JAZZMI 2022E anche JAZZMI 2022 è finito, lasciandosi dietro un inebriante profumo di jazz diffuso per tutta la città di Milano e dintorni. Un festival pazzesco, con 200 eventi, 500 musicisti, 80 location, 50.000 presenze; e con concerti, incontri con gli artisti, presentazioni, laboratori per bambini, mostre, proiezioni e davvero chi più ne ha più ne metta, con tantissimi eventi anche gratuiti. Per noi JazzMi è un’occasione per scoprire ogni anno posti nuovi di Milano (e quest’anno anche dell’hinterland), confermandoci che anche dopo la maledetta pandemia è e rimane una città viva, vivace, inesauribile, piena di energia e di voglia di fare. Noi ci siamo mossi un po’ a caso, da rabdomanti curiosi ma profani. Tante le cose che ci sarebbe piaciuto vedere e ascoltare, ma bisogna accontentarsi. Provo a raccontare qui, a futura memoria - soprattutto mia -, quello che abbiamo visto e ascoltato in sei giorni di tour de force. Siamo partiti dalla musica portata nei centri commerciali, con l’evidente intenzione di intercettare anche pubblico casuale e non necessariamente interessato al genere. Martedì 4 al Bicocca Village si sono succeduti tre gruppi, in vari punti del centro commerciale. La simpatica brass band dei FAN FATH AL (capito il gioco di parole?) intrattiene il pubblico all’aperto con melodie mediterranee che spaziano dai Balcani alla Spagna, passando per la Napoli di Carosone; poi ci accompagna camminando a suon di musica al primo piano del Village, fino alla postazione degli ASANTE SANA, con i quali, prima di mettersi tra il pubblico ad ascoltare i colleghi, improvvisano una jam session sul primo brano. Il nome del gruppo è una citazione in swahili dal film Il re leone; sono in tre (la seconda cantante è assente) e propongono in chiave jazzata un variegato repertorio che va appunto dalle canzoni della Disney (Lo stretto indispensabile secondo l’orso Baloo) alla canzone d’autore italiana (da Capossela e Daniele), al pop internazionale (da Morcheeba a Britney Spears), fino a canzoni goliardiche spagnole o canzoni sulla Resistenza. Clod Fuga, alla voce e chitarra, invoca scherzosamente un po’ di grappa e la generosità degli spettatori gliene recapita quattro bicchieri. Ci si sposta al piano terra per ascoltare un terzo gruppo che scherza col proprio nome, i FRANK SINUTRE, che propongono sonorità elettroniche (prodotte da strumenti di loro invenzione), a mio parere abbastanza lontane dal jazz, sullo sfondo di uno scherma che rimanda immagini colorate ed astratte. Di nuovo un nome che può indurre in equivoco (soprattutto sull’orario d’inizio dello spettacolo) per i 3.00 A.M., che si esibiscono mercoledì 5 davanti ad un pubblico ristretto al Red Bistrot del centro commerciale di Tre Torri. Atmosfera freddina (il cameriere che viene a servirci non conosce né il Cointreau né il Gran Marner) che Federico De Zottis, sassofonista, leader e compositore del gruppo, non riesce a riscaldare creando empatia con il pubblico. Composizioni originali di fattura non banale per il quartetto, di cui fa parte anche Mirko Boles, contabbassista che abbiamo già conosciuto e apprezzato in altre occasioni nel sulfureo Cosimo & The Hot Coals. Chiacchierando scopriamo che domani si esibirà all’Ostello Bello con un gruppo di hot jazz; così decidiamo di dedicare la nostra serata non impegnata da JazzMi per andare a sentire… un concerto jazz. Infatti giovedì 6 siamo ad ascoltare il sestetto della GRAN MILAN DIXIELAND SOCIETY, con un repertorio proveniente in gran parte dalla New Orleans degli anni ‘20-30. Tecnicamente da rifinire, anche e soprattutto nella parte vocale, ma l’energia