persecuzioni che si stringe sempre più intorno a lui. Ma si sbaglierebbe a pensare che si tratti di una sorta di thriller alla Non è un paese per vecchi. Il mistero dell'aereo non sembra molto più che un espediente narrativo – neppure molto radicato nella narrazione, si direbbe – per far scattare la molla di una fuga che si delinea al rallentatore, e che sembra più che altro una fuga da se stesso, dai propri fantasmi e dai propri incubi. Il principale tra questi fantasmi, quello della sorella morta Alicia, si prende l'esclusiva di molti dei capitoli del libro, evidenziati da un carattere tipografico differente, dove lei a sua volta ospita una corte di fantasmi ancora più fantasmatici, bizzarre e irriverenti proiezioni della sua mente schizofrenica. E' una mancanza di baricentro (la latitanza dell'enigma e della sua soluzione in grandi parti del libro, e definitivamente nella sua prospettiva narrativa) che rispecchia quella di Meridiano di sangue, dove a scomparire (per grandi parti del libro e poi in modo irrevocabile) è quella che sembrava la ragion d'essere del libro fin dalle prime righe, ovverosia il protagonista stesso: un protagonista di cui il narratore comincia a raccontarci fin dalla più tenera età ma che poi perde nel corso della narrazione, confuso nella masnada dannata dei suoi compagni, annullato da una natura incombente e superiore, spesso indistinto nel mezzo delle mischie e dei massacri che si succedono lungo il libro. Intanto, mentre matura la lentissima fuga di Bobby, nel libro si parla di tutto: della guerra nel Vietnam; degli effetti della bomba atomica su Hiroshima; della balistica nell'attentato a Kennedy; della natura fisica della materia; della natura e dei limiti della matematica; di metafisica; di macchine e di corse automobilistiche; di immersioni subacquee; delle tecniche più disparate; della condizione psicologica dei transessuali e di molto altro ancora; tutti temi intervallati o incorporati in lunghi dialoghi con nonne, investigatori privati, amici snob e sarcastici, eremiti, agenti misteriosi, colleghi e anche qui più ne ha più ne metta, mentre ogni tanto si intromettono le pagine in corsivo piene dei deliri a volte totalmente privi di senso di Alicia. McCarthy sembra preso da una voglia onnivora ed enciclopedica di raccontare tutto, che sembra a volte davvero inopportuna, entrando ogni volta in dettagli virtuosistici, forse nel tentativo di scrivere (o riscrivere: per alcuni lo era già Meridiano di sangue) il Grande Romanzo Americano, in cui far confluire tutto, storia individuale e collettiva, fisica e metafisica, razionalità e follia, lo scibile umano e l'inconoscibile, l'individualismo americano e le paranoie politiche alla Pynchon. Se Bobby è un genio capace di fare qualsiasi cosa in cui si cimenti - immersioni pericolose, parlare di fisica o di matematica ad altissimi livelli, guidare come un campione, sopravvivere in condizioni estreme -, sua sorella (che sarà a sua volta protagonista del romanzo Stella Maris, uscito quasi in contemporanea a Il passeggero), oltre ad essere bellissima e pazza, è un genio naturale della matematica, ma incidentalmente è anche, pur giovanissima e chissà come, una delle più grandi esperte mondiali di violini cremonesi... La voracità tuttologa di McCarthy è testimoniata e icasticamente rappresentata nell'ultima pagina del libro (a romanzo finito): i ringraziamenti della traduttrice, l'ottima Maurizia Balmelli, che dichiara di aver avuto bisogno di una dozzina di consulenti per gli aspetti riguardanti la fisica, la matematica, la nautica, i motori, le corse automobilistiche, le immersioni subacquee, l'aviazione, la guerra, le estrazioni petrolifere, le materie legali. Forse altri avrebbero potuto essercene per le materie psichiatriche e per gli esegeti delle allucinazioni mentali, o altri ancora. La precisione chirurgica, fino al tecnicismo, è d'altra parte un elemento che contraddistingue la scrittura di McCarthy: per tornare al paragone con Meridiano di sangue, notevole era la competenza e l'accuratezza lessicale sfoggiata dall'autore in campo botanico o geologico, o in quello delle armi e degli attrezzi utilizzati all'epoca. Ma ne Il passeggero questa inclinazione sembra essere caparbiamente finalizzata alla composizione di un'opera-mondo onnicomprensiva, che si muove dalla realtà più minuta e concreta alle grandi questioni filosofiche e scientifiche, dai misteri della psiche umana a quelli del cosmo e della natura, dalla dimensione individuale e psicologica a quella della natura umana. E' un tentativo riuscito? Alla fine l'impressione che quello che rimane (se è permesso usare questo termine riduzionistico) di tutto questo vasto e intricato labirinto di competenze, di discorsi, di piani del racconto, sia la dimensione esistenziale del protagonista, in cui forse si rispecchia quella del suo autore. Come in altri suoi romanzi, il personaggio protagonista è solo (o quasi, come vedremo), al cospetto della società, ma soprattutto di un mondo e di un universo che lo trascendono e di fronte al quale è un nulla; un grumo di sofferenza e di solitudine, effimero e destinato alla scomparsa e all'irrilevanza assoluta. Di fronte ad un cosmo indifferente e crudele nella sua indifferenza, Bobby Western è solo sul cuor della terra, e se un raggio di sole lo trafigge prima che cali la sera è un raggio che porta bellezza ma anche perdita, sogno di felicità ma anche lutto infinito e desolata disillusione. E' forse solo la conoscenza, la consapevolezza (e allora acquista un senso l'ossessione della competenza linguistica portata ai suoi estremi) a distinguere l'uomo da qualsiasi altro animale, o da un sasso, o da un cactus del deserto, o da un fulmine nel cielo. Ma è tuttavia una consapevolezza che porta con sé a sua volta dolore, disperazione, senso di colpa. McCarthy in questo senso trascende la dimensione del romanzo americano, nella cui linea pure si iscrive con indiscussa autorità, per avvicinarsi di più all'angoscia kafkiana (in fondo anche Western è perseguitato da un'entità burocratico/metafisica per una colpa che né il lettore né lui stesso sono tenuti a conoscere) o al nichilismo leopardiano che concepisce l'umano come sensibile ma inutile unità di misura del vuoto di senso cosmico. Western è forse allora il decimo passeggero, quello stranamente sfuggito alla morte che gli aveva dato appuntamento su quell'aereo, per continuare a sopravvivere come un morto vivente in un universo che in fondo non ha molta più consistenza dei deliri della sorella Alicia, persa nella Wonderland (tanto per echeggiare il titolo del sito per il quale sto scrivendo) della sua mante malata. E Alicia forse non è che un'altra incarnazione delle giovani donne e dei bambini che accompagnano sovente i derelitti protagonisti dei romanzi di McCarthy, senza che questi riescano ad offrire loro un'adeguata protezione, impotenti malgrado le competenze nelle tecniche di sopravvivenza messe in campo da ciascuno di loro. Come la giovanissima moglie, Carla Jean, o il suo doppio, la ragazzina con cui Moss (anche lui improvvisamente, fortunosamente e inutilmente ricchissimo, come Western) si accompagna per qualche pagina di Non è un paese per vecchi, prima che tutti loro trovino la morte; o come il figlio bambino de La strada, la cui salvezza appare l'unica e ultima ragione di vita del padre protagonista. Ed oltre al nocciolo duro, diamantino, della narrativa di McCarthy quello che resta è ovviamente la sua scrittura, la sua prosa di incredibile valore. Più che nei lunghi dialoghi, a volte difficili da seguire, sia per la durezza dei contenuti tecnico-scientifici-filosofici che per la mancanza di segni ortografici che separino le battute e dell'indicazione