NELLE SUE MANI. LE FOTOGRAFIE DI VIVIAN MAIER all'Arengario di Monza fino al 29 gennaioUltimissimi giorni per andare a vedere all’Arengario di Monza Nelle sue mani, la bella mostra dedicata a Vivian Maier, già prorogata al 29 gennaio. Chi è Vivian Maier? chiederanno alcuni di voi. Effettivamente fino a pochi anni fa non lo sapeva nessuno. Finché nel 2007 John Maloof, figlio di un rigattiere, comprò ad un’asta, alla cieca, per poche centinaia di dollari, gli scatoloni accumulati dentro un deposito self storage di Chicago, appartenenti ad una cliente che non pagava più l’affitto. Dentro quegli anonimi scatoloni c’era uno sterminato patrimonio fotografico. Si parla di 120.000 negativi, più di diecimila stampe, e inoltre filmini, superotto, registrazioni. Sono le opere di Vivian Maier, realizzate prevalentemente tra gli anni ’50 e gli anni ’70. Ma, di nuovo, chi è Vivian Maier? Una baby sitter, segaligna, scontrosa, riservata. Che durante e dopo il lavoro, fotografava. Probabilmente grazie all’eredità di una prozia francese, Vivian, anzi la signorina Maier, come pretendeva di essere chiamata, negando la propria confidenza a chiunque, ha girato il mondo, tra Nordamerica, Asia, Africa, Europa; ma le sue fotografie ritraggono soprattutto la vita dell’America degli anni ’50 e ’60, a New York e Chicago, dove visse per la maggior parte della sua vita lavorando appunto come tata presso alcune famiglie della città. E il fatto è che Vivian Maier è un’artista. Le sue foto sono bellissime, in grado di stare alla pari con quelle di molti dei più grandi fotografi del ‘900. Quando Maloof, e altri che come lui si sono resi conto del valore che avevano tra le mani, si mettono alla ricerca dell’autrice di quelle foto, la signorina Maier è ricoverata in ospedale. Morirà da lì a poco, senza sapere mai che il suo immane talento, tenuto sempre gelosamente segreto, sta per essere finalmente rivelato al mondo. Le foto che la Maier scattava quasi di nascosto, la maggior parte con una Rolleiflex a pozzetto, una macchina che si teneva all’altezza della pancia guardando dall’alto nel mirino posto sul lato superiore della camera, rivelano una capacità d’intuizione, una rapidità e una sicurezza di esecuzione, un occhio fantastico per l’inquadratura, una grande abilità tecnica di realizzazione e ritraggono un formidabile spaccato della vita americana di quegli anni. Fotografia di strada, ritratti fulminanti, aneddoti poetici o umoristici, scene di famiglia (ma le famiglie sono sempre quelle degli altri), indagine sulla vita quotidiana, compresa quella degli ultimi (con una sensibilità sociale, così come con un senso dell’umorismo in altri scatti, che si rivela solo nelle sue fotografie, senza trovare riscontro nella sua vita schiva, solitaria, selvatica). Le foto del periodo Rolleiflex, in formato quadrato, sono in un bianco e nero stupendo; gli anni ’70 portano altri formati e il colore, in cui la capacità di cogliere i contrasti della Maier si attenua; negli anni ’80 il flusso delle fotografie apparentemente si arresta, sommando al silenzio della sua voce quello della sua visione. Apparentemente assente dalla vita, priva di legami e affetti, ridotta a occhio e macchina, la Maier paradossalmente è spesso presente nelle sue foto. Un’ombra proiettata sul terreno, un riflesso in un vetro (nella cui aura far affiorare magari qualcosa al di là, ancora una volta la vita degli altri), ma soprattutto immagini rimandate da uno o più specchi, che a volte sdoppiano e moltiplicano la sua figura in una fuga vertiginosa: una sorta di autoindagine edipica da parte di una donna che ha scelto di identificare la propria essenza con la capacità di guardare e di vedere. Come dice una citazione della fotografa Lisette Model riportata in mostra “La macchina fotografica è uno strumento per fare scoperte: non fotografiamo solo ciò che conosciamo, ma anche ciò che non conosciamo”. Gli scatti dei suoi soggetti inoltre sono quasi sempre unici, senza prove e senza multipli: con risultati spesso incontrovertibili, definitivi; quella che sembra una straordinaria combinazione tra fortuna e infallibile istinto. Indubbiamente un surplus di fascino è conferito all’opera della Maier dallo iato intercorso tra il momento della loro realizzazione e quello della loro inedita visione: le foto nascono immediatamente come storiche, come temporalmente esotiche, più che vintage già inquadrate in una dimensione classica. Di questo patrimonio iconografico gigantesco, in buona parte ancora da esplorare, ma già esposto in mostre e musei, l’Arengario offre una piccola selezione (organizzata in sezioni: autoritratti, bambini, foto di strada, ritratti, scatti a colori, ecc.), ma sufficiente a rendere l’idea del suo talento. Il biglietto d’entrata, a 9 euro, include anche un’audioguida utile anche a contestualizzare l’opera dell’autodidatta ma non incolta Maier nella storia della fotografia; molto interessante anche il documentario della BBC Who took Nanny’s Pictures?, che però si viene sadicamente costretti a guardare all’impiedi (dura una settantina di minuti!). Sulla vicenda umana e artistica della Maier lo stesso John Maloof ha girato un altro bel documentario uscito anche in sala (a Milano si è visto più volte al Beltrade), intitolato significativamente Alla ricerca di Vivian Maier. Anche se la Maier, ormai, è definitivamente introvabile; per fortuna ci rimangono le sue fotografie.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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