IL FIGLIO di Florian Zeller, regia di Piero Maccarinelli, produzione Il Parioli - Fondazione Teatro della ToscanaFlorian Zeller, uno dei più noti e acclamati drammaturghi francesi, è diventato noto anche ai non appassionati di teatro soprattutto grazie alla sua trilogia sulla famiglia, e in particolare con Il padre e il figlio, da cui sono stati tratti due film diretti dallo stesso autore, e che hanno fatto seguito al primo elemento del trittico, La madre.
Il primo film, Il padre, dove Zeller ha avuto la fortuna e l’abilità di dirigere due mostri sacri come Anthony Hopkins e Olivia Colman, ha avuto consensi pressoché unanimi e a volte superlativi, mentre più tiepida è stata l’accoglienza per Il figlio, che pure ha fruttato alcune candidature al protagonista Hugh Jackman. Il Teatro Franco Parenti di Milano ospita ora la pièce, nella produzione de Il Parioli/Fondazione Toscana Teatro, per la regia di Piero Maccarinelli. Uscito dai labirinti mentali in cui si aveva imprigionato madri e padri nei lavori precedenti (la trilogia si potrebbe definire dell'abbandono, oltre che della famiglia: l'abbandono dei figli nella prima opera, quello della memoria e della lucidità mentale nella seconda, quello di cui si sente vittima Nicola nella terza), Zeller conferisce a Il figlio uno sviluppo più lineare, pur con una fondamentale parentesi onirica. Il punto d'inizio vede l'aprirsi (o meglio il riaprirsi) di una crisi: Piero, che ha lasciato la moglie Anna e ha iniziato una relazione con la più giovane Sofia, dalla quale ha avuto un figlio, si trova ad affrontare la profonda situazione di disagio di Nicola, il figlio adolescente avuto dalla prima moglie. Il ragazzo, che ha smesso di nascosto di frequentare il liceo e si procura piccole ferite per sfogare la propria sofferenza psicologica, chiede di essere ospitato da Piero e Sofia. Piero accetta, malgrado la riluttanza della nuova compagna, e si sforza di aiutare il figlio, cercando di tranquillizzarlo e di indurlo a frequentare una nuova scuola, cercando di fargli superare la sensazione di abbandono, di tradimento, di estraneità e il risentimento nei propri confronti. Ma presto appare chiaro che Nicola si sente un corpo estraneo dovunque si trovi, in casa della madre abbandonata, in quella del padre e nella sua nuova vita, nelle scuole che non vuole e non gli interessa frequentare, tra i coetanei che gli sembrano futili e superficiali. Le cose sembrano migliorare, ma non è così. La situazione diventa talmente grave da richiedere un'ospedalizzazione del ragazzo e mette i genitori di fronte a scelte laceranti. Partendo da una situazione apparentemente banale – il ragazzo che vuole andare a stare con il padre e gli assestamenti famigliari e psicologici che la situazione comporta – il testo procede facendo gradualmente crescere la tensione, coinvolgendo psicologicamente ed emotivamente lo spettatore, cui è facile identificarsi con i personaggi sulla scena. Zeller fa scendere i propri personaggi lungo una china drammatica, disseminata di punti di arresto e di uscita ma destinata alla frustrazione, alzando progressivamente i toni ma senza forzature, con una grande precisione e raffinatezza di scrittura drammaturgica. Malgrado risuoni nella mente dello spettatore la celebre “regola della pistola” enunciata da Cecov (se compare una pistola nel primo atto, nel terzo atto quella pistola sparerà), l'esito della vicenda rimane incerto sino agli ultimi minuti della rappresentazione. La forza del testo è così potente da funzionare anche se nella messa in scena non tutto sembra (letteralmente) oliato a dovere; un po' meccanici (e qualche volta difficoltosi) i cambi di scena che grazie allo scorrimento di pannelli alterna gli ambienti domestici della casa materna e paterna, caratterizzati da pochissimi elementi di arredo e con pannelli con finestre cieche luminose sullo sfondo, che cambiano colore forse a segnalare le diverse temperature emotive delle scene; così come suonano un po' ripetitivi gli stacchi musicali tra una scena e l'altra. Mi è parso inoltre di cogliere una sorta di iato tra gli stili recitativi dei quattro protagonisti sulla scena: più naturalistico (e convincente) quello di Giulio Pranno (cui spettano i toni più alti e che ha alle spalle anche alcune notevoli esperienze cinematografiche, rivelatosi di prepotenza come una nuova promessa di talento prima nel ruolo di un adolescente problematico in Tutto il mio folle amore e poi ancora in Comedians, entrambi diretti da Gabriele Salvatores) e di Marta Gastini, molto brava a gestire i mezzi toni richiesti al personaggio; più convenzionalmente “teatrale” quella dei veterani Cesare Bocci (noto al grande pubblico televisivo soprattutto per il ruolo di Mimì Augello nella fiction Il commissario Montalbano) e di Galatea Ranzi, nel ruolo dei genitori (sempre più) angosciati. Ma, come dicevo, lo spettacolo funziona egregiamente malgrado i possibili difetti: la sala grande del Franco Parenti era strapiena e il pubblico alla fine è convinto ed emozionato, impegnato all'uscita a scambiarsi commenti e magari anche esperienze vissute.