esplicita del parlante, che li rende a volte veramente faticosi, è nella descrizione delle azioni, degli ambienti, delle atmosfere e dei paesaggi che si dispiega tutto il talento dell'autore. E' una prosa che riesce ad essere insieme minimalista nella sua asciuttezza e nello stesso tempo barocca per l'estensione del lessico, precisa e adamantina nel suo nitore e nello stesso tempo suggestivamente evocativa. In definitiva, non saprei rispondere alla domanda che ho posto in apertura. Ma arrivato a queste ultime righe, posso dire di essere stato comunque contento di aver letto Il passeggero, e forse ancora di più di averne scritto. HEIMAEY (Darkside, 2019) di Ian ManookAl ritorno da un breve tour in Islanda abbiamo pensato di leggere qualcosa di islandese. Alessandra ha letto un giallo di Indridason, io sono capitato su un altro giallo, scritto da un francese di origine armena e grande viaggiatore, Ian Manook. Lo scrittore si chiama in realtà Patrick Manoukian, è un esperto di comunicazione per il turismo e ha conseguito fama e successo letterario inventandosi una saga poliziesca in uno degli scenari apparentemente più improbabili, la Mongolia che fa da sfondo alla trilogia con protagonista il detective di Ulan Bator Yeruldelgger. Di nuovo alla ricerca di paesaggi estremi e inediti per le sue invenzioni giallistiche, stavolta ha ambientato Heimaey, primo romanzo di una nuova serie, in Islanda, cavalcando da outsider la potente onda del giallo nordico. Ma quello che mi ha più colpito e intrigato, nella lettura del libro, più che l'arruffato intrigo poliziesco, è proprio l'aspetto turistico della vicenda. In un libro dai molti personaggi, a dettare l'agenda è un padre che ha intrapreso un viaggio in Islanda da una parte per rivisitare i luoghi già visti in gioventù, dall'altro per tentare di riallacciare il rapporto, entrato in crisi dopo la morte della moglie, con la figlia adolescente. Ma la vacanza verrà stravolta da misteriosi personaggi dagli scopi oscuri che prendono di mira i due viaggiatori seguendoli, o meglio perseguitandoli, di tappa in tappa. Esattamente come noi, padre e figlia hanno programmato un giro classico, che fa praticamente il periplo dell'isola con tappe in corrispondenza delle principali attrazioni turistiche, che Manook racconta con ampie descrizioni e dovizia di particolari, cercando di cogliere lo spirito di un paesaggio che impressiona grazie alle manifestazioni di una natura che appare primigenia, assurda, aspra e affascinante nello stesso tempo. A confermare questa impostazione geo-turistica, contribuisce anche la titolazione dei capitoli, che scandiscono la narrazione grazie al nome dei luoghi dove si svolge l'azione, con il vezzo di sottotitolarli con le parole finali che concludono ciascun capitolo. Leggere Heimaey è stato quindi come ripercorrere quasi esattamente (con la differenza che i personaggi del libro fanno il giro in senso orario, mentre noi l'abbiamo fatto in senso antiorario) il nostro itinerario, rievocando di volta i paesaggi visitati e le emozioni che suscitano, e che anch'io ho brevemente evocato in un diario di viaggio che a breve pensavo di pubblicare sul sito. A partire dall'autonoleggio all'aeroporto, ai bagni termali della Blue Lagoon (noi siamo andati alla “blue lagoon del nord”, quella nei pressi del lago Mytvan, pure citata nel libro), al Golden Circle, con i geyser e la maestosa cascata di Gulfoss, alla capitale Reykjavik, a Hvitserkur con il suo mostruoso troll di pietra, a Husavik, capitale del whale watching, all'imponente Dettifoss, la cascata più potente d'Europa, al lago Mytvan, ad Akureyri, la capitale del nord dell'isola, a Hofn con il suo diner sul porto, alla laguna glaciale di Jokulsarlon, a Vik con il suo Hotel Puffin e la sua spiaggia di sabbia nera, e poi ancora ai paesaggi alieni delle solfatare, dei campi di lava, dei vulcani, dei laghi incastonati nei crateri... Non solo: il libro è infarcito anche di informazioni e aneddoti sull'Islanda, sugli islandesi e sulla vita in Islanda, molti dei quali conoscevamo già, da viaggiatori, avendoli letti sulle guide o avendoli scoperti sul campo; come la ricetta per la preparazione dello squalo marinato o l'aggressività di alcuni uccelli marini... Lo stesso stile letterario, semplice, diretto e divertito, sembra riservare molto più pathos al paesaggio che al giallo, capace di dilungarsi per interi paragrafi nella descrizione delle meraviglie naturali e delle atmosfere climatiche e di liquidare invece in poche righe gli avvenimenti più drammatici. Insomma, vi sto consigliando di leggere Heimaey più come un libro di viaggio: interessante e utile se programmate un giro da quelle parti; gratificante per il piacere del riconoscimento se ci siete già stati; comunque affascinante per sognare ad occhi aperti se proprio in Islanda non potete o non volete andarci. La trama comunque, anche nella sua improbabilità (forse le 452 pagine potevano essere sfoltite eliminando diversi episodi non essenziali), è gustosa e stuzzicante e si avvale di molti degli stratagemmi narrativi più in voga per catturare l'attenzione del lettore: dalla struttura del viaggio con i cambi continui di location; alla coralità del racconto che segue le vicende dei personaggi in una sorta di montaggio alternato che rilancia continuamente la curiosità lasciando dietro di sé dei cliffhanger che si risolveranno più avanti; alla stratificazione nel tempo che vede la chiave di alcuni drammi sepolta nel passato. C'è un cadavere spellato dalla vita in giù e infilato nella bocca di una solfatara, in omaggio alla leggenda dei necropant (ragionate sull'etimologia: è esattamente la cosa orribile che ne emerge); c'è il poliziotto ricattato dalla malavita lituana dopo essersi inguaiato con la terribile crisi economica seguita al 2008; c'è un commissario che canta litanie tradizionali in un coro femminile e un mafioso appassionato di citazioni colte; c'è una ragazza aspirante attrice che maschera il proprio malessere esistenziale dietro un naso rosso che si toglie solo per piangere; ci sono poliziotte giovani e intraprendenti, sia dal punto di vista professionale che sessuale; ci sono due gemelli con un tatuaggio complementare; ci sono marinai folli e hippy attempate, imprenditori digitali e signori dei corvi, musei della stregoneria e leggende ancestrali, una ragazza rapita e una sfracellata sulla scogliera, sacchi di cocaina scomparsi e pistole che cambiano di mano... Malgrado le improbabilità della trama (anzi delle trame), alla fine si finisce per affezionarsi un po' ai personaggi, e i nodi si ricongiungono, anche se l'epilogo è molto più sospeso di quanto ci si aspetterebbe... MACCHINE COME ME di Ian McEwanIan McEwan è evidentemente un autore che ama la complessità. Se le sue storie amano indagare i lati oscuri dell'animo umano, le ossessioni, le paure, i desideri inconfessabili, e cioè sostanzialmente quello che Freud chiamava l'Es, la sua narrazione sempre più spesso ama contaminarsi con quelle istanze superiori (il Super Io, per dirla sempre con la schematizzazione freudiana) che regolano la vita e la conoscenza umana, dalla legge alla scienza, dalla spionaggio militare alla burocrazia, dalla storia alle convenzioni sociali. In Macchine come me (ma il titolo originale è più preciso, più completo e più bello: Machines like me, people like you), la carne che McEwan mette al fuoco è davvero molta, pur all'intorno di un racconto svagato e non privo di ironia. C'è la scienza, la storia, la politica; ci sono personaggi inventati e personaggi realmente esistiti; e se stiamo ai generi letterari il romanzo potrebbe essere considerato una commistione tra fantascienza, romance, thriller, legal thriller, melodramma. Ma