Surfando sulla seconda ondataLa pandemia doveva renderci migliori. Il pericolo comune, la responsabilità dell'uno nei confronti degli altri, la necessità della solidarietà di fronte alla difficoltà di moltissimi. Avremmo dovuto vedere l'unità, lo sforzo comune, l'impegno di tutti e di ciascuno, la messa a disposizione delle competenze e delle capacità e la messa al bando delle polemiche sterili o peggio opportuniste. E' stato così? E' così? Durante la prima ondata avevamo potuto illuderci per qualche settimana, attoniti e come ammutoliti davanti all'immanità del pericolo e al rigore delle misure da assumere con urgenza. Avevamo ammirato la dedizione spinta sino al sacrificio personale di molti che si erano schierati in prima linea nell'emergenza, in primo luogo di moltissimi tra i sanitari (che il coraggio e la deontologia professionale non siano patrimonio universale ho dovuto purtroppo constatarlo di persona). Nella seconda ondata la tragedia mi sembra volga in una farsa grottesca e volgare, senza perdere nulla purtroppo della tragicità e della letalità dei fatti. La scompostezza davanti all'emergenza mi sembra dilagare a tutti i livelli. E' vero che molti errori sono stati commessi durante la gestione dell'emergenza. Molti sono da attribuire alla improba necessità di contemperare la difesa della salute e della vita delle persone con quelle dell'economia, che è anche quella familiare e personale, e in definitiva e in altro modo ancora vitale per le persone. Il Governo, supportato dal Comitato tecnico-scientifico, non ha potuto far altro che procedere per tentativi (suffragati da quel poco di predittività scientifica a disposizione) ed errori (di fronte alla brutale e imprevedibile – almeno nelle dimensioni – evolversi delle cose). La divisione in zone di differente pericolo – che già avrebbe potuto e dovuto essere applicata nella prima fase della pandemia, confinata in zone ben più circoscritte e definibili – è un provvedimento corretto che cerca appunto un equilibrio tra ragioni della salute e ragioni dell'economia, tentando di limitare i danni in entrambi i campi con provvedimenti bilanciati. Ma la seconda ondata sembra aver travolto miseramente anche i freni inibitori che nella prima fase si erano azionati quasi per automatismo e annullato il rispetto (che non proibisce assolutamente la critica) per chi ha la soverchiante responsabilità di gestire una situazione inedita e spaventosa, dove tocca pagare tra l'altro lo scotto di errori madornali compiuti in precedenza: dalla regionalizzazione delle competenze sanitarie, allo smantellamento della sanità pubblica, spesso a favore di quella privata, al depauperamento dell'assistenza territoriale, alla miopia nella gestione degli accessi alle professioni mediche. Ormai, quotidianamente, è una fiera delle parole in libertà, delle facili ironie da social, delle opinioni espresse senza un'adeguata riflessione. E' la realizzazione del proverbio milanese Cent co, cent crap: cento teste, cento diversi modi di pensare, e nella social era cento persone che si sentono in diritto di esprimersi su materie difficilissime da trattare e su una situazione impossibile da prevedere. Ma la cosa più sconvolgente è vedere la classe politica e tecnica lasciare cadere il velo che ci nascondeva la propria miseria e inadeguatezza, per rivelare invece approssimazione, incoerenza, cinismo, incompetenza. Si va da Toti (presidente della Regione Liguria), per il quale i morti anziani non sarebbero neppure da conteggiare, a Fontana (Lombardia) che a proposito di pandemia faceva affari con l'azienda di moglie e cognato (spalleggiato dall'assessore alla Sanità, Gallera, che sarebbe da burletta se la sua incapacità non precipitasse sulle teste dei cittadini lombardi); da Spirlì (Calabria) che parla di Gino Strada come di un “missionario africano” che “scava pozzi”; a De Luca (Campania) che in un delirio di incoerente onnipotenza invoca la zona rossa e la rinnega, minaccia e insulta, auspica un governo di persone “perbene” come