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CINEMA SPECULATION di Quentin TarantinoParlo in ritardo di Cinema Speculation di Quentin Tarantino, uscito a fine 2022, ma non è grave, perché Trantino non mette certo l'attualità, neppure quella cinematografica, al centro delle sue speculazioni. Anche se il libro ci dice molto del suo cinema e della sua “poetica”, attraverso il racconto dei suoi gusti, le sue passioni, le sue idiosincrasie e la sua storia di spettatore (l'etimologia latina di speculation porta d'altra parte anche al concetto di specchio), le sue riflessioni rimangono saldamente ancorate ad un fulcro temporale che è sostanzialmente il cinema degli anni '70, che per Tarantino si può dire costituisca quella che per Freud era la scena primaria, l'accesso traumatico al mondo degli adulti senza avere ancora gli strumenti per interpretarlo e decodificarlo. Gli anni '70 sono poi gli anni dell'infanzia di Quentin, che impara a frequentare e ad amare il cinema attraverso sua madre e i suoi compagni, amici ed amiche, coinquiline e coinquilini, ma sono anche anni di profondo rinnovamento, anzi si potrebbe dire rivoluzione, per il cinema mondiale e per quello americano in particolare. In quel periodo (seguito secondo Tarantino dalla normalizzazione e dall'infantilizzazione della produzione cinematografica nel corso degli anni '80 – e ne sappiamo qualcosa anche noi nel panorama anno), il cinema va oltre i limiti che fin lì si era imposto o che gli erano stati imposti, soprattutto nel campo della rappresentazione del sesso e della violenza, che raggiunge livelli di messa in scena esplicita mai toccati prima, almeno dal cinema mainstream. Nei film irrompono improvvisamente e massicciamente parolacce, ambienti sordidi, droga, prostituzione; l'horror genera le efferatezze dello slasher, il sottogenere revenge movie partorisce il sotto-sottogenere che il critico William Margold definisce revengeamatics, nascono il cinema a luci rosse, la blaxploitation (il cinema di genere esplicitamente concepito per il pubblico afroamericano); ma anche lo spettatore comune non in cerca di emozioni forti si trova davanti a opere scioccanti come Taxi Driver, Un tranquillo week-end di paura o Il mucchio selvaggio, firmati da autori riconosciuti e prodotti dai grandi studios, mentre la New Hollywood ribalta i criteri estetici ed etici del cinema classico. Figuriamoci l'effetto che l'esposizione spregiudicata a dosi inusitate di sesso e soprattutto di violenza e di brutalità, fin da bambino, dovette produrre sul piccolo Quentin, spesso l'unico non adulto a trovarsi al cinema a vedere quei film. Ma insomma, gli piacque. E molto. Atterrito o sconvolto che potesse essere - anche se confessa che come per molti bambini di quella generazione lo shock più potente fu la morte della mamma di Bambi nel film Disney -, Quentin era affascinato, turbato, divertito. I suoi gusti ricevono un imprinting indelebile e vengono orientati da tendenze sadiche, spingendo Quentin a diventare un fan avido e sfegatato di cinema soprattutto di genere, incuriosito soprattutto dai film che avevano la fama di essere estremi e violenti. Sia il cinema che il suo spettatore sembrano impegnati in una sfida, ciascuno impegnato a misurarsi e a superare i rispettivi limiti, del rappresentabile e del guardabile. Tutto questo è evidentissimo a chiunque abbia visto i suoi film: scorrendo la sua filmografia si direbbe che Tarantino sia sempre alla ricerca dei cattivi più spregevoli che esistano - malavitosi, nazisti, schiavisti, satanisti, ecc. - per giustificare ipocritamente l'orrore suscitato dalla violenza che questi esercitano sopra le proprie vittime, e poi del godimento (quasi) assolto dal senso di colpa provato dallo spettatore quando alla fine la stessa violenza si ritorce contro di loro. Ora, in Cinema Speculation, Tarantino assembla alcuni suoi scritti incentrati su quel periodo, componendo un affresco che è insieme un romanzo di formazione, un'educazione sentimentale e un'autoanalisi da una parte, e un libro di critica cinematografica, e un saggio sulla nuova Hollywood vista da un appassionato. Quello che rende appassionante e divertente il libro è senz'altro la commistione tra il piano personale (Quentin ci informa sul perché per anni non ha leccato la fica alle ragazze, tanto per citare uno dei deragliamenti più clamorosi dal percorso saggistico) e quello più squisitamente cinematografico. Lo sguardo che Quentin getta su film, su autori, su vicende e periodi cinematografici, è insieme quello di un bambino scioccato, stupefatto e affascinato; quello di uno spettatore vorace, onnivoro e ossessivo (Quentin ci informa su dove e quando ha visto i film di cui parla, a quali altri film erano abbinati se si trattava di un doppio o triplo spettacolo, spesso con chi li ha visti e su come ha reagito il pubblico in sala; tutto meticolosamente e ossessivamente annotato); quello di un giovane critico appassionato (spassoso il racconto in cui, recatosi ad intervistare un regista munito di una sola audiocassetta, visto il prolungarsi della conversazione e per non fare brutta figura, rimette nel registratore la stessa cassetta, sovraincidendo tutta la prima parte dell'intervista che quindi è andata perduta); perfino quello del videonoleggiatore (con l'ottica quindi dell'esercente che tasta in diretta il polso del gradimento del pubblico); quello di uno sceneggiatore e di regista di successo planetario; quello di un professionista del cinema profondamente inserito in un ambiente di cui conosce o indaga appassionatamente vicende e retroscena. I suoi scritti prendono in esame spesso singoli film, ma inquadrandoli nella produzione precedente e successiva del regista, legandoli al clima cinematografico dell'epoca e alla temperie legata alle politiche produttive (o tout court sociali e politiche), entrando nei dettagli della produzione del film, della stesura delle sceneggiature e del casting.