non basta; ogni genere appare a sua volta in forma anomala: la fantascienza si presenta sotto le vesti dell'ucronia, ed è ambientata nel passato: ma si tratta di un 1982 in cui il progresso tecnologico ha avuto un'accelerazione diversa rispetto a quella che conosciamo, tanto da aver portato alla creazione di umanoidi (quasi) perfettamente identici agli esseri umani - e in cui la Gran Bretagna ha perso la guerra delle Falkland, la Thatcher ha dato le dimissioni, e il nuovo governo laburista è vittima di attentati; il romance vede uno strano triangolo sentimentale in cui l'antagonista è un umanoide; il thriller, al di là di offrire un segreto da scoprire e di mantenere a lungo una sensazione di pericolo letale incombente sui protagonisti, esita a materializzarsi; e il personaggio realmente esistito di Alan Turing fa capolino un paio di volte nel 1982 del romanzo anche se nel nostro mondo sarebbe già morto dagli anni '50. Sembra in effetti che McEwan riprenda temi e situazioni delle sue opere precedenti, ma smorzandone regolarmente i toni – una sottile ironia come si è detto è una presenza costante in queste pagine – ed evitando accuratamente di condurre le vicende verso l'atteso climax drammatico o melodrammatico. Quello di Macchine come me è un passato proiettato nel futuro che ovviamente, anche solo per media cronologica, assomiglia ovviamente al nostro presente, cui, se non fosse per qualche discrepanza storica o per la presenza dell'umanoide Adam, sarebbe perfettamente identico. Il gusto per la complessità si evince perfettamente nella descrizione che McEwan dà di questa realtà alternativa; la sua fantascienza è ucronica ma tutto sommato non distopica, bensì, si potrebbe dire, dialettica: trasgredendo alle regole della letteratura di genere fantascientifico l'autore evita di piegare la sua invenzione ad una visione manicheistica, dove prevalga la visione utopistica o quella apocalittica. Il presente-passato-futuro di McEwan è una dimensione dove le cose vanno male e bene, dove il progresso si mescola al regresso, le tendenze al deterioramento (climatico, energetico, politico, sociale, culturale, ecc.) a quelle al miglioramento, le preoccupazioni alle speranze, le speranze alle preoccupazioni. Ma nel romanzo, come spesso accade nelle trame dell'autore, c'è un “corpo estraneo” (o forse due, come dirò più avanti) perturbante, che sconvolge ogni ordine possibile; un “uomo nuovo” che si affaccia al mondo, di nuovo di nome Adam, come nel precedente La ballata di Adam Henry. Adam è un androide, rappresentante di una serie molto limitata (il suo corrispettivo femminile ovviamente si chiama Eve), acquistato dallo sfaccendato trentenne Charlie Friend (che cerca di guadagnarsi da vivere con speculazioni finanziarie on line) con i soldi ereditati dalla madre e programmato dallo stesso Charlie e da Miranda, la vicina di casa con cui da poco ha iniziato una relazione più che amicale. Ognuno dei due, indipendentemente uno dall'altro, come i genitori carnali conferiscono ai propri figli ciascuno una parte del proprio patrimonio genetico, hanno programmato una parte della personalità dell'androide, che avrà quindi caratteristiche caratteriali miste e in parte imprevedibili. Adam risulta talmente “umano” da innamorarsi di Miranda e da instaurare con Charlie un rapporto di competizione anche sessuale, e talmente sensibile da essere in grado di comporre haiku, i brevi componimenti di origine giapponese. Ma la natura artificiale di Adam ci porta al cuore del problema al centro del romanzo: come si comporterà quello che è in fondo un robot di fronte ad un problema morale complesso e delicatissimo, riguardante la vita e la morte, il bene e il male, la violenza e la giustizia, il dolore e la riparazione, la felicità e l'infelicità, il destino di esseri umani che credevano di agire per il meglio o di un bambino incolpevole? E quando questi valori entrino in conflitto con l'imperativo (risalente alle tre leggi della robotica di Asimov) di non nuocere ad alcun essere umano, e con la fedeltà a quelli che sono insieme “genitori” e “padroni”, “amici” e “amanti”? E' chiaro che l'espediente narrativo serve a ragionare sul concetto stesso di etica umana e di responsabilità, ma anche a fare esplodere in modo eclatante le contraddizioni che dilaniano l'agire umano, dai comportamenti più intimi e individuali a quelli più ampiamente politici e di dimensione globale. Quale mondo ci troveremmo di fronte se a governare fosse un'etica assoluta (ammesso e non concesso ovviamente che un tale concetto sia concepibile), non solo quella determinata da algoritmi informatici, ma anche quella possibile attraverso una condivisione rigorosa di priorità morali? E' chiaro che McEwan non può dare risposte, ma solo suggerire domande e riflessioni, attraverso un'esemplificazione romanzesca problematica e dialettica. Ma accennavo al fatto che nel romanzo c'è un secondo “corpo estraneo”, che introduce un'ulteriore e differente dimensione politica al romanzo. Se l'Inghilterra (e il mondo) di Macchine come me è così avanzata scientificamente e tecnologicamente rispetto al 1982 che abbiamo vissuto, una ragione (tra le altre possibili), c'è: ed è che Alan Turing non è morto, tant'è vero che lo incontriamo più volte “in carne e ossa” (e mente) nelle pagine del romanzo. Se oggi siamo così “indietro” rispetto a quello che avremmo potuto essere è – ipotizza McEwan – anche perché il possessore di una delle menti più brillanti del XX secolo, insigne matematico, padre della moderna informatica e degli studi sull'intelligenza artificiale, che ebbe un ruolo decisivo nella sconfitta del nazismo e delle potenze dell'Asse riuscendo a decriptare i codici segreti tedeschi generati dalla macchina Enigma – fu perseguitato per le proprie tendenze omosessuali, processato, condannato, umiliato da devastanti terapie ormonali, e infine spinto al suicidio (ma le circostanze della morte sono rimaste talmente poco chiare da non escludere ipotesi ancora peggiori). L'arretratezza culturale, il furore discriminatorio, l'ossessione per la differenza (in questo caso sessuale), potrebbero essere state non solo alla base del disconoscimento di un eroe della guerra contro la barbarie nazista, cui non solo il Regno Unito ma tutto il mondo dovrebbe essere riconoscente, e non solo causa della rovina e della morte di un individuo, ma riverberarsi in maniera non solo simbolica sull'intera umanità e sulle sue possibilità evolutive. E' un monito non da poco, di straordinaria attualità (Turing morì a 41 anni nel 1954 ma solo nel 2013 la Regina gli concesse la grazia postuma), che sommato a quanto già si è detto rende Macchine come me un libro degno di essere letto, ancor più per gli stimoli intellettuali che procura che per il suo esito puramente letterario. Altri romanzi di Ian McEwan recensiti su Into the Wonderland: ISAAC IL PIRATA - Integrale - Volume 1 di 2, di Christophe BlainNel 2016 Coconino Press – Fandango ha ripubblicato unitariamente i primi tre episodi di Isaac il pirata, con l'indicazione Integrale – Volume 1 di 2, ma ad oggi non mi risulta che sia seguita la pubblicazione del secondo volume, come non risulta che Blain abbia liquidato, neppure in patria, il sesto e conclusivo episodio della saga. Peccato; perché la graphic novel di Christophe Blain meriterebbe di essere letta nella sua interezza. Per ora – a meno di cercare l'edizione francese dei due ulteriori episodi – dobbiamo accontentarci dei primi tre, Le Americhe (premiato ad Angouleme come miglior album nel 2002), I ghiacci e Olga, che pure sono raccolti in un corposo volume di 152 pagine di grande formato. Il titolo in realtà non rende pienamente giustizia a Isaac, che non è un pirata ma un