IL GRANDE PRATO di Roberto Grossi![]() Rovi, Lamiere, Fango, Plastica, Cemento, Fumo, Sangue, Ossa, Polvere, Formiche, Fuoco, Cenere. Sono i titoli dei dodici capitoli in cui è scandito Il grande prato, l’esordio in volume per Coconino Press – Fandango (aprile 2017) di Roberto Grossi. Sono gli elementi che disegnano immediatamente un paesaggio che è morale oltre che materiale ed estetico, simbolici e letterali nel medesimo tempo. Lo spunto non è dissimile da quello de La terra dei figli, di cui parlo in questo stesso sito: due fratelli senza padre (e senza madre), ridotti a una condizione quasi selvaggia, che devono sopravvivere in un ambiente dove la natura e gli uomini sembrano egualmente ostili. Ma mentre la novel di Gipi è ambientata in un prossimo futuro, dopo una catastrofe che ha fatto regredire l’umanità a uno stato primitivo, nel romanzo grafico di Grossi l’apocalisse è quella quotidiana e attuale delle nostre città. Il grande prato è ambientato alla periferia di una città innominata, dove i palazzi popolari, nati già fatiscenti, si affacciano su una natura residuale che ne è contaminata e inquinata a sua volta. I due bambini gemelli protagonisti vivono tra la schiuma della società, emarginati senza sapere di esserlo, dimenticati dalle istituzioni, irraggiungibili da qualunque welfare. Intorno a loro, un paesaggio umano fatto di miseria, rabbia, delinquenza. Spacciatori, anziani miserabili che frugano nella spazzatura, politici arroganti, razzisti che sfogano le frustrazioni nella violenza, uno zio inetto e fallito come unica figura parentale di riferimento. I due fratelli vivono la loro condizione in una specie di simbiosi allucinata, cinici per condizione, curiosi come lo sono per natura i bambini, avventurosi in un paese senza meraviglie. Grossi ne segue le avventure picaresche in una terra di nessuno che non è città né campagna, come dei moderni Huckleberry Finn e Tom Sawyer in un mondo corrotto e rabbiosamente disperato, sbavando qualche nota solo quando il suo discorso si fa più esplicitamente politico (gli unici personaggi positivi e accoglienti sono stranieri o zingari - e i gemelli non avrebbero mai usato l’aggettivo “squallido” per definire il palco da dove sbraita il politico Carloni). I due fratelli hanno facce segnate dai graffi e dallo sporco, occhi grigi senza pupille a guardare un mondo che è così e che loro non sanno possa essere altrimenti. Grossi usa più didascalie che dialoghi, quasi che i gemelli si esprimessero attraverso una telepatia simbiotica, e limita la sua tavolozza al bianco/nero (con un segno che a volta ricorda quello dark di Charles Burns) e ad una gamma scalare di grigi, che sbiadiscono in occasione di una scena notturna e onirica. Gli unici colori possibili, in un mondo dove il segno della primavera che arriva, se arriva, è dato dalle infiorescenze dei brandelli di plastica impigliati tra i rami lungo uno sporco fiume che porta verso un mare utopico che forse non c’è.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Dicembre 2019
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