sprizza e rimbalza tra le pareti del sotterraneo dell’ostello. Il pubblico gradisce, molto, e presto il locale si trasforma in una giovane e simpatica (per citare lo storico locale milanese di Enzo Jannacci) bolgia umana che balla e canta musiche di cent’anni fa. I musicisti scendono tra il pubblico in un’atmosfera piacevolmente infiammata, poi vengono raggiunti sul palco dai compagni del loro batterista, che è anche il percussionista dei Fan Fath Al, e da qualcuno della Lazy Sloths Jazz Band. Casino totale (se dobbiamo andare di citazioni, questo è un titolo di Izzo), bello come un ostello. Venerdì 7 si torna a JazzMi in un ambiente molto più ortodosso, con l’esibizione del trio di ARVISHAI COHEN al teatro della Triennale. Trombettista di origine israeliana, poi trasferito a New York, Cohen rivela nelle sue composizioni forti e dirette ispirazioni davisiane. Il trio esegue di filato tutto il loro album Naked Truth, con composizioni ora più lunari e rarefatte, ora più tese, e concludono con la rielaborazione di un concerto per piano di Ravel. Sabato 8 abbiamo un doppio appuntamento e un posto nuovo da scoprire, il Magnete, nuovo centro culturale incuneato tra i nuovi e un po’ asettici spazi residenziali del quartiere Adriano. La sala da concerto è uno spazio nuovo ma piuttosto disadorno; però a riempirlo di luci, suoni, calore ed energia (fin troppo: forse il volume sonoro doveva essere moderato in proporzione all’ambiente) ci pensano i SOUL CIRCUS: sei musicisti per il muro del suono e quattro vistose vocalist-ballerine sul fronte del palco, come una versione delle Supremes aggiornate ai tempi. Neo-soul e fascino vintage, la gioia e la forza della musica; in sala sono vietate le sedie: bisogna muoversi e ballare. Ci si ricompone in Triennale con un after concert (alle 23) di KEYON HARROLD. Anche Harrold, come Cohen, viene da New York e ha Miles Davis come nume tutelare (è stato lui ad eseguire i pezzi di Davis nel film Miles Ahead di Don Cheadle): ma il suono è più potente e la ritmica più pressante, con gli ottimi Charles Haynes alla batteria e Dan Winshall al basso. Completano il quintetto altri due virtuosi come Jahari Stampley al piano e Andrew Renfree alla chitarra. Harrold parte laconico, poi si scalda, si scioglie, ci racconta un po’ della sua vita, canta e ci lascia facendoci cantare con lui un’ipnotica ninna nanna (dopo aver citato poco prima un’altra famosa lullaby come God Bless the Child) e con un doveroso (visti i tempi) auspicio di peace and love.
Particolarissimo l’appuntamento pomeridiano di domenica 9, un po’ spiazzante sia per l’ambiente che per la proposta. Prima della proiezione di Respect, il biopic un po’ deludente dedicato alla figura carismatica di Aretha Franklin uscito lo scorso anno, si esibisce infatti nella sala spettacolo Medicinema dell’Ospedale Niguarda la IN BAND, dove In sta per in-clusione, in-tegrazione, ecc. Il gruppo infatti nasce dai laboratori musicali condotti dall’associazione AllegroModerato con persone affette da disabilità fisiche e psichiche anche gravi. Accompagnati dai loro insegnanti (che raddoppiano e sostengono alcuni strumenti, ma senza assolutamente prevaricare i loro allievi), il gruppo propone un repertorio vario che va dal medley con i temi del Pinocchio televisivo alla Mona Lisa di Graziani, fino a composizioni di Pastorius o di Mingus. Pubblico misto, entusiasta, emozionato e commosso. Altra location inedita per l’esibizione in serata del quartetto RAGONESE/TAVOLAZZI/GIORGI, nel nuovissimo auditorium di Carugate, praticamente testato per la prima volta dal concerto di JazzMi. I musicisti sono quattro