Un tema ricorrente è quello del passaggio dalla sceneggiatura al film, che spesso comporta cambiamenti e adattamenti, a volte migliorativi, a volte peggiorativi e a volte entrambe le cose rispetto allo script iniziale, con particolare riguardo alle sceneggiature di Paul Schrader (la cui carriera negli anni '70 rappresenta una presenza costante e trasversale ricorrente nel libro), nello specifico per Taxi Driver e Rolling Thunder (un revenge movie da noi pressoché sconosciuto). In un cinema pensato da maschi per i maschi, scritto, diretto ed interpretato da maschi, sono ovviamente – con rarissime e parziali eccezioni, come la Ali McGraw di Getaway! - gli attori uomini, icone e modelli di virilità, a dominare la rassegna critica di Tarantino: come lo Steve McQueen di Bullit o di Getaway!, o il Clint Eastwood de L'ispettore Callaghan o di Fuga da Alcatraz, o ancora il Burt Reynolds coprotagonista di Un tranquillo weekend di paura. Un tema che emerge con insolito rilievo è quello della presenza dei personaggi neri nei film (una lunga trattazione è riservata ai motivi per cui i papponi neri della sceneggiatura di Taxi Driver si trasformino in bianchi - offrendo ad Harvey Keitel la possibilità di farsi notare nel ruolo di Sport). Ma Tarantino non si limita a dichiarare le sue affinità con registi e sceneggiatori; un capitolo intero – che porta con sé una carrellata critica dei critici cinematografici, dove Quentin approfitta anche per togliersi qualche sassolino dalla scarpa facendo nomi e cognomi - è infatti dedicato a Kevin Thomas, critico cinematografico in seconda del Los Angeles Times, alfiere leale ed entusiasta del cinema di genere, spesso disprezzato dalla critica più paludata, con il quale il giovane Quentin sente una vera e propria fratellanza spirituale, pur non conoscendolo di persona (almeno fino alla premiazione di Pulp Fiction da parte dell'associazione dei critici di L.A.). Un capitolo intero in appendice, che ha un rapporto indiretto con il resto della trattazione, riguarda il rapporto del ragazzo Quentin con Floyd, un adulto nero amico della madre e delle sue coinquiline, con cui va al cinema, discute di film, grazie al quale si appassiona alla blaxploitation e di cui legge un paio di sceneggiature, mai realizzate, scritte dall'uomo. Un personaggio che eserciterà un imprinting decisivo sul futuro del ragazzo, carico di affettività, e che dice qualcosa anche della presenza di eroi neri (Jules di Pulp Fiction, Jackie Brown, Django, il Maggiore di Hateful Eight). Poco o nulla incline invece alla rappresentazione del sesso nel proprio cinema, Tarantino si sofferma sul tema della violenza omosessuale, da Un tranquillo week-end di paura ai film carcerari. Per quanto ci riguarda, Tarantino cita spesso anche il cinema italiano (forse il preferito, insieme a certo cinema giapponese), che effettivamente contribuì non poco al rinnovamento dei generi, nel senso prediletto dal regista, come con gli spaghetti western, che rivoluziona e stravolge il classico western hollywoodiano, o con gli horror di Dario Argento o di Mario Bava, precursori che spingevano molto più in là i limiti della rappresentazione della violenza esplicita. Devo dire che il mio piacere nel leggere il libro deriva anche dal fatto di essere quasi coetaneo del regista sceneggiatore, e di aver vissuto anch'io in prima persona i turbamenti dello giovane spettatore che si trovava al cospetto di opere sconvolgenti come Taxi Driver o Un tranquillo week-end di paura. Tarantino poi non ha timori reverenziali nei confronti di nessuno (compresi maestri del cinema come Robert Altman) e i suoi giudizi sono pertanto lapidari, brutali, coloriti e definitivi, divertenti anche quando sono discutibili: non mancano quindi attrici “cagne”, attori che fanno “schifo”, film che sono “cagate”, o affermazioni spericolate come quella che designa Non aprite quella porta, horror peraltro ammirevole ed epocale, come "uno dei più grandi film di tutti i tempi (...) uno dei pochi film perfetti che siano mai stati realizzati"... ATTI OSCENI - I tre processi di Oscar Wilde |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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