E così è finita.
Il commissario Montalbano non c'è più. Andrea Camilleri, già nel 2005, molti anni prima della propria scomparsa, aveva scritto l'ultima avventura del poliziotto più amato dagli italiani, l'aveva firmata e consegnata alla casa editrice Sellerio. Lo strano titolo, che da provvisorio poi diverrà definitivo, è Riccardino, che non solo trasgredisce alla regola generale dei titoli montalbaneschi, composti in genere da un sostantivo e da un complemento di specificazione (io avrei visto bene in questo caso un icastico La corona di sorci, che richiama un'immagine del libro, rievocata dall'infanzia di Montalbano e applicata al caso su cui sta investigando, ma espandibile alla rete di complicità che emerge nell'intrigo), ma è dedicato per di più a un personaggio che nel romanzo non può acquistare più di tanto spessore, dal momento che si manifesta brevemente solo come una voce al telefono per poi scomparire a sua volta subito dopo. L'accordo con l'editore, l'“amica del cuore” Elvira Sellerio, era che il romanzo sarebbe stato pubblicato solo dopo la morte dell'autore. Era già un addio definitivo, per quanto posticipato nel tempo: il proposito di Camilleri all'epoca (nel 2005 esce il nono romanzo della serie, cui si aggiungevano alcune raccolte di racconti e una dozzina di episodi trascritti per la televisione) era quello di non scrivere più libri dedicati al commissario, un proposito per fortuna non mantenuto visto che dopo “l'ultimo” Montalbano “l'Autore” (chi ha già letto Riccardino sa perché lo designo in questo modo) ha continuato a scrivere le sue avventure, a getto continuo, in un'amabile ma incoercibile coazione a ripetere, quasi che il personaggio continuasse a vivere di vita propria, a imporsi allo scrittore e obbligarlo alla scrittura quasi contro la sua volontà. Ben lungi dal dedicarsi negli ultimi anni della sua vita ai drammi storici e civili (spesso intrisi però, oltre che dal gusto del racconto e della rievocazione, da una sapida ironia che sconfinava a volte nella comicità pura in certi ibridi storico-romanzeschi), che costituiscono un altro filone della sua narrativa, Camilleri ha continuato a sviluppare e coltivare la personalità del suo protagonista e del teatro dei pupi che gli sta intorno in ben 18 romanzi, il doppio di quelli usciti prima della stesura del suo libro d'addio. Per molti romanzi abbiamo continuato così a seguire un Montalbano che diceva di essere un po' più stanco, un po' più acciaccato, un po' appesantito dal sentimento dell'età che avanza, ma in fondo sempre abilissimo a destreggiarsi in splendida forma sia tra le trame criminali che si trovava a dover sbrogliare, sia tra i tormentoni, spesso umoristici, che erano ormai per i lettori un irrinunciabile e gustoso condimento all'intrigo giallo-poliziesco. Parlo non a caso di teatro dei pupi e della straordinaria vitalità del personaggio (ricordo tra gli altri Sherlock Holmes e James Bond, che, malgrado alla volontà dei rispettivi autori, si ribellarono alla morte), perché proprio ai temi della “realtà” e della rappresentazione, e del rapporto tra scrittore e personaggi, Camilleri dedica il suo “ultimo” romanzo. Se tra le doti di un buon poliziotto per Camilleri c'è anche quella di saper “fare teatro” (e in Riccardino Montalbano dà in più occasioni sfoggio di questa sua innata abilità), man mano che si procede nella lettura è come se Camilleri allargasse l'inquadratura oltre il suo teatrino, o il suo set letterario, smontando le pareti intorno allo spazio scenico, aprendo il tendone che fino ad allora aveva nascosto il puparo, il manovratore delle sue marionette letterarie. In un ultimo gioco pirandelliano, Camilleri si prende il gusto e lo sfizio di mostrarsi nel ruolo di Autore che dialoga con i propri personaggi, o in quello del Creatore che interloquisce con le proprie