ma i nomi in cartellone solo tre, perché i Ragonese Pepe e Pancho, trombettista e pianista, che formano un sodalizio con il batterista Giorgi, sono fratelli e portano quindi lo stesso cognome. Quasi tutti brani originali, e di nuovo la tromba in primo piano; ma questa volta il nume tutelare sembra Baker, con Pepe che cerca di emulare l’indimenticabile e inimitabile Chet alternando voce e tromba in un paio di brani. Dà ulteriore lustro al gruppo la presenza in questa occasione di Ares Tavolazzi al contrabbasso, con alle spalle più di 50 anni di carriera, un’infinità di esperienza, di esperienze e di prestigiose collaborazioni. E’ lunedì. Guardiamo il treno del jazz che si allontana, e aspettiamo il prossimo.
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Anche quest'anno Jazzmi è passato con una ventata di grande musica e se ne è andato troppo presto (anche se visti i tempi non era nemmeno scontato che arrivasse). Una valanga di concerti in città, in una moltitudine di luoghi, con un'incredibile varietà di declinazioni di quello che può stare sotto l'etichetta jazz, la possibilità di ascoltare mostri sacri e giovani talenti, ma anche di scoprire angoli inediti di una città che ha da offrire sempre più di quanto sembri. Quest'anno abbiamo ascoltato otto concerti nell'arco di una settimana circa, quasi tutti ad ingresso libero, in sei diverse location. L'ultimo giorno del festival, domenica 31, è stata una giornata ricca di soddisfazioni e di godimento musicale, con tre concerti ospitati in Villa Necchi Campiglio. La villa, nelle vicinanze della fermata della metropolitana di Palestro, risale agli anni '30 ed è ora proprietà del Fai che organizza visite guidate nei suoi interni e nel parco circostante. In effetti, per la precisione, i concerti si sono tenuti nell'ex-campo da tennis della villa, ora chiuso in una specie di serra tutta vetrata (soffitto compreso), ad offrire una sorta di auditorium moquettato e riscaldato, con vista sullo splendido giardino carico d'autunno della villa. Purtroppo non c'erano sedie, ma solo sottili cuscinetti blu sul pavimento. E sentire tre concerti, sia pure di un'oretta l'uno, seduti sul pavimento, almeno alla nostra età, si avvicina abbastanza all'idea di un supplizio. Per fortuna la musica offriva un'ampia consolazione alla scomoda ospitalità. Partiamo da quella che per quanto mi riguarda è stata la rivelazione dell'anno. Il gruppo si chiama Lorr, e Lorr, alias Laura Salvi, ha in realtà un'aria da brava ragazza prima della classe, vestita con maglioncino e jeans, occhiali e cerchietti alle orecchie. E in più è timida, e le sue presentazioni dei brani naufragano regolarmente in un conclusivo “e... beh... niente”. Ma è l'autrice della maggior parte dei brani proposti, e appena comincia la musica si trasforma in una cantante grintosa, con una grande estensione vocale, e perfino movenze musicalmente sensuali. Gran belle canzoni, di quelle che piacerebbe vedere in qualche tipo di classifica, con composizioni che si impongono con naturalezza e autorevolezza già dal primo ascolto. Il genere è il soul con inflessioni british e il rythm'n'blues e oltre ai brani composti dalla frontwoman nella scaletta appaiono alcuni brani dell'ispiratrice anglo-giamaicana Jorja Smith. Alle spalle della cantante, un'implacabile macchina da musica con chitarra (Tommaso Caccia), basso (Giuseppe Viscomi), tastiera (Pietro Garcea, anche alla tromba) e batteria (Alex Canella). Il gruppo si è formato al Conservatorio di Milano e non ha ancora inciso nulla. Lorr mi dice che qualcosa è in preparazione, intanto stanno creando l'hype. Da tenere