pittore, di talento ma squattrinato, che vive da bohemien insieme alla bella Alice. Quando incontra uno sconosciuto, Henri, che gli propone di imbarcarsi per andare a conoscere un ricco mecenate che potrebbe essere interessato ai suoi lavori, accetta. Ma in un lampo la sua vita è destinata a cambiare: la nave su cui è imbarcato è attaccata dai pirati guidati da Jean Mainbasse, di cui Henri è complice ed eminenza grigia, e Isaac è imbarcato a forza sulla nave corsara in qualità di illustratore di bordo. Mainbasse ha infatti intenzione di raggiungere le Americhe, e da lì partire verso il Polo Sud, con l'ambizione di essere lo scopritore di un nuovo continente inesplorato e Isaac è appunto colui che dovrà documentare con la propria arte la gloriosa impresa. Le coordinate temporali e spaziali sono indefinite; nel libro non ci sono indicazioni precise né di luoghi, né di date, né di eventi storici che possano servire a collocare la storia. Si direbbe che siamo tra il XVII e il XVIII secolo e il veliero fa rotta verso le Americhe, prima di salpare vero il sud definitivo. La costruzione del racconto inanella una sequenza di avvincenti avventure, tra le belle donne nel giardino del Governatore, abbordaggi e ammutinamenti, bottini da occultare ed esplorazioni in terre ignote. Ma Blain non dimentica neppure le avventure sentimentali della bionda Alice, rimasta a casa da sola e con la madre anziana e malata, che subisce però ben presto la tentazione di un giovane gentiluomo, affascinante e ricco, che dalla galanteria discreta passa in breve a un innamoramento sincero e appassionato. Indubbiamente Blain, autore dei testi e dei disegni, possiede – e lo si vede già dalle prime pagine, dove il ritorno a casa di Isaac e i suoi dialoghi con Alice stabiliscono immediatamente un tono scanzonato e irruente – una capacità narrativa davvero notevole e sorprendente. Il ritmo è sempre avvincente, l'alternanza tra toni umoristici e drammatici è credibile e ben giustificata, e le sorprese non mancano e non sono scontate (dall'effetto della visione dell'aurora boreale – disegnata in bianco e nero! - sulla ciurma di pirati alla dinamica della sequenza dell'ammutinamento). La gioia della narrazione genera anche tante microstorie, molte delle quali raccontate dagli stessi personaggi. Ma ancora più stupefacenti sono la naturalezza e la verve dei dialoghi e i disegni dei caratteri. Isaac ha un carattere sfaccettato: è un entusiasta estroverso, ma subisce anche gli attacchi di malinconia provocati dalla solitudine, dalla lontananza da casa e dall'amata Alice; è giustamente pauroso di fronte a situazioni spaventose come i combattimenti, la prigionia, le minacce del mare e del ghiaccio, l'atteggiamento dispotico di Jean, ma trova ad un certo punto il sangue freddo per improvvisarsi chirurgo e mettersi a estrarre pallottole e segare ossa; è innamorato ma subisce il fascino delle belle donne che incontra nelle sue avventure; ha tristezze saturnine (alcune provocate dalla perdita dei preziosi taccuini con i suoi disegni), ma è sempre pronto a recuperare lo spirito per affrontare nuove avventure. Isaac è infatti uno di quei libri in cui ci si affeziona ai personaggi, nessuno dei quali può dirsi veramente negativo. L'impostore Henri, medico di professione, si rivela un piacevole e colto compagno di viaggio; il corsaro Jean è collerico ma anche magnanimo, esuberante e animato dallo spirito di scoperta più che di quello di rapina; i pirati sono rozzi e violenti e, ma anche ingenui come bambini, pronti a prendere bonariamente in giro Isaac per le sue nostalgie amorose e a stupirsi per gli spettacoli della natura, affamati di avventure e di ricchezze quanto di immagini e di storie. Alice è un personaggio vero e affascinante, e il suo spasimante, che pure corteggia la donna di un altro approfittando della sua assenza, è gentile e animato dalle migliori intenzioni. Blain racconta tutto con i suoi disegni, suscitando città francesi, mari del sud, giardini tropicali, ghiacci perenni, ma adottando uno stile brut dai rari squarci lirici, e molto stilizzato e caricaturale nel disegno dei personaggi. La faccia di Isaac è praticamente un rettangolo orizzontale, abbondano i nasi abnormi e i visi sono spesso sfregiati dal nero delle ombre e delle pieghe di espressione. Eppure la rinuncia al realismo grafico paradossalmente rende Blain più libero di utilizzare la stilizzazione espressionista per esaltare le espressioni dei personaggi, gli umori, gli stati d'animo, i sentimenti, permettendo l'immedesimazione del lettore. Sono quasi degli schizzi (ma degli schizzi ancora più schizzati ci sono davvero, e c'è qualche tavola esemplificativa in appendice al libro), che sembrano soccombere sotto la foga della narrazione. Se la prima ventina di pagine dispone le vignette dando loro respiro e disponendole su tre righe, presto le strisce diventano quattro per pagina, si rimpiccioliscono, si affollano, fino ad arrivare alle cinque affollatissime strisce di alcune tavole nel terzo episodio. Nella dimensione di autore totale di Blain, il disegno è connaturato alla storia, e il tema della riproduzione della realtà attraverso il disegno e la pittura è centrale nella narrazione ed è la ragion stessa della partecipazione di Isaac alle bizzarre avventure che lo vedono involontario protagonista. Ma viene da chiedersi quale capolavoro avrebbe potuto nascere da una collaborazione tra Blain e Gipi (anche lui della scuderia Coconino Press – Fandango e dal tratto grafico non molto lontano da quello del francese), che poco dopo l'interruzione della saga di Isaac si dedicava anch'egli all'immaginario piratesco negli inserti fantastici e acquarellati de La mia vita disegnata male. THE NUMBER - 73304-23-4153-6-96-8 di Thomas OttThe Number è una di quelle graphic novel che si impongono da subito come dei piccoli classici. Thomas Ott torna come nelle opere precedenti a procedere attraverso due operazioni di sottrazione. Con la prima cosparge di nero lo spazio delle tavole e poi lo graffia, riguadagnando il bianco della carta fino a far emergere le immagini dal buio. Con la seconda elimina dialoghi e didascalie dalle vignette dell'intero racconto, facendo scaturire la storia dal silenzio, dalle immagini, dalle lettere o dai numeri che compaiono nella diegesi, senza far mai pronunciare una sola parola ai suoi personaggi. E' un vero e proprio tour de force, perché la storia è complessa, involuta, ricca di personaggi, di colpi di scena e di rivolgimenti. E perché è proprio una stringa di caratteri numerici - quelli per la precisione che compaiono nel titolo - ad essere al centro della storia, a segnarne ogni svolta, ogni sviluppo e rivolgimento. La stringa di numeri è scritta su un foglietto (una strip, per dirla all'inglese, con il termine con cui si designano anche le strisce di vignette dei fumetti) infilato dentro una Bibbia, in una cella della morte. Dopo l'esecuzione, il boia, un uomo dall'aspetto grigio e anonimo, trova quel foglietto con quei numeri senza logica e spiegazione. Eppure, come si renderà ben presto conto, quei numeri determineranno nel bene e nel male tutta la sua residua esistenza. Numeri civici, numeri della roulette, numeri di telefono; in ogni aspetto della sua vita, in ogni evenienza il protagonista ritrova in diverse combinazioni la presenza pervasiva di segmenti di quella stringa numerica, che ne determinano le azioni e le decisioni, le fortune e le sfortune, le speranze e la follia. Perché la storia è dominata fin dalla prima tavola dalla presenza della paura e della morte. Il protagonista vince alla roulette, conosce la donna dei suoi sogni; ma nulla, né l'improvvisa ricchezza, né l'amore insperato sono naturalmente destinati a durare. Basta guardare qualsiasi tavola di Ott, dove il nero sembra giusto essersi ritirato quel tanto sufficiente per far affiorare un relitto di una storia sempre minacciata dal buio pronto a richiudersi sui disegni e sul destino del personaggio. The Number è nelle sue atmosfere e nella suggestione delle sue immagini un incubo kafkiano, e d'altra parte il segno nero, graffiato e grottesco con cui Robert Crumb aveva raccontato a modo suo (e cioè a fumetti) la vita e le opere di Franz Kafka non è molto lontano dai disegni a scratchboard del fumettista svizzero. Ma dove le storie di Kafka sono bloccate, irrigidite in un senso di assurdo paralizzante, tanto da poter essere riassunte in una riga (Gregor Samsa si trasforma in uno scarafaggio;un uomo aspetta invano tutta la vita di varcare il portone della Legge, finché alla sua morte questo viene richiuso dal guardiano; Joseph K. Subisce un incomprensibile processo), quella di The Number è un flusso dove le vicende si sviluppano senza fine, dove le cose e le persone stesse possono mutare e cangiarsi dentro spirali narrative oniriche, dove i numeri stessi del destino si riconfigurano in continuazione assumendo valori e sensi sempre differenti. La numerologia esoterica ha radici profonde nelle sapienze ancestrali (nei Veda indiani, nei Libri dei Morti degli Egizi, nella cabala degli Ebrei); finché Galileo Galilei rifonda la scienza moderna scrivendo che il libro stesso dell'universo è scritto nella lingua della matematica. La matematica conduceva alla pazzia il protagonista del film Pi greco – Il teorema del delirio (1998), di Arononofsky; i numeri conducono il protagonista di Ott alla fortuna e alla rovina. Ma il destino umano è veramente iscritto in un'immutabile sequenza numerabile? O la vita degli uomini è dominata dal caso, come una pallina gettata nella ruota vorticosa di una roulette? O è solo la nostra ossessiva ricerca di un senso a leggere coincidenze e segni fatali nelle cose, solo per assolverci dalle nostre colpe, o giustificare le nostre debolezze e le nostre inadeguatezze? Ognuno cerchi le proprie risposte a queste domande (che non ne ammettono in realtà nessuna). Nel racconto di Ott i numeri tornano a scrivere un fato irrazionale e beffardo, di nuovo, profondamente kafkiano. Come le porte della Legge, quei numeri forse non significano niente, non nascondono niente. Sono stati scritti per quell'uomo (e forse per quello che lui ha messo a morte, e magari per il prossimo che si imbatterà in quel fogliettino di carta) e per segnarne la strada senza scampo; sono stati scritti per le sue illusioni, per i suoi sogni, per le sue paure, per i suoi incubi, per la sua morte. E per noi; che, come il guardiano della Legge chiudeva le porte davanti al moribondo, chiudiamo alla fine il libro sulla storia assurda e stranamente perturbante di quell'uomo ringhiottito dal buio dell'inchiostro. GHIACCIO di Anna KavanI was lost è la frase che apre il libro. E un paio di pagine dopo, dopo aver attraversato con il protagonista alla guida paesaggi oscuri e inquietanti, è perduto anche il lettore. E' uno strano e indecifrabile libro, Ice. Non ci sono certezze, nemmeno in copertina. Lo pubblica Fanucci, quindi dovrebbe essere un libro di fantascienza, ma forse non lo è. E' firmato Anna Kavan, ma l'autrice in realtà si chiamava Helen Woods. Ghiaccio è un libro apparentemente senza senso, o, considerato anche che la Kavan lo ha scritto un anno prima di morire e costituisce quindi il suo testamento letterario – la scrittrice prima di morire distrusse i suoi diari e i documenti personali -, è un libro che spinge il lettore a chiedersi quale senso abbia. E' un libro di fantascienza, perché ambientato in un non-presente apocalittico minacciato da una glaciazione planetaria. E' un fantasy, con paesi immaginari (mai precisati), boschi e montagne, e perfino una sorta di drago che sbuca dal mare per divorare vergini. E' una spy story, con un protagonista investito di missioni segrete e indecifrabili, che dissimula le proprie reali intenzioni e che si sposta attraverso le nazioni a bordo di automobili, camion, navi, elicotteri, aerei. E' un action, o un war book, o un apocalittico, visto che ci sono scene d'azione, sparatorie, descrizioni di rivolte, combattimenti, tumulti, scene di distruzione, oltre all'incombere continuo di una catastrofe universale. E' una storia d'amore e di ossessione, visto che dalla prima all'ultima pagina il protagonista vaga alla ricerca continuo di una ragazza che potrebbe essere in pericolo. Ma in qualsiasi genere si voglia - inutilmente e infruttuosamente - incasellare il romanzo, qualcosa stride e lo fa deragliare. Il protagonista non ha nome, difficile dire chi sia e da dove venga. Si mette in viaggio per cercare una ragazza un tempo amata, che lo ha respinto. La ragazza non ha nome, è quasi una bambina, diafana, fragile, dai capelli argentei. Ogni volta che il protagonista la raggiunge, lei lo respinge, si sottrae o viene sottratta, dalla morte o dall'antagonista. L'antagonista non ha nome. E' un governatore, un uomo di potere, dai modi freddi, brutali e autoritari, dagli occhi di ghiaccio. E' un violento, il rivale dell'eroe, eppure quando questi gli giunge al cospetto spesso si trova intimidito e affascinato e a volte prova la vertigine dell'identificazione, al punto da non riuscire quasi a distinguere tra se stesso e l'altro. Il protagonista infatti è un uomo d'azione, che indaga, viaggia, fugge, combatte, eppure di fronte all'antagonista ne è quasi l'opposto: tanto determinato, virile, potente il secondo quanto il primo è irresoluto, lamentoso, tormentato, incapace di conseguire il suo scopo. L'ambiguità è altrettanto profonda nel caratterizzare i rapporti tra l'eroe e la fanciulla in pericolo che dovrebbe salvare. Fin dall'inizio il protagonista, che parla in prima persona, rivela gli istinti sadici, violenti e distruttivi che si mescolano e a volte dominano i sentimenti amorosi e compassionevoli nei confronti della ragazza. Se nessun personaggio è scolpito a tutto tondo, la ragazza è tra i tre quello più inconsistente, dotata di una personalità e da una caratterizzazione debole, querula, indisponente. Più volte il protagonista la vedrà morire o già morta, uccisa dalla violenza umana o da quella degli elementi o dalla potenza onirica di sogni nefasti indistinguibili dalla realtà. Quella che governa il rapporto tra i tre protagonisti è solo una forma della violenza che permea il libro e il suo universo. Il mondo in cui agiscono è infatti sconvolto da guerre, rivolte, distruzioni. I paesaggi sono spesso quelle di fortezze militari o di città devastate, ridotte a cumuli di rovine, spesso sepolte dal ghiaccio e dalla neve, o ancora di paesaggi desolati, foreste oscure e impenetrabili, montagne inaccessibili, mari aridi e desolati. E tutto è reso ancora più brutale, più inospitale, più minaccioso dall'onnipresenza del ghiaccio, che sta invadendo tutta la terra condannandola alla morte totale. L'umanità si affanna spendendo in guerre e distruzioni gli ultimi giorni che le rimangono da vivere, prima di essere estinta come ogni altra forma vivente da una glaciazione inarrestabile. Tutto nel libro è bizzarro e grottesco, e viene davvero da chiedersi come una donna si sia potuta identificare in un uomo sadico e ossessionato, attratto da una donna-bambina senza personalità cui vuole infliggere sofferenze e che contende ad un uomo ancora più brutale con cui cerca un'impossibile identificazione. L'unico elemento che accomuna la donna che scrive e la donna dentro il libro è un'infanzia infelice caratterizzata dalle vessazioni materne e da rapporti con gli uomini mai soddisfacenti. L'andamento narrativo è ricorsivo e