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BLOG NOTES

QUEL CHE RESTA DEL NOBEL

10/10/2017

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NON LASCIARMI di Kazuo Ishiguro

Foto
Pare che Kazuo Ishiguro, scrittore di lingua inglese nato in Giappone, sia rimasto estremamente stupito alla notizia che gli era stato assegnato il premio Nobel per la letteratura 2017. Io, invece, no.
La sua opera più conosciuta rimane forse Quel che resta del giorno (1989) grazie anche a quella apoteosi della britishness costituita dal film di Ivory, sublimata dall’interpretazione di un Anthony Hopkins che calzava il ruolo come un guanto di velluto.
Io di Ishiguro avevo letto anni un bel po’ di anni fa - quando mi dilettavo a frequentare la letteratura giapponese, esotica, elegante e crudele, formalistica e di sensibilità quasi morbosa -, Un pallido orizzonte di colline, il suo primo romanzo, del 1982, una storia disturbante di calura e di insetti, di suicidi e di sopravvivenza, ambientata dopo la guerra a Nagasaki, la città dove lo scrittore nacque nove anni dopo lo scoppio della bomba atomica e che lasciò all’età di quattro anni per trasferirsi in Inghilterra.
Le due tradizioni culturali e antropologiche che si intrecciano in modo indissolubile nella personalità e nell’opera di Ishiguro, quella giapponese che prevale ne Il pallido orizzonte, e quella squisitamente britannica che pervade Quel che resta, trovano una sorta di sintesi in Non lasciarmi (2005) in cui si fondono l’ambientazione squisitamente inglese, tra college, campagna, cittadine sul mare, e una sorta di fatalismo orientale, pronto ad accettare e introiettare anche gli aspetti più crudeli dell’esistenza.
Io l’ho letto un po’ di anni fa, e la prima tentazione è stata: lo lascio. Non so voi, forse sono troppo sensibile, ma per me la quieta crudeltà del racconto è risultata quasi insostenibile. Ma sono qui, ne sto scrivendo (a memoria): sono quindi andato avanti a leggerlo fino alla fine.
E penso che dopotutto ne valesse la pena, che il romanzo dica qualcosa delle nostre vite, delle vite di tutti, per quanto i personaggi (dei ragazzini poi adolescenti e poi giovani adulti, che trascorrono la loro esistenza prima in un collegio inglese, Hailsham, dal suono un po’ sinistro, poi in una sorta di comune agricola, poi in un’Inghilterra del futuro che ha moltissimo del passato, e dentro e fuori dagli ospedali) possano sembrarci lontani dalla nostra esistenza.
Buona parte del romanzo si svolge appunto in un college nella campagna inglese. Siamo nel futuro, poiché sappiamo che la scienza medica e biotecnologica è progredita, ma è un futuro che ha il sentore vintage e un po’ stantio del passato, dove gli studenti indossano abiti fuori moda e la musica si ascolta su audiocassette. La loro vita sembra quella di ragazzi normali, benché reclusi nel loro istituto dove studiano, fanno esperienze artistiche, si formano, crescono. Ma non è così. Il lettore, forse ancor prima che loro - anche grazie all’alternarsi dei tempi della narrazione, con la protagonista che rivolge un doloroso e amaramente nostalgico sguardo al passato da un presente ucronico e terribile -, intuisce che il loro futuro prevede un destino orrendo e (letteralmente) straziante.
Forse molti di voi sapranno già di cosa si tratta, avendo visto il film che Mark Romanek ne trasse nel 2010 (Carey Mulligan e Keira Knightley le protagoniste femminili), la cui visione è paradossalmente molto meno scioccante della lettura della pagina scritta. Io qui non lo dirò, per rispetto verso quelli che non hanno letto il libro e non hanno visto il film.
Eppure, viene da pensare infine, queste ragazze e ragazzi non sono tanto diversi da noi. Stanno scoprendo il mondo degli adulti, non sempre così leggibile nei suoi meccanismi e nei suoi rituali; scoprono senza troppo cercarli l’amicizia, l’amore, il sesso; provano invidia e gelosia; possono tradire ma sono capaci di empatia e di solidarietà; si interrogano su quello che ne sarà di loro; anzi, si chiedono chi sono, perché c’è un’età in cui non è così chiaro, e forse non lo sarà mai.
Kathy, Ruth, Tommy: un’altra cosa terribile del libro è che quando scoprono perché sono nati, e qual è il loro destino, non si rivoltano. Il tono del romanzo è piano, colmo di malinconia, di frustrazione, di rassegnazione. Mai di rabbia o di ribellione. La società distopica li ha prodotti a proprio uso e consumo, ha rinunciato a provare pietà o compassione per loro, pronti ad abbandonarli dopo averli usati, come vuoti a perdere. Ha fatto della disumanità uno strumento al servizio dell’umanità, e dell’umanità un vezzo che non intacca una disumanità assoluta.
Dallo schiavismo al nazismo, dal colonialismo ai nostri giorni amari in cui parte delle nostre società ha rinunciato anche a prendere in considerazione di poter provare umana pietà e simpatia verso un’altra parte dell’umanità, il perturbante racconto di Ishiguro, così familiare e nello stesso tempo così allucinante, così chiuso e coerente, così sommesso e pacato, e nello stesso tempo così pieno di echi infiniti e assordanti, non può non indurci a riflettere sui rapporti di dominazione e di strumentalizzazione che hanno caratterizzato la storia dell’umanità.
Ma forse, dopotutto, ancora una volta, Kathy e i suoi simili non sono delle vittime, ma sono semplicemente, come a loro piacerebbe, degli esseri umani. Al cui destino è difficile ribellarsi, perché è comune a noi tutti. Nascere, crescere, indagare l’enigma della propria identità, ignota a noi stessi; sperare in un futuro migliore, non sempre progettabile secondo i nostri sogni; e poi amare, cercare di donare qualcosa agli altri; nel poco tempo che abbiamo, prima della malattia, delle perdite, della vecchiaia, della morte. Prima che venga la fine.
Anche se non vorremmo che la vita ci lasciasse (never let me go!); anche se vorremmo non lasciarla mai.
E’ una mia impressione, un falso ricordo, o un artificio retorico che uso adesso scrivendone, che nel libro le luci sembrano diventare sempre più fioche man mano che la storia procede verso il suo sconsolato epilogo? Prima che cali definitivamente il buio?
 

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    Mauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà.

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