d'occhio; il pubblico li ha accolti con un calore che ha stupito loro stessi (“Siete probabilmente il pubblico più caloroso che abbiamo avuto”). Non è una sorpresa ma una nuova riconferma invece quella di Cosimo & The Hot Coals, che abbiamo già avuto il piacere di ascoltare diverse volte. Cosimo è in smoking, gli Hot Coals in giacca cravatta e panciotto. Sono giovani (anche loro vengono dal Conservatorio di Milano), ma la loro passione è il sound di New Orleans. Di ascolto in ascolto però si stanno sempre più staccando dal repertorio tradizionale per proporre sempre più brani originali, composti da loro, con testi in italiano e musica in rigoroso stile hot jazz. Cosimo è sempre più mattatore, con baffetti, capelli impomatati, la voce perfetta per il ruolo e un talento per la tromba, a metà tra scanzonato speakeasy e elegante vaudeville, tra la tromba di Armstrong e l'strionismo di Cab Calloway, tra il citazionismo e l'ironia di Buscaglione e Carosone. Tra una canzone sui luoghi comuni e una sull'onnisapienza d'epoca Covid, ma sempre con souplesse e leggerezza, Cosimo (Pignataro) trova disinvolte spalle per le sue gag nei complici Martin Di Pietro (piano) e Stefano Della Grotta (chitarra e banjo), mentre nelle retrovie Mirko Boles e Michele Capasso al contrabbasso e alla batteria svolgono con serietà e competenza il loro dovere ritmico. Bis, ovviamente, con When the Saints Go Marchin' In e pubblico in visibilio. Il loro ultimo album si intitola, appunto, Speakeasy. Si sono incontrate al Conservatorio di Ferrara le tre ragazze che hanno scelto l'accattivante nome di Le Scat Noir per il loro progetto tutto al femminile. Si tratta sostanzialmente di un trio vocale, ma solo Ginevra Benedetti si limita a usare la voce, mentre Sara Tinti suona anche la tastiera e Natalia Abbascià usa il violino suonandolo con l'archetto, a pizzico, o a percussione. Il trio usa comunque anche la bocca, le mani, il petto, le guance per produrre il proprio sound e il proprio ritmo. Le Scat Noir fondono nel loro programma, amalgamandolo col loro stile particolare, generi diversi, passando con disinvoltura dal gospel alla canzone brasiliana (con un Djvan già rifatto dai Manatthan Trasfer), dalla Nuvolari di Dalla (che speravo di sentire eseguire da Servillo e orchestra nel concerto di cui parlerò dopo, magari come bis fuori programma) alle canzoni popolari franco-canadesi, dalle composizioni originali (una sulla preparazione della zuppa di cipolle) fino a It Don't Mean a Thing di Duke Ellington, tutto con armonizzazioni originali e audaci, del tutto prive di timore reverenziali verso i mostri sacri. A volte effervescenti e a volte lunari, secondo le loro stesse parole - capaci di ammettere di essersi impappinate, con il sorriso sulle labbra e il divertimento nell'anima - tre belle e intrepide voci complementari che lasciano il pubblico ammirato. Gli Arianna Masini & the City Flowers, gruppo formatosi nella Civica Scuola di Jazz, si presentano invece con una formazione essenzialista alla Carmel, con voce, contrabbasso (e basso elettrico) e batteria. Il programma prevede un pout pourri che spazia tra composizioni originali anche in italiano (come quella in cui si mescola fame d'amore e fame di pasta al sugo; evidentemente le compositrici amano mescolare musica e riflessioni sentimental-culinarie) e in inglese, qualche standard jazz, un'ampia parentesi brasiliana e alcuni hit celeberrimi come Via con me di Conte o un brano dei Police. Arianna ha una gran bella voce e una notevole grinta, ma a lasciarmi qualche perplessità è stata proprio qualche scelta di repertorio e il trattamento riservato ai brani più famosi: va bene accelerarli, ma a volte si rasenta la sbrigatività, con la chiusura dei versi quasi tronchi in calando, come se prevalesse l'urgenza di tirare avanti. E' comunque una voce che mi farebbe piacere risentire. Il concerto si è tenuto nel bar dello Sheraton Milano San Siro, che ospita il ristorante di Javier Zanetti e sorge sul margine verde della città, dove si possono incontrare anatre e scoiattoli. In un'altra area verde, il parco che circonda l'ex-istituto psichiatrico Paolo Pini, che ora ospita un ristorante gestito da Olinda, abbiamo ascoltato all'aperto la Lazy Sloths Jazz Band, un gruppo molto giovane che avevamo incrociato al loro esordio in Jazzmi due anni fa. Stavolta sono non poco penalizzati dall'afonia del loro ironico portavoce, Giacomo Bertazzoni, che per fortuna però conserva il fiato necessario da dedicare al proprio sassofono e comunica con il pubblico con appositi cartelli con scritto “Salve” o “Grazie”. Jazz della tradizione di New Orleans, con basso tuba, chitarra e banjo oltre al sax. Una band simpatica, che necessiterebbe, visto anche il genere prescelto, un'iniezione supplementare di energia e calore. Allo Sheraton Diana Majestic abbiamo ascoltato invece il programma di standard di jazz moderno proposto dall'Impressions Duo composto da Simona Daniele alla voce e Lorenzo Barcella alla chitarra acustica ed elettrica. Una formazione minimale, con spazio per lo scat e le improvvisazioni della vocalist. La sala dove si tiene il concerto è abbastanza fredda, ma poco più in là il Diana nasconde il suo gioiello più prezioso, il bel giardino privato dove prendere un aperitivo in una piccola e affascinante giungla addomesticata nel centro di Milano. Veniamo infine ai fuoriclasse. Rincrociamo Gianni Coscia e Gianluigi Trovesi in una location insolita, la chiesa di Santa Barbara di San Donato Milanese, una costruzione di quegli anni '50 in cui sorgeva Metanopoli, che cita nella facciata le cattedrali toscane e che contiene all'interno uno dei più grandi mosaici d'Europa e uno stupendo soffitto che sembra composto di tappeti etnici, concepito da Andrea Cascella. Coscia e Trovesi sono due maestri ottuagenari (facendo la media dell'età), che non hanno più nulla da dover dimostrare e che propongono con eleganza e sicurezza un programma interamente ispirato alla musica degli anni '30 e 40, girando intorno alle suggestioni contenute nel romanzo di Umberto Eco - ampiamente autobiografico – La fiamma della regina Loana, cui forniscono un'apocrifa colonna sonora intitolata naturalmente La musica della regina Loana. Un omaggio sentito e doveroso: sia Coscia che Eco sono originari di Alessandria e coltivarono una grande amicizia e lo scrittore dedicò vari scritti al percorso musicale del duo. Il fisarmonicista e il sassofonista giocano il loro collaudato e affiatato interplay non solo attraverso gli strumenti, ma anche con un continuo scambio di battute contrassegnato da cultura, ironia e bonomia, rileggendo a modo loro alcuni episodi musicali, sia americani che italiani, del periodo pre- e postbellico: da Basin Street Blues a Moonlight Serenade, da un medley di canzoni italiane d'epoca (durante il fascismo il jazz in Italia era ufficialmente proibito, ma a Coscia sarebbe molto piaciuto che queste canzoni “travestite” diventassero degli standard jazzistici come meritavano), fino all'inno dei sommergibilisti che gli amici intonavano nelle serate goliardiche a casa Eco. In una sede più tradizionale, nell'enorme Teatro Dal Verme, era ambientato invece il concerto dedicato ad un album storico della canzone d'autore italiana, Anidride