labirintico, basato sulla ripetizione di paesaggi e di situazioni e completamente privo di punti di riferimento. Il disorientamento in cui è indotto il lettore è tanto geografico che temporale (la vicenda sembra svolgersi in un'epoca contemporanea, ma a volte compaiono elementi che sembrano alludere ad epoche precedenti); ma anche tanto narrativo (la narrazione in prima persona a volte si perde a seguire avvenimenti cui il protagonista non può essere presente) che relativo allo statuto di realtà degli avvenimenti, perennemente oscillanti tra momenti semi-realistici e altri decisamente onirici (a cominciare da quelli che vedono rappresentata più volte e in forme e contesti differenti la morte della fanciulla). La Kavan scrive il libro nel 1967 – quando la lettera H poteva designare tanto l'eroina, come la chiamava confidenzialmente la scrittrice, quanto la bomba fine-del-mondo della Guerra Fredda -, cercando sollievo alla propria infelicità nell'uso delle droghe. Ghiaccio appare allora come un bad trip lisergico, o una serie ossessiva di bad trips psicoanalitici, in un'allucinazione continua senza vie d'uscita o di speranza. Il romanzo evoca senza citarli esplicitarli grandi classici della letteratura fantastica, come il Frankestein di Mary Shelley, che ambienta il finale in un paesaggio desolato di ghiacci disumani; o le visioni fantasmagoriche del Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe, in un viaggio senza ritorno verso il gelo letale del Polo; o il senso di incubo incombente dei racconti di H.P. Lovercraft; o infine il senso di claustrofobia e di angoscia, colmo di sensi di colpa, che pervade Il processo e gli altri capolavori di Kafka. Ma ancora, la scrittura virtuosistica (soprattutto nelle infinite varianti in cui descrive i suoi paesaggi glaciali e l'incombere implacabile della sua apocalisse polare) e cupamente psichedelica della Kavan ricorda alcuni esempi di cinema contemporaneo, come nel delirante Madre! o come in Sto pensando di finirla qui, con la sua coppia perduta nella tormenta di neve, in cui la narrazione esce dai binari del consueto per deragliare verso detournement onirici in cui realtà sempre più degradata e sogno sempre più angosciante si confondono inestricabilmente, per naufragare senza rimedio verso la rovina dell'io e dell'identità. BARBABLU' di Amélie NothombQuando don Elemiro - Grande di Spagna autoesiliatosi a Parigi, dove vive una vita agiata e completamente solitaria in un lussuoso palazzo dell'aristocratico VII arrondissement – entra nella sala d'aspetto dove aspettano una quindicina di candidate, non ha un attimo di dubbio: la prescelta è Saturnine. E' lei ad aggiudicarsi l'affitto di una stanza di 40mq in quella principesca dimora nel centro di Parigi, con ampia cucina attrezzata a disposizione, al modico prezzo di 500€ al mese. Ad attirare le altre candidate, però, non è stato tanto l'affare immobiliare quanto il sinistro fascino di don Elemiro, nella cui casa sono già state alloggiate in precedenza altre otto donne, tutte apparentemente scomparse nel nulla. Un mistero e un segreto. Don Elemiro lo enuncia fin da subito: nel palazzo c'è una porta, che non è chiusa a chiave, che porta alla stanza nera. Un mistero, un segreto e una regola: quella porta Saturnine non dovrà mai aprirla. E' la vecchia storia di Barbablù, che la Nothomb però attualizza e problematizza, arricchendola di allusioni e di significati. L'impianto del libretto è estremamente teatrale, e si presterebbe a meraviglia per essere portato in scena, essendo incentrato su una sequenza di conversazioni che l'uomo e la giovane donna intavolano (letteralmente) nel corso delle cene cui don Elemiro invita ogni sera Saturnine, cercando di affascinarla con le proprie raffinatissime preparazioni culinarie e con la propria peculiare eloquenza. A un capo e all'altro della tavola siedono due visioni opposte del mondo e della vita: l'uomo arrogante, compreso nella propria nobiltà di sangue, bigotto, misantropo, solitario, pieno di idee astratte e astruse; la ragazza vivace, arguta, disincantata, pragmatica, coraggiosa, cosmopolita, ben decisa a tenere testa al suo aspirante seduttore (viene alla mente, con le debite differenze, la dialettica tra il maschile grottescamente prescrittivo e normativo e il femminile disastrosamente istintuale che innerva molto del cinema di Lars von Trier). Eppure qualcosa cambia nel corso delle serate: l'uomo cerca di disarmare Saturnine con una sua pretesa disarmante sincerità, cercando di convincerla dell'amore che quasi immediatamente prova per lei, concedendole favori dialettici e materiali (primo tra tutti lo champagne, di cui la ragazza è ghiotta e che quindi presto riempie un apposito frigorifero con bottiglie delle migliori marche); la ragazza cominciando passo dopo passo a cedere terreno al fascino bizzarro del proprio ospite, sedotta dalla sua stravagante eloquenza e dai piaceri fisici del lusso, del cibo e delle bevande, o dell'ineffabile morbidezza di una gonna colore dell'oro cucita con le sue proprie mani dal suo amorevole anfitrione. Ma fino a quando è possibile eludere la domanda sul destino delle otto donne sparite nel nulla in quelle stesse stanze, dopo aver seduto a quella stessa tavola? E fino a quando sarà possibile resistere alla necessità di mettere piede nella proibita stanza nera? E il duello intellettuale tra don Elemiro e Saturnine si trasformerà in un duello amoroso o in una sfida per la vita e per la morte? Raccontare di nuovo una storia già sentita come quella di Barbablù (messa in bella copia da Perrault che non era ancora il 1700, e portata sullo schermo dal cinema neonato nel 1901) avrebbe potuto trasformarsi in un esercizio manieristico a forte rischio di déjà vu. Non è così, grazie soprattutto alla scrittura della Nothomb, che con una sola ambientazione, con uno sviluppo narrativo basato sulla reiterazione, in una situazione in cui a dominare è la parola a scapito dell'azione, riesce a creare e mantenere una costante attrazione grazie al suo stile fresco, arguto, scherzoso in superficie ma capace di gettare sprazzi di luce anche in profondità (come l'effervescenza nel corpo dello champagne, verrebbe da dire). Anche quando parla di traffico di indulgenze, o di come si cuoce un uovo, o della tassonomia dei colori, o del grottesco incidente che fa di Elemiro un orfano solipsista, grazie all'identificazione con la frizzante e curiosa Saturnine la tensione narrativa e dialogica non viene mai meno, introducendo altre riflessioni sull'amore e il potere, la seduzione e la parola, il mutuo rapporto tra arte e natura (la fotografia come negazione della vita, o meglio la morte come espediente con cui la natura tenta di imitare l'arte), l'innocenza e la colpa, la fiducia e il rispetto del segreto. La Nothomb, che sottolinea l'origine belga della sua eroina, quasi fosse un modo di introdurre una lieve sfasatura, un leggero decentramento del punto di vista, intreccia nel suo divertissement almeno due linee che lo innervano e che si intrecciano sul canovaccio della fiaba. La prima è quella della tradizione della letteratura libertina francese, in cui l'eros era indissolubilmente legato ad un'attitudine intellettuale e a una vocazione dialogica o narrativa (vengono alla mente i dialoghi di de Sade, o l'espediente epistolare de Le relazioni pericolose, anche se Barbablù mantiene le schermaglie tra i contendenti su un livello molto più platonico); la seconda è quella della tradizione alchimistica, cui il testo si richiama con numerosi riferimenti. Lo stesso nome della protagonista – fatale, rispetto a quello delle donne che l'hanno preceduta nelle stanze di don Elemiro – rimanda al pianeta che per gli alchimisti simboleggiava il