se quello attuale fosse composto da malfattori o da – parole sue - “sciacalli” (mentre si dimentica di includere nella categoria i politici negazionisti, riduzionisti, o semplicemente cinicamente opportunisti e voltagabbana a seconda della miserabile convenienza del momento; o i fascisti e gli ultras scesi ad infiammare le strade e le piazze italiane speculando sulle paure dei lavoratori e degli imprenditori messi in ginocchio dall'epidemia). I commissari per la Sanità della Calabria sembrerebbero personaggi da barzelletta, o vittime di malelingue, se non si fossero rivelati in tutta la loro orripilante pochezza davanti a impietose telecamere: Cotticelli che un giorno ammette di non essere a conoscenza di dover provvedere alla redazione del piano anti-Covid (!) e si fa fornire i dati sui posti letto ospedalieri dall'usciere (!), per “rimediare” il giorno dopo esprimendo il sospetto di essere stato drogato dal giornalista della Rai che lo intervistava (!); e Zuccatelli, chiamato a sostituirlo in tutta fretta, che espone scompostamente la tesi per cui per contrarre il virus bisogna limonare per un quarto d'ora (! e lui adesso è positivo!)e che le mascherine non servono a niente. Mentre il presidente di Innova Puglia, Tiani, che gestisce gli appalti sanitari in Puglia, si fa riprendere mentre decanta i poteri taumaturgici di un ciondolo da 50 euro che proteggerebbe dal Covid. E mentre Bassetti (direttore clinico al San Martino di Genova) dice che il problema sono gli accessi “ingiustificati” ai pronto soccorso; e il San Raffaele di Milano zittisce il proprio ricercatore Burioni che gli aveva risposto contrapponendogli i cimiteri pieni; e un altro sanraffaeliano, l'ineffabile Zangrillo, già medico del Cavaliere, che in primavera con superficialità criminale straparlava di “virus clinicamente morto”, oggi sostiene l'inutilità dei controlli tramite tamponi e cerca inutilmente di trascinare in una zuffa da strada il prof. Galli (dell'ospedale Sacco di Milano), tra le voci più equilibrate, misurate ed oneste che si ha modo di ascoltare nel bailamme globale. Crozza venerdì sera, nel suo Fratelli di Crozza, di questo panorama ha fornito una carrellata insieme irridente e agghiacciante. Non è consolante sapere che il più sano di mente su questa nave di folli, in balia delle ondate, potrebbe essere il buffone. Che qualcuno tenga in mano il timone, ve ne prego, perché al termine della bufera l'Italia potrebbe essere ridotta a una nave fantasma.
0 Commenti
MARE CULTURALE URBANO, via Gabetti 15, MilanoLe periferie di Milano stanno diventando sempre più frizzanti. Dopo i precedenti articoli da Niguarda e da Chiaravalle, stavolta siamo in zona San Siro: a due passi dal grande stadio, tra palazzoni alti alti, un deposito Atm e una caserma, come per caso si insinua una vecchia cascina che sembra piovuta dal cielo per sbaglio.
Non si direbbe, ma è il mare culturale urbano (si scrive così, minuscolo). C'è un'idea di città e tanta cultura; il mare invece è un sogno, un'utopia, un obiettivo mentale cui tendere. Dopo qualche puntata l'anno scorso, siamo tornati al mare quest'anno per la festa del solstizio d'estate. E il mare si conferma nella nostra opinione come l'esempio delle città, o dei quartieri urbani, così come dovrebbero essere: con un'idea forte, concreta e realizzabile di vita sociale, di convivenza civile, di condivisione. Un luogo dove la socialità non è nelle stanze dei palazzoni, chiusi dentro e attaccati ai social, ma sta giù, in strada, nei giardini, nel cortile, dove ci si incontra, si chiacchiera, si scambiano opinioni e conoscenze, si passa il tempo insieme. Nel giorno del solstizio c'è una quantità di bambini incredibile (proprio oggi è uscita la notizia della gravissima crisi di natalità in Italia, ma da qui non si direbbe proprio), che giocano, corrono, si rotolano, saltano, si scordano di essere stati truccabimbati, simulano improbabili partite di calcetto o di ping pong, rincorrono palle riottose. Ci sono i papà e le mamme, i cani, i pic nic