solforosa, musicato da Lucio Dalla su testi del poeta bolognese Roberto Roversi. Era il 1975, e la musica pop incontrava inevitabilmente l'impegno politico e sociale. Concerto bellissimo. Unico elemento scenico uno schermo con ciminiere disegnate che si colorano di rosso o di blu; Mario Tronco (ora direttore dell'Orchestra di Piazza Vittorio, già tra i componenti originari della Piccola Orchestra Avion Travel) arrangia i brani avvolgendoli in un sound che ha l'energia del presente e il fascino delle perimentazioni di Dalla; e Peppe Servillo resuscita i versi di Roversi facendogli omaggio della sua istrionica ma raffinata teatralità. Il sodalizio Dalla-Roversi dura lo spazio di tre album. Poi il rigore di Roversi comincia a stare stretto a Dalla che cerca una dimensioni più accessibile e popolare. Per cui mentre io spero in un bis con Nuvolari, presente nel successivo album Automobili, Servillo salta a Disperato Erotico Stomp, quasi un'irriverente rivendicazione di libertà e disimpegno del “nuovo” Lucio Dalla.
In bilico tra Avion Travel e Orchestra di piazza Vittorio, oltre a Servillo in scena e Tronco dietro, nel gruppo sul palco (tutti in tuta da metalmeccanico) ci sono Peppe D'Argenzio (sax), Marcello Tirelli (tastiere), Emanuele Bultrini (chitarra), Pino Pecorelli (basso), Davide Savarese (batteria) e Kyung Me Lee (i fan di Zoro la vedono ogni venerdì in tv nella Propaganda Orchestra). OPEN MOUTH BLUES ORCHESTRA al Centro culturale Valmaggi di Sesto S.G.Il centro culturale Valmaggi, giunto al 32° anno di età e guidato con mano ferma da Domenico Palmiotto, un ultraottantenne che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, è abituato alla buona musica. Ogni anno, infatti, la programmazione ospita (oltre a cineforum, mostre, teatro), la rassegna “Jazz e dintorni”, che ha portato ad esibirsi nel periferico seminterrato di Sesto San Giovanni, a poche centinaia di metri dalla tangenziale e dall'inceneritore, ma anche dall'antico borgo di Cascina de' Gatti e dal nuovo parco della Bergamella, alcuni dei migliori jazzisti dell'area metropolitana e non solo. Ma quando arriva l'Open Mouth Blues Orchestra (al suo terzo passaggio al Valmaggi), non si tratta più solo di buona musica. I concerti dell'Ombo sono una vera e propria festa musicale, e solo la compassata attitudine del pubblico del Valmaggi, abituato ad un ascolto serio e attento, che piace molto ai musicisti che lo frequentano, impedisce che la serata si trasformi in un happening con tutti in piedi a ballare e a tenere il ritmo. Nel piccolo locale (lungo e stretto, soffitti bassi), l'energia sprigionata dall'ensemble affollato sopra e ai piedi della pedana riservata ai performer, è formidabile. Quattro fiati, due chitarre elettriche, basso elettrico, tastiere, batteria, percussioni, due voci femminili e una maschile producono una potenza di suono davanti alla quale è davvero impossibile rimanere distratti o indifferenti (soprattutto per chi, come io, mia moglie e mio papà, fresco dei suoi 92 anni, è seduto nelle primissime file...). Che intenzioni abbia l'orchestra lo si capisce già guardandoli: i componenti sono di tutte le età, e l'abbigliamento eterogeneo comprende jeans, camicie bianche, gilet da dandy, fez da giovani turchi, camicie in tela indiana, magliette, t-shirt con l'effige di Miles Davis, e a rendere più omogeneo il tutto – si fa per dire – molte sciarpe multicolori. Un po' di tutto, insomma, perché l'Ombo nella rassegna “Jazz e dintorni” preferisce stare nei “dintorni”, senza stare dentro nessun confine. Come dice il nome stesso della band, tutto prende il via dal blues, la