STRAPPARE LUNGO I BORDI, miniserie Netflix in sei puntate di Zero CalcareDi Strappare lungo i bordi, nella manciata di giorni successivi alla sua uscita, si è già detto praticamente tutto e forse non ha molto senso aggiungere altro. Sulla home page de la Repubblica del 21 novembre, tanto per dire, c'erano otto differenti articoli sulla serie di Zero Calcare, passato da narratore e illustratore dell'area alternativa a fenomeno del web, poi a fumettista affermato, apprezzato e premiato, con molti volumi editi tra il 2011 a oggi, grazie soprattutto alla Bao Publishing, quindi a star delle convention fumettistiche, con code infinite davanti al suo banchetto per portarsi via un disegnino autografo sulla copia di un suo libro, e infine, suo malgrado, ad icona pop e a “ultimo intellettuale” in un'epoca di pensiero debole. Dopo aver detto di no a innumerevoli profferte, dall'animazione al videogame, