DANILO REA: omaggio a Fabrizio De AndrèIl cortile dell’Università statale durante il Fuori Salone sembrava un po’ un regno delle fiabe, con i cortili invasi da case-cestino delle merende, gorilla rosa muniti di torce elettriche che guidavano una schiera di coniglietti altrettanto rosa, piramidi specchianti che racchiudevano piramidi inverse di schermi con alberi di ciliegio e petali in volo, cortine di vetro-plastica rosata che velavano i portici del piano superiore, container colorati che racchiudevano i sogni di casa dei bambini terremotati di Haiti, portoni incorniciati di erba e fiori, alveari di legno, e così via. Intorno risuonano le lingue del mondo. Con il calare del buio e l’attivarsi dell’illuminazione, tutto diventa ancora più magico e fiabesco. Tra la luce del tramonto e il crepuscolo, nell’Aula magna della sede universitaria si è tenuto un bellissimo concerto offerto dal Fuori Salone. Danilo Rea, solo al pianoforte, ha lasciato da parte Bach, frequentato recentemente insieme al musicista iraniano Ramin Bahrami, e ha dedicato la serata a uno struggente omaggio a Fabrizio De André. Ci si può domandare però cos’abbia a che fare un concerto di musica pop-jazz con la settimana del design. Ma forse una risposta c’è. Il design è l’arte di dare una nuova forma a oggetti conosciuti e dalla forma consunta e abusata. L’oggetto è sempre quello, ma reinventato, concepito con nuovi materiali, rinnovato nel suo aspetto, adeguato ai nuovi tempi e a volte anticipatore di un nuovo immaginario, di una nuova sensibilità verso forme, materiali e colori ancora inediti. E’ lo stesso oggetto e contemporaneamente è un oggetto nuovo, ed è guardato con occhi nuovi. Danilo Rea domenica sera ha fatto la stessa cosa con la musica del ‘900: ha preso melodie note, mille volte ascoltate, e ha dato loro nuove forme, nuovi colori, nuove sfumature. Come l’oggetto di design mantiene la stessa funzione dell’oggetto tradizionale, così la musica rielaborata da Rea mantiene l’anima dell’originale, ma diventa nello stesso tempo un’altra cosa. L’effetto è perturbante, in senso freudiano, e affascinante: riconosciamo qualcosa di noto e di famigliare, ma nello stesso tempo ascoltiamo della musica inaudita, dai percorsi imprevedibili. Ogni singolo brano del concerto si sviluppa infatti lungo linee inaspettate, trasformandosi in medley labirintici dove De Andrè è sì il fulcro, ma anche il punto di partenza verso continue esplorazioni. E’ poi il De André più antico, più classico, più amato ma anche più ascoltato, quello dei singoli e poi dei primissimi album degli anni ’60 pubblicati dalla Karim e dalla Bluebell, quello de La canzone di Marinella, di Amore che vieni amore che vai, de La ballata dell’amore cieco, di Bocca di rosa, di Inverno, di Carlo Martello o della Canzone dell’amore perduto. Ma De Andrè appare, scompare, sprofonda e riemerge, mescolandosi a molte altre melodie. Nell’impasto di Rea si può trovare di tutto, dalla musica classica a quella operistica con un’aria della Carmen, da Tenco ad Endrigo, dalla canzone dello spazzacamino di Mary Poppins a Marcondirondello, da Besame mucho a Over the Rainbow fino ai Led Zeppelin di Stairway to Heaven, in un andirivieni continuo, spiazzante e ammaliante. Non c’è il tempo per adagiarsi su una melodia, l’improvvisazione cambia le carte in tavola, un altro tema sovviene e prende il posto del precedente. A volte sembra di intuire un’assonanza tra i temi che si susseguono, un’atmosfera sonora, un’affinità melodica, un timbro che fa eco, a volte il percorso sembra dettato dal capriccio e dall’estro del musicista. L’abilità virtuosistica (Rea è stato talvolta avvicinato a Keith Jarret) si unisce a una grande sensibilità romantica, che riempie di atmosfera qualsiasi brano affrontato, dove l’improvvisazione del jazz si unisce alla profondità della musica classica. E quando De Andrè ritorna, c’è ancora tempo per sentire i brividi provocati dall’aleggiare nella memoria dei suoi versi così spudoratamente veri, così dolorosamente profondi, così definitivi. Alla fine il pubblico, in platea e in balconata, è in piedi ad applaudire e a salutare la fine del concerto. Di nuovo fuori, le luci artificiali illuminano di nuovi colori le architetture quattrocentesche e i loggiati barocchi, le sperimentazioni azzardate e i sogni delle forme future.
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#USCITA - Il progetto fotografico di Irene Vitrano in mostra allo Spazio Contemporaneo di Sesto San Giovanni fino al 29 aprile.Irene Vitrano, di origine palermitana ma legnanese d’adozione, è una giovane fotografa che per il suo progetto #Uscita ha scelto la forma, e la finalità, del storytelling. Le sue immagini, seriali e apparentemente ripetitive, vogliono infatti raccontare di persone, di vite; vogliono appunto raccontare delle storie. Uno scantinato anonimo dalle grezze pareti e dal pavimento di grigio cemento, una poltrona di pelle rossa, uno o più personaggi solitamente seduti, in posa. Tutto è apparentemente immobile, eppure il movimento e già insito nel titolo, ribadito in ogni foto da un cartello sulla parete. Movimento, cambiamento, uscita da una situazione di immobilità o di stallo, ma anche da una situazione di comfort. I personaggi di Irene, ma sarebbe più corretto dire le persone, escono da un’età della vita, da un campo di gioco o da una pista da ballo, da una malattia crudele o addirittura si apprestano ad uscire dalla vita stessa. Ma a tutti Irene ha concesso una frazione di secondo - e un'immagine duratura - di celebrità, un'iconografia istantanea della personalità. Se il progetto è improntato al rispetto delle persone ritratte, e a un sentimento empatico nei loro confronti e nei confronti delle rispettive individualità e differenze, aleggia, forse a causa dell’ambientazione e del setting, un sentimento di vanitas vanitatum, dove conta quello che si vede - le facce, i vestiti, gli oggetti, gli animali perfino - ma altrettanto contano le cose che non si vedono: il passato e il presente raccolti nel nero del buio che incombe ai bordi della foto, i fantasmi, le illusioni e l'inconscio che aleggiano sotto il cono di luce bianca, pronti a dileguarsi o a divorare l'immagine, in una dimensione dove a fuggire, e a indicare la via d'uscita, malgrado la fissità consolatoria della fotografia, è sempre il Tempo. DELITTO E CASTIGO di Fedor Dostoevskij, adattamento e regia di Konstantin BogomolovIl regista russo Konstantin Bogomolov è tanto acclamato quanto contestato. I teatri se lo contendono, il pubblico accorre anche attirato dalle voci di scandalo. Bogomolov è provocatorio, irriverente, dissacrante. Stavolta a fare le spese delle sue impudenti riletture è Delitto e castigo di Dostoevskij, anche se taluni spettatori (o non spettatori) si sono accaniti in particolare sui simboli e le situazioni di carattere religioso presenti nello spettacolo, chiedendone addirittura la censura e protestando contro lo sperpero di denaro pubblico (da parte della produzione di Emilia Romagna Teatro Fondazione). La messa in scena di Delitto e castigo è attualizzata in una scenografia tra modernismo anni ’60 e contemporaneità, tra divani e monitor, anche se l’onomastica dei nomi, che rimangono quelli del romanzo russo, crea uno strano effetto di straniamento. Succede che Raskòl'nikov diventi un ragazzo di colore con le movenze da rapper. Sua madre e sua sorella, anch’esse con la faccia bistrata di nero, sono abbigliate con costumi tra l’Africa e il Brasile. Insieme, ballano al ritmo de La Bomba. La strozzina uccisa da Raskòl'nikov è un’anziana sbrigativamente trucidata dopo essere stata sottoposta a un’irrumatio da parte del negro. Lizaveta è un’handiccapata e viene uccisa anche lei. Poi Raskòl'nikov annega un neonato in un vaso da fiori. Il giudice istruttore è un omosessuale che a volte compare in divisa, a volte in vestaglia e calzini. Compaiono dei manichini, i monitor ogni tanto si accendono, senza alcun costrutto; un grande crocifisso di sesso ambiguo scende dall’alto (deus ex machina), Sonja gli si prostra davanti, culo rivolto al pubblico, con la minigonna che gli sale fino alle natiche. I negri sanno di Nutella, le negre giulive fanno la spesa all’Ovs. Ogni tanto c’è una fellatio simulata e sonorizzata al microfono, ogni tanto arrivano ansimi e gemiti di amplessi fuori scena. E’ la società di oggi? Quella in cui chiedersi se sia giusto uccidere, non è più, come afferma il regista, così importante? Il testo si frantuma, si spezza, si disperde. Si svilisce. Qualcuno esce dal teatro, scortati dalle maschere, forse preavvertite della possibilità. Qualcuno borbotta. Eppure c’è del buono. Si chiama Dostoevskij. Quello che ho raccontato prima si chiamava Bogomolov. Fuffa fastidiosa, al di sotto della quale ogni tanto trapela il testo. Con la sua forza disperata, definitiva. Con l’umanità andata a cercare negli stati e nelle situazioni più infime, brutali, avvilenti, degradanti. Tra la violenza cieca, il delitto, l’abbrutimento, la degradazione, il sacrificio di se stessi. In questi squarci si capisce che gli attori sarebbero anche bravi. Il monologo di Enzo Vetrano nella parte dell’ubriacone Marmeladov - che lascia che la sua giovanissima figlia si prostituisca sacrificando se stessa per cercare di mantenere la sua disgraziata famiglia - nella sua disarmante, semplice, crudele sincerità è probabilmente il momento più intenso e toccante dell’intero spettacolo. Senza pompini, senza borse del supermercato, senza inutili videocamere puntate sul nulla. ICONS - Fotografie di STEVE MccURRY |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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