grande matrice della musica della diaspora afroamericana, ma poi discende lungo le età classiche del jazz e del blues per arrivare ai giorni nostri, ma soffermandosi soprattutto a seguire i mille rivoli che tra gli anni '60 e '70 portano via via alla sperimentazione e al free jazz, al funky, al reggae, alla disco, alla fusion e alla world music. Il concerto (ricostruisco la scaletta senza tenere conto dell'ordine di esecuzione) rende quindi omaggio alle grandi donne del jazz, con un inno al blues scritto da Mary Lou William (pianista, compositrice e arrangiatrice che attraversò la storia del jazz dagli anni '20 a tutti i '80, incrociando la strada dei più grandi, da Armstrong e Ellington fino a Parker, Davis, Monk), con Strange Fruits, incisa da Billie Holliday contro l'ostracismo dei discografici per raccontare delle violenze contro i neri, e con I Put a Spell On You, scritta da Screamin' Jay Hawkins, cantata da una miriade di interpreti, da Nina Simone a Annie Lennox, e riportata alla ribalta dalla colonna sonora di 50 sfumature di grigio. Il concerto offre poi uno standard di Bing Crosby, fa sprizzare energia da un paio di brani dell'Art Ensemble of Chicago, rende omaggi a Bob Marley (con il limpido ritmo caraibico della pacifista Redemption Song) e a Tom Waits (con un brano originale del gruppo, A Sac for a Soul, a lui ispirato), rievoca atmosfere blaxploitation con Pusherman di Curtis Maysfield (nella colonna sonora di Superfly), anche nella chiave più politica dell'Attica Blues di Archie Shepp, mescola gli Steely Dan all'impeto struggente dell'Ultimo tango a Parigi di Gato Barbieri, fino ad arrivare ai nostri giorni con l'irresistibile Gone Under, un brano degli Snarky Puppy (che sono evidentemente uno dei gruppi di riferimento dell'Orchestra) cantato in originale da Shayna Steele. Oltre al godimento di un grande afflato musicale, quello che rende speciale un concerto dell'Open Mouth è l'evidente passione e divertimento dei musicisti, guidati da un Lorenzo Vergani che si prodiga a presentare i brani, a soffiare nel suo sassofono, ad azionare altri eterogenei strumenti sonori (sirena, fischietti, richiami per uccelli, corni, ecc.) a ballare e a sbracciarsi, a navigare in mezzo ai suoi sodali distribuendo parti e assolo. Troppi stretti i limiti orari del centro Valmaggi (si inizia puntuali alle 21.30 ma si finisce altrettanto inderogabilmente alle 23 per problemi di vicinato) per farci stare dentro tutta l'energia e l'irruenza dell'Ombo: poiché sono coinvolti in un progetto del Comune di Milano per la rivitalizzazione delle periferie, conviene tenere d'occhio la loro pagina Facebook e segnarsi le date in agenda per seguirli di piazza in piazza. Tutti bravi i membri dell'orchestra, spero di non fare gaffe citando la formazione così come annunciata: Lorenzo Vergani - Sax Tenore, Direzione; Mirko Nosenzo - Sax Contralto, Soprano, Flauto; Amedeo Azzalin - Sax Baritono, Tenore; Luigi Ducci - Tromba, Flicorno; Silvia Rainoldi – Voce; Ylenia Danini – Voce; Andrea Depau – Voce; Giustino Meli – Chitarra; Giampaolo Berrettini - Piano, Hammond, Synth; Andrea Cagnetta – Basso; Gaetano Cappitta – Percussioni; Guido Masson – Batteria; Pino Cagnetta – Chitarra. “Jazz e dintorni” prosegue ogni venerdì sera, con inizio concerti alle 21.30, fino al 6 marzo, quando chiuderà la rassegna il grande pianista Michele Di Toro. Il centro culturale “Valmaggi” è in via Partigiani 84, l'ingresso – ebbene sì – è gratuito. MISTERIOSO. VIAGGIO NEL SILENZIO DI THELONIOUS MONK |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
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