creature; eppure nemmeno alla fine Camilleri si rassegna alla propria onnipotenza, all'arbitrio del dio che decide trame e destini; mentre il rapporto di solidarietà e di dialogo tra autore e personaggio si trasforma via via in un contraddittorio sempre più acceso e inconciliabile, in un ultimo gesto di umiltà lo scrittore lascia al proprio combattivo personaggio, irriducibile alla resa o all'accondiscendenza fino all'ultima pagina, l'ultima parola; anzi, l'ultima lettera, assecondando il cupio dissolvi senza vincitori né vinti che è - di nuovo - un grande finale coup de téâthre, ma ha nello stesso tempo una visionarietà che richiama il mondo dell'immagine e quindi, indirettamente, il mondo della televisione, che è il secondo (o terzo) mondo nel quale Montalbano esiste, si muove, indaga, vive. Perché il gioco di specchi allestito in Riccardino (ma di rispecchiamenti ce ne sono anche all'interno del romanzo, con i “quattro moschettieri” stretti in un patto letale e le quattro mogli coinvolte in un intrigo più grande di loro e delle loro voglie) si rifrange su diversi piani, e Montalbano si trova addirittura triplicato tra la “persona reale” che ispira le storie e le fa autorevolmente proprie, il personaggio letterario plasmato dall'Autore e infine quello televisivo, un altro Montalbano ancora, che rispetto agli altri due ha seguaci affezionati molto più numerosi (più spettatori che lettori, insomma); ha il privilegio della conoscenza a posteriori, senza i dubbi e le incertezze che possono affliggere gli “altri” Montalbano nel mentre che il racconto si compone e assume forma; e inoltre ha ormai preso possesso definitivo delle sembianze del personaggio, sostituendo sia l'immagine che se ne era fatta il suo autore stesso sia il ritratto immaginario che ogni lettore poteva disegnarsi con la propria fantasia. Camilleri nel romanzo si dice stanco, ma se la gode evidentemente un mondo a condurre il gioco metaletterario con il proprio amato personaggio; a pirandelleggiare ma nello stesso tempo a mettere in scena, sempre con la leggerezza dell'ironia, la sua vasta cultura; a riflettere sulla creazione letteraria ma anche a filosofeggiare sull'etica della caccia e dell'investigazione. Camilleri, già privo della vista, ascolta di nuovo in lettura il proprio romanzo segreto nel 2016. Lascia inalterata la trama, pur se connotata storicamente dal periodo berlusconiano – speriamo definitivamente superato - in cui è stata scritta, ma rimette invece mano al linguaggio del romanzo (in libreria si trova anche l'edizione speciale che riporta entrambe le versioni, quella del 2005 e quella del 2016). In effetti si nota fin dalle prime pagine come il “vigatese” della scrittura si sia fatto largo a spese dell'italiano e si sia reso ancora più stretto, più pervasivo, più evocativo. Un linguaggio ibrido, ispirato alla parlata siciliana, eppure frutto di un'invenzione che si è evoluta di romanzo in romanzo, con l'accondiscendenza e la complicità dei lettori, per trovare il suo definitivo compimento in questa riscrittura ultimativa e tardiva. Una sorta di arabescata torre di Babele linguistica, un'ardita architettura che prende forma e si erge un'ultima volta verso il cielo, prima di dissolversi insieme a chi l'ha creata e messa sulla pagina. Un po' come la Vigata che fa da sfondo ai romanzi del commissario, e che ha acquistato una vita propria anche in tanti altri romanzi e racconti che non lo vedono protagonista e ambientati in epoche diverse, una sorta di Macondo siciliana che da sfondo diventa mondo; e che poi letteralmente scompare, come tutto il resto - tranne la nostra nostalgia già sbocciata – in un'ultima pagina di romanzo.
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AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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