improvvisati sui prati. Ci sono i banchetti con cuoppi, pizze e birrette artigianali (ma diciamo che la ristorazione decisamente non è il pezzo forte della serata). Ci sono banchetti di vario genere, giovani che vendono sprtitz per sostenere i propri progetti sui passaggi aerei tra i condomini, gelatai. Ci sono panchine, sedie e tavoli, sdraio, muretti sui quali sedersi, alberi e cespugli. Nel cortile della cascina c'è il ristorantino, l'angolo del book-crossing, un palco sul quale si esibisce l'improbabile compagnia della Canzone nazionale (una coppia di olandesi schizzati, qualche musicista elegante, un paio di cori chissà come coinvolti), e uno schermo che fa da karaoke per il pubblico irretito dagli olandesi pazzi e poi ospita azzurrissime ipnotiche onde marine in moto perpetuo. C'è il palco in piazza sul quale passato il pericolo di pioggia sale niente di meno che Edoardo Vianello, a cantare dei Watussi, delle gambe ad angolo nella foga del twist, della stessaspiaggiastessomare dove tornare nelle estati infinite, acon le pinne il fucile e gli occhiali, e solo brevi pause invernali per scendere sci ai piedi dal cocuzzolo della montagna o a ricordare indimenticabili amori estivi. E' incredibile, vedere bambini e bambine, giovani e ragazze, signore e signori, anziani visibilmente in là con l'età, tutti a sgomitare felici sotto il palco, a cantare e ballare e a far trenino, godendo di un'ora di spensieratezza vintage. Vianello si prende la rivincita sui cantautori impegnati che l'avevano spodestato dalle classifiche alla fine degli anni '60, con la dimostrazione plastica che è ancora lui, sempre-in-piedi, a fare socialità, a mischiare sessi e generazioni, a creare felicità con il suo innocuo disimpegno. Ma non finisce qui. Da domani cominciano ad accorciarsi le giornate, ma mare culturale urbano si allunga attraverso l'estate offrendo ancora spazi di coworking, sale prove musicali, spazi sociali, social housing. Anzi, questo lo fa tutto l'anno. Ma adesso, per tutta l'estate, sul Lungomare di Milano, in cortile c'è Cernusco Jazz a mare, con una dozzina di concerti attraverso il jazz contemporaneo (ad ingresso libero!), in piazza c'è il cinema all'aperto (con cuffia: siamo pur sempre in mezzo ai palazzoni) con cinema d'autore, commedie, film musicali e in lingua originale e sabato dedicato ai bimbi; in cascina c'è sempre il ristorantino e la birreria, per sentirsi in vacanza nel cuore di Milano. E c'è la rassegna dedicata ai nuovi progetti della musica italiana, le serate di satira, il festival delle birrette e quello “Fuori rotta” delle migrazioni. Insomma, come diceva una bimba allontanandosi, “sarebbe bello vivere qui”. Vivere in mezzo agli altri; vivere al mare per sempre. Come in una canzone di Edoardo Vianello, ma per davvero. Il mare culturale urbano è nato grazie al Comune di Milano e rappresenta il tassello finale del progetto Cenni di Cambiamento, intervento di housing sociale realizzato da InvestiRE SGR, con il supporto di Fondazione Housing Sociale; tra gli investitori il Fondo Immobiliare di Lombardia, Cassa depositi e prestiti, Fondazione Cariplo e Regione Lombardia. Con un progetto che coniuga ricerca artistica e progettazione sociale, mare ha ottenuto la gestione di questi spazi in affitto da InvestiRE SGR, contribuendo a dare vita a un modello di riqualificazione considerato pilota dall’amministrazione cittadina e costruito in collaborazione con Fondazione Cariplo. Il cinema fantastico americano ha sempre avuto la tendenza ad assoggettare il Paese alle peggiori catastrofi naturali e sovrannaturali: vulcani, inondazioni, terremoti, glaciazioni, invasioni di animali mutanti, zombi, mostri giganteschi, alieni ostili, e chi più ne ha più ne metta. Stavolta la minaccia è più concreta e realistica, e la visione distopica di Supremacy, diretta da uno specialista di disaster movie come Roland Emmerich (Indipendence Day, The Day After Tomorrow, White House Down e via apocalisseggiando) si avvicina piuttosto alle grandi ucronie negative, come