piombo, o la materia prima e bruta la cui trasformazione in oro era il fine ultimo della ricerca alchemica. Oro che torna continuamente come tema nei dialoghi tra i due, e che si può materializzare via via in un uovo (altro simbolo alchemico, simbolo di nascita e di rinascita), in una gonna, nello champagne che innaffia generosamente i convivi serali. Se è difficile prevedere in anticipo quale esito avrà il duello, e se si tratterà innanzitutto di un esito romantico o letale, sarà proprio la presenza dell'elemento alchemico a impregnare le ultimissime due righe, imprimendo ancora una volta un cambiamento di senso che istilla un dubbio su chi sia il vero vincitore e su quale fosse la vera posta in gioco. Nota del (non) traduttore: Ho letto Barbablù nell'edizione originale francese. Confesso che coltivo questo vizio - iniziato con la lettura delle riviste di fumetti francesi come Charlie o L'echo des savanes, proseguito con la lettura in lingua dei Maigret di Simenon o con le avventure del petit Nicolas – con un certo piacere narcisistico e perverso, non avendo mai studiato francese in vita mia. Ne ricavo un piacere ancora più intenso, un godimento più profondo, nel raddoppiamento della sfida dell'interpretazione, che non è solo del testo ma anche della lingua. E poi, ci sono cose che si possono sentire solo in francese. A volte mi è capitato di non riconoscere più un film di Rohmer o di Sautet, visto prima in lingua originale e poi rivisto doppiato in italiano; così, un jaune asymptotique, forse, può esistere solo nella lingua di Pascal o di Monet. LO SCARAFAGGIO (The Cockroach) di Ian McEwanJim Sams (il nome mette già sull'avviso fin dalla prima riga) si sveglia “da sogni inquieti” e si ritrova trasformato in un essere umano; anzi, più che un essere umano: il Primo Ministro Inglese. Sì, perché prima Sams aveva un bell'esoscheletro, ben sei zampe ed era, insomma, per farla breve, uno scarafaggio orgoglioso di esserlo. E' soprattutto in queste prime pagine, nel ribaltamento della Metamorfosi kafkiana, che McEwan rivela il suo consueto virtuosismo, la sua maestra nell'arte del racconto. Perché in generale a dominare ne Lo scarafaggio - più che l'ambizione letteraria, per il bello stile, una trama ben strutturata, personaggi ben delineati, una progressione drammaturgica ben calibrata -, è piuttosto un'amarissima urgenza satirica, un livore razionalistico verso la piega (o la piaga, si potrebbe dire, con un gioco di parole) che ha caratterizzato le vicende della politica inglese negli ultimi anni. E cioè il progetto, “insulso, masochistico, inconcepibile” di uscire dall'Unione Europea. Se lo scarafaggio si trasforma in Primo Ministro, la Brexit si trasforma parodisticamente nel romanzo (o meglio nel pamphlet) di McEwan nell'Inversionismo, un folle e sconclusionato progetto basato sull'inversione dei flussi economici e finanziari, in cui si paga per lavorare, si incassa quando si va a fare la spesa, si hanno interessi negativi lasciando i soldi in banca. Risparmiando ci si impoverisce, bisogna acquistare il più possibile per guadagnare, e con i soldi si possono pagare impieghi sempre migliori, per mantenere i quali bisogna spendere e acquistare sempre di più. Un circolo virtuoso per far girare l'economia o una follia insensata? Bisogna tenere conto che gli scarafaggi si sono trasformati in politici – la premessa avverte che “qualsiasi somiglianza con blatte autentiche, vive o morte che siano, è del tutto accidentale”... - ma conservando mentalità e obiettivi da scarafaggi; il loro sogno e il loro fine ultimo è quello del ritorno tra gli umani di povertà, miseria, sudiciume, squallore, le condizioni in cui loro possono prosperare e tornare agli antichi fasti della loro razza. E sanno anche quali condizioni sono propizie per il raggiungimento dei loro scopi: “la guerra, il riscaldamento globale, l'immobilismo gerarchico, la concentrazione della ricchezza, la superstizione profonda, le notizie infondate, la divisione, la sfiducia nella scienza e nella ragione, la diffidenza verso l'estraneo e la cooperazione sociale”. Cosa ve ne sembra di questo elenco? Manca qualcosa? Vi ricorda qualcosa? Nella novella vediamo all'opera i metodi del Primo-scarafaggio-Ministro: discredito degli oppositori mediante la la macchina del fango che costruisce e diffonde fake news; la creazione arbitraria di un nemico esterno (in questo caso la Francia), deformando e strumentalizzando i fatti; la ricerca di alleanze esterne. Proprio a quest'ultimo aspetto è riservato uno dei brani più sapidi del libro, là dove viene analizzato un tweet (tipicamente trumpiano) del Presidente americano, che, prendendo posizione a favore degli inglesi contro i francesi in una controversia strumentale e creata ad arte, conclude, rivolgendosi al suo omologo francese, con: “CATTIVO!”. Chiosa il narratore, identificandosi con il pensiero di Sams: “il giudizio conclusivo era puerile, categorico, memorabile e metricamente perfetto. E la finezza di quel maiuscolo finale, l'efficacia laconica del punto esclamativo! Dalla terra degli uomini liberi, ecco arrivare una lezione di libertà di pensiero”... Economisti, scienziati, parlamentari europei (che prima discutono se l'Inversionismo sia un'eccezione alla seconda legge della termodinamica, poi, esausti, passano a discutere animatamente sul tema del gelato moldavo) sono egualmente sbeffeggiati in questa satira acre, che mette presto sullo sfondo Kafka per prendere invece a modello la Modesta proposta (per impedire che i bambini della povera gente siano di peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli utili alla comunità) capolavoro satirico di Jonathan Swift, lo scrittore irlandese (creatore delle altrettanto satiriche Avventure di Gulliver) che nel 1729 discettava dei benefici economici e morali che si sarebbero ottenuti allevando i bambini degli irlandesi poveri fino all'età di un anno, per poi venderli ai ricchi inglesi a scopo alimentare. Temendo di non essere stato abbastanza chiaro, McEwan ribadisce ancora nell'appassionata Postfazione la sua avversione contro tutti i populismi, che oggi prosperano in tutti i continenti e in alcuni dei più potenti Paesi del mondo, fondati su “sfrenata irrazionalità, ostilità verso lo straniero, rifiuto di un'analisi seria della realtà, diffidenza nei confronti degli 'esperti', ribalda parzialità a favore della propria nazione, appassionata fiducia nelle soluzioni facili, nostalgia per certe forme di 'purezza' culturale, più un manipolo di politici senza scrupoli pronti a sfruttare tutte queste pulsioni”. Di nuovo, non vi fa suona un campanellino nella testa? Le righe finali della postfazione sono quasi profetiche: “Il populismo, ignaro della sua stessa ignoranza, tra farfugliamenti di sangue e suolo, assurdi principi nativistici e drammatica indifferenza al problema dei cambiamenti climatici, potrebbe in futuro evocare altri mostri, alcuni dei quali assai più violenti e nefasti della Brexit”. In attesa di questi nuovi mostri, è intanto difficile non notare come, di nuovo, in questi tempi di pandemia dilagante, populismo e negazionismo (come ad esempio negli Stati Uniti di Trump o nel Brasile di Bolsonaro) vadano a braccetto cantando allegramente e sfrontatamente i propri inni nazionalistici e trascinando tutti verso l'orlo dell'abisso. McEwan chiude con un doveroso appello alla speranza nella forza della ragione contro “lo spirito dello scarafaggio”. Ma, paradossalmente, con una punta forse di eccessivo ottimismo quando dice “se la ragione non apre gli occhi e non si decide a riprendere il sopravvento, potremmo doverci affidare al conforto della risata”. Per ora, in tempi di Covid, più che al conforto della risata dobbiamo affidarci allo sfogo del pianto, e l'unica speranza che ci è permessa è che ci bastino gli occhi per piangere. E così è finita.
Il commissario Montalbano non c'è più. Andrea Camilleri, già nel 2005, molti anni prima della propria scomparsa, aveva scritto l'ultima avventura del poliziotto più amato dagli italiani, l'aveva firmata e consegnata alla casa editrice Sellerio. Lo strano titolo, che da provvisorio poi diverrà definitivo, è Riccardino, che non solo trasgredisce alla regola generale dei titoli montalbaneschi, composti in genere da un sostantivo e da un complemento di specificazione (io avrei visto bene in questo caso un icastico La corona di sorci, che richiama un'immagine del libro, rievocata dall'infanzia di Montalbano e applicata al caso su cui sta investigando, ma espandibile alla rete di complicità che emerge nell'intrigo), ma è dedicato per di più a un personaggio che nel romanzo non può acquistare più di tanto spessore, dal momento che si manifesta brevemente solo come una voce al telefono per poi scomparire a sua volta subito dopo. L'accordo con l'editore, l'“amica del cuore” Elvira Sellerio, era che il romanzo sarebbe stato pubblicato solo dopo la morte dell'autore. Era già un addio definitivo, per quanto posticipato nel tempo: il proposito di Camilleri all'epoca (nel 2005 esce il nono romanzo della serie, cui si aggiungevano alcune raccolte di racconti e una dozzina di episodi trascritti per la televisione) era quello di non scrivere più libri dedicati al commissario, un proposito per fortuna non mantenuto visto che dopo “l'ultimo” Montalbano “l'Autore” (chi ha già letto Riccardino sa perché lo designo in questo modo) ha continuato a scrivere le sue avventure, a getto continuo, in un'amabile ma incoercibile coazione a ripetere, quasi che il personaggio continuasse a vivere di vita propria, a imporsi allo scrittore e obbligarlo alla scrittura quasi contro la sua volontà. Ben lungi dal dedicarsi negli ultimi anni della sua vita ai drammi storici e civili (spesso intrisi però, oltre che dal gusto del racconto e della rievocazione, da una sapida ironia che sconfinava a volte nella comicità pura in certi ibridi storico-romanzeschi), che costituiscono un altro filone della sua narrativa, Camilleri ha continuato a sviluppare e coltivare la personalità del suo protagonista e del teatro dei pupi che gli sta intorno in ben 18 romanzi, il doppio di quelli usciti prima della stesura del suo libro d'addio. Per molti romanzi abbiamo continuato così a seguire un Montalbano che diceva di essere un po' più stanco, un po' più acciaccato, un po' appesantito dal sentimento dell'età che avanza, ma in fondo sempre abilissimo a destreggiarsi in splendida forma sia tra le trame criminali che si trovava a dover sbrogliare, sia tra i tormentoni, spesso umoristici, che erano ormai per i lettori un irrinunciabile e gustoso condimento all'intrigo giallo-poliziesco. Parlo non a caso di teatro dei pupi e della straordinaria vitalità del personaggio (ricordo tra gli altri Sherlock Holmes e James Bond, che, malgrado alla volontà dei rispettivi autori, si ribellarono alla morte), perché proprio ai temi della “realtà” e della rappresentazione, e del rapporto tra scrittore e personaggi, Camilleri dedica il suo “ultimo” romanzo. Se tra le doti di un buon poliziotto per Camilleri c'è anche quella di saper “fare teatro” (e in Riccardino Montalbano dà in più occasioni sfoggio di questa sua innata abilità), man mano che si procede nella lettura è come se Camilleri allargasse l'inquadratura oltre il suo teatrino, o il suo set letterario, smontando le pareti intorno allo spazio scenico, aprendo il tendone che fino ad allora aveva nascosto il puparo, il manovratore delle sue marionette letterarie. In un ultimo gioco pirandelliano, Camilleri si prende il gusto e lo sfizio di mostrarsi nel ruolo di Autore che dialoga con i propri personaggi, o in quello del Creatore che interloquisce con le proprie creature; eppure nemmeno alla fine Camilleri si rassegna alla propria onnipotenza, all'arbitrio del dio che decide trame e destini; mentre il rapporto di solidarietà e di dialogo tra autore e personaggio si trasforma via via in un contraddittorio sempre più acceso e inconciliabile, in un ultimo gesto di umiltà lo scrittore lascia al proprio combattivo personaggio, irriducibile alla resa o all'accondiscendenza fino all'ultima pagina, l'ultima parola; anzi, l'ultima lettera, assecondando il cupio dissolvi senza vincitori né vinti che è - di nuovo - un grande finale coup de téâthre, ma ha nello stesso tempo una visionarietà che richiama il mondo dell'immagine e quindi, indirettamente, il mondo della televisione, che è il secondo (o terzo) mondo nel quale Montalbano esiste, si muove, indaga, vive. Perché il gioco di specchi allestito in Riccardino (ma di rispecchiamenti ce ne sono anche all'interno del romanzo, con i “quattro moschettieri” stretti in un patto letale e le quattro mogli coinvolte in un intrigo più grande di loro e delle loro voglie) si rifrange su diversi piani, e Montalbano si trova addirittura triplicato tra la “persona reale” che ispira le storie e le fa autorevolmente proprie, il personaggio letterario plasmato dall'Autore e infine quello televisivo, un altro Montalbano ancora, che rispetto agli altri due ha seguaci affezionati molto più numerosi (più spettatori che lettori, insomma); ha il privilegio della conoscenza a posteriori, senza i dubbi e le incertezze che possono affliggere gli “altri” Montalbano nel mentre che il racconto si compone e assume forma; e inoltre ha ormai preso possesso definitivo delle sembianze del personaggio, sostituendo sia l'immagine che se ne era fatta il suo autore stesso sia il ritratto immaginario che ogni lettore poteva disegnarsi con la propria fantasia. Camilleri nel romanzo si dice stanco, ma se la gode evidentemente un mondo a condurre il gioco metaletterario con il proprio amato personaggio; a pirandelleggiare ma nello stesso tempo a mettere in scena, sempre con la leggerezza dell'ironia, la sua vasta cultura; a riflettere sulla creazione letteraria ma anche a filosofeggiare sull'etica della caccia e dell'investigazione. Camilleri, già privo della vista, ascolta di nuovo in lettura il proprio romanzo segreto nel 2016. Lascia inalterata la trama, pur se connotata storicamente dal periodo berlusconiano – speriamo definitivamente superato - in cui è stata scritta, ma rimette invece mano al linguaggio del romanzo (in libreria si trova anche l'edizione speciale che riporta entrambe le versioni, quella del 2005 e quella del 2016). In effetti si nota fin dalle prime pagine come il “vigatese” della scrittura si sia fatto largo a spese dell'italiano e si sia reso ancora più stretto, più pervasivo, più evocativo. Un linguaggio ibrido, ispirato alla parlata siciliana, eppure frutto di un'invenzione che si è evoluta di romanzo in romanzo, con l'accondiscendenza e la complicità dei lettori, per trovare il suo definitivo compimento in questa riscrittura ultimativa e tardiva. Una sorta di arabescata torre di Babele linguistica, un'ardita architettura che prende forma e si erge un'ultima volta verso il cielo, prima di dissolversi insieme a chi l'ha creata e messa sulla pagina. Un po' come la Vigata che fa da sfondo ai romanzi del commissario, e che ha acquistato una vita propria anche in tanti altri romanzi e racconti che non lo vedono protagonista e ambientati in epoche diverse, una sorta di Macondo siciliana che da sfondo diventa mondo; e che poi letteralmente scompare, come tutto il resto - tranne la nostra nostalgia già sbocciata – in un'ultima pagina di romanzo. |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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