quella de La svastica sul sole (The Man in the High Castle) in cui Philip Dick immaginava gli Stati Uniti, sconfitti nel secondo conflitto mondiale, sotto il tallone di ferro del dominio nippo-nazista. In Supremacy, ambientato in un futuribile ma poi non così lontano 2018 (poco lontano dal 2012 dell’apocalisse predetta dai Maya e già portata sullo schermo dallo stesso regista, il male, che in Dick era ancora esogeno, sorge dal cuore stesso della nazione, ne è diretta espressione, e domina per volontà e con il consenso della stessa popolazione. Si ipotizza infatti che a seguito di elezioni democratiche (ma forse inquinate, come si vedrà in seguito), il potere assoluto venga consegnato nelle mani di un miliardario folle e caratteriale, dall’improbabile e fumettistica capigliatura con ciuffo arancione (non so perché il ricordo mi corre anche ai cattivissimi marziani del burtoniano Mars Attacks!) e dallo squillante nome di Donald Trump (un cognome scelto certo con malizia: trump in inglese è sinonimo di joker, la nostra matta nei giochi di carte, la carta impazzita che non rispetta le regole). Il nuovo Presidente è raffigurato come una sorta di incarnazione in purezza dei peggiori istinti umani (e americani): demagogo, sessista, razzista alleato del Ku-klux-klan, autocratico, libertino ma amico dei peggiori bigotti reazionari, che distrugge il sistema della sanità pubblica americana, non teme di portare il mondo sull’orlo di una guerra nucleare, intraprende una distruttiva (e forse autodistruttiva) guerra commerciale con il resto del mondo, sogna di separare Usa e Mexico con una muraglia che tagli in due l’intero continente in tutta la sua larghezza, e arriva perfino (nella scena più straziante del film) a rinchiudere in lager di infausta memoria i figli degli immigrati clandestini, catturati e separati dai genitori, o a disconoscere gli accordi mondiali presi per cercare di scongiurare gli sconvolgimenti climatici che potrebbero causare cataclismi planetari e la fine dell’umanità e della civiltà così come le conosciamo. Ma non è finita qui: in una sottotrama spionistica, si insinua addirittura il sospetto che all’elezione a presidente di Trump, che non si fa specie di demolire le vecchie alleanze atlantiche, non sia estraneo il nemico americano per eccellenza, la Russia, dominata da un altro autocrate reazionario come Putin. In effetti, al di là delle tinte fosche con cui il film dipinge gli Usa del 2018, un colpo di genio della sceneggiatura, per quanto necessariamente limitato ad alcuni accenni nell’economia del racconto, è il disegno sulla tela di fondo, del contesto globale su cui si staglia la vicenda principale: intorno agli Usa sempre più chiusi in un delirio di autosufficienza autocratica, si intravedono infatti uno scacchiere mondiale infiammato da conflitti locali ma inestinguibili e da un terrorismo inestirpabile, il fiorire di regimi antipopolari e guerrafondai, e un’Europa in via di disgregazione sotto il doppio urto di una migrazione dal sud del mondo di proporzione epocale e dalla rinascita di nazionalismi egoistici, prodromi, come lo furono in un lugubre passato, di futuri conflitti globali imprevedibili ma più che probabili. Contrariamente alla norma, il film non mette in campo eroi o superoi o - come spesso accade nel cinema mainstream hollywoodiano - persone comuni che nel momento del bisogno scoprono in sé risorse inaspettate che li mettono in grado di affrontare il male e le avversità e di sconfiggerli. E’ forse il pregio di una sceneggiatura originalissima e non consolatoria, ma che lascia nello spettatore all’uscita dal cinema un senso di pericolo e di sgomento. Se molta fantascienza ci ha raccontato di mondi post-apocalittici, Supremacy sembra piuttosto raccontarci un mondo appena pre-apocalittico. Il film si chiude infatti [spoiler] sulla vigilia di Natale 2018, una notte che è insieme dei cristalli e dei lunghi coltelli, quando, in un complesso montaggio alternato, assistiamo da una parte allo sterminio degli oppositori interni – politici, magistrati, giornalisti, perfino repubblicani dissidenti, oltre all’attore Robert De Niro (in un cameo nella parte di se stesso) che viene strangolato nel suo letto -; dall’altra alle esplosioni dei primi ordigni atomici sulla Corea del Nord – per un breve periodo di tempo fedele alleata del Presidente – e qui la memoria cinefila non può non rievocare il finale di Apocalypse Now, un titolo appunto, al pari dell’originale conradiano Cuore di tenebra, che ben si sarebbe adattato anche alla pellicola in questione -; e dall’altra ancora al minaccioso sconfinamento delle truppe di terra verso il vicino Canada. Il punto dolente di un film peraltro capace di suscitare profonda inquietudine sta forse nella scelta degli interpreti principali: l’attore che interpreta Trump adotta una recitazione, poco controllata dal regista, che lo lascia libero di gigioneggiare e di indulgere a smorfie ed espressioni grottesche, oltre che a ridicole pose mussoliniane, che rendono meno credibile un personaggio altrimenti sinistramente verosimile, riducendolo a una becera caricatura cui è difficile dar credito. All’opposto, è fisicamente attraente ma decisamente poco espressiva l’interprete di Melania, una first lady imprigionata nel suo ruolo che non trova il modo e la forza per opporsi al Presidente-padrone. Significativa la scelta di far uscire il film in tutto il mondo il 4 luglio, festa dell’indipendenza americana; come se da noi un film di fantascienza che immaginasse la poco auspicabile salita al potere del fascio-leghista Salvini uscisse il 25 aprile... Un caso clinico e uno studio di antropologia culturaleTrump times. Un paio di simpatici aneddoti dell’ultima settimana. Gli Usa affrontano il mondo all’Onu dopo che Trump ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale d’Israele. Così, tanto per tenere il mondo sulla corda, per non farlo adagiare nella vana illusione che una conciliazione, magari in un futuro remoto, sia possibile. A favore nell’Assemblea votano in 9. Oltre a Usa e Israele, paesi, con rispetto parlando, non di primissimo piano sullo scacchiere internazionale come il Togo, la Micronesia, le Isole Marshall, Nauru, Palau. Contro, in 128, praticamente tutto il resto del mondo, tranne i 35 astenuti. Tra questi, per carità di (altrui) patria, ci sono alleati eterni e inossidabili come Australia e Canada che, stavolta, proprio non se la sono sentita. Non so se gli Stati Uniti abbiano mai subito in una sede analoga una disfatta tanto rovinosa e cocente. Nikky Haley, ambasciatrice statunitense all’Onu, non l’ha presa bene e ha minacciato 128 (o 163) Paesi, ammonendo che gli Usa ricorderanno i nomi (sarà una lunga lista da tenere a mente) di chi ha votato contro, mancando di rispetto, chissà perché ai gloriosi Stati Uniti. Proprio a loro, che sono tra i maggiori finanziatori dell’Onu. Della serie, chi paga decide. Gli altri dietro come cani a fiutare l’osso. Così ad occhio sembra una dimostrazione di come Trump non capisca un cazzo di diplomazia, né di politica internazionale, né di politica, né dell’animo umano. Pochi giorni prima, una notizia ancora più allarmante. Devo dire che questa è l’uscita dell’amministrazione post-Obama che più mi ha terrorizzato. Sicuramente ci sono decisioni più drammatiche, che mettono in gioco la vita e il destino di milioni di persone, ma qui mi sembra che a essere messa a rischio sia la salute e l’integrità mentale dell’umanità. Qualche giorno fa il Washington Post ha riportato che un rappresentante dell’amministrazione Trump ha comunicato ai membri del Centers for Disease Control and Prevention che alcuni termini non avrebbero potuto più essere usati nei documenti ufficiali. Sette parole, per la precisione (tanto per cominciare?): vulnerable, entitlement, diversity, transgender, fetus, evidence-based e scienca-based. E cioè vulnerabile, diritto, diversità, trangender, feto, basato sui fatti, basato sulla scienza. Confermato, smentito? Il WP in genere non scrive a vanvera e i precedenti ci sono già e sono clamorosi, come (lo riporta il New York Times) la rimozione delle notizie sul riscaldamento globale dal sito dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, o quelle sulle persone LGBT da quello della Sanità. Nella lista delle parole si legge l’ossessione bigotta e prevaricatrice della cosiddetta élite che ha sostenuto Trump, un’accozzaglia di creazionisti, sessisti, omofobi, dispregiatori non solo dei diversi ma anche semplicemente dei più deboli (vulnerable!). Chissà come faranno i ricercatori sulle malattie prenatali a farsi finanziare le ricerche senza mai nominare la parola “feto”. Dovranno rinunciare, oppure ingegnarsi a inventare qualche perifrasi. A quanto pare qualche generoso suggerimento governativo c’è già: al posto di “basato sulla scienza” ad esempio si dirà: “basato sulla scienza in considerazione degli standard e dei desideri della comunità”. Non più la scienza dunque. Meglio l’opinione comune, anche se becera o semplicemente profana e ignorante. Non più i fatti. Meglio le opinioni, le credenze, le notizie false che devono avere la stessa dignità delle notizie vere (beh, coerente: abbasso la diversità). Non so a voi, a me, così di primo acchito, mi sono venuti in mente lo stalinismo che cancellava le facce dalle foto e i nomi dai documenti, reinventando una storia fittizia e menzognera a proprio comodo e a uso e consumo delle masse, magari sperando che corrispondesse “agli standard e ai desideri della comunità”. O Galileo Galilei in ginocchio davanti agli Inquisitori - la scienza in ginocchio davanti al potere - che, per evitare la tortura, abiura e ammette che è il Sole a girare intorno alla Terra. Trump e i suoi non hanno neppure la scusante del potere della Chiesa e della religione, l’appoggio del buon senso che vedeva il sole muoversi intorno alla terra, le prove scientifiche (sbagliate) che supportavano l’evidenza fisica. Ma forse la regressione più che storica o infantile (non dire le parolacce!) o psichiatrica è antropologica. Non so se a voi sembri altrettanto grave, ma cancellare le parole vuol dire cancellare una parte di mondo. Per alcune popolazioni primitive i nomi dei defunti diventavano tabù, impronunciabili, costringendoli a faticose perifrasi per descrivere il mondo quando quei nomi contenevano riferimenti a cose o animali o luoghi. Dare un nome alle cose crea il mondo, lo definisce, lo trae dal caos dell’indistinto e gli dà un ordine intellegibile, costruisce le strutture del pensiero e del linguaggio con cui lo si esprime. Togliere il nome alle cose significa distruggerle, negarle, impoverire il mondo, il pensiero, il linguaggio. E’ spaventoso anche il solo pensarlo. La zoologia comparata ha dimostrato che perfino tra gli animali risultano più evoluti, comunicativi e innovativi quelli che hanno un vocabolario fonetico più ampio. Forse per capire la politica trumpiana più che un analista politico occorrerebbe un analista della psiche, un bravo terapeuta, o forse un antropologo capace di spiegare le strutture mentali dei primitivi. Stop al pensiero illuminista e razionale; stop a quel fesso di Darwin; stop a quei presuntuosi di scienziati; stop all’evidenza dei fatti, alle certezze della scienza e anche ai suoi dubbi e alla sua perpetua ricerca di verificabilità o di confutazione delle teorie. O forse Trump e i suoi pensano semplicemente che chi ha soldi e potere possa comprare tutto. I voti all’Onu, l’obbedienza ai propri capricci; le parole, il linguaggio, la ragione, il pensiero. I fatti, la scienza, la verità. Mi viene in mente un’altra immagine (dopodiché ho trovato in rete la vignetta che illustra questa pagina, e non ho resistito alla tentazione di usarla); non dice abbastanza, ma eccola qui: un piccolo grande dittatore che gioca a palla con il mappamondo del pianeta. Che rischia di scoppiargli tra le mani. Con noi sopra. L'ARTE NEL CESSO - Da Duchamp a Cattelan, ascesa e declino dell'arte contemporanea |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Febbraio 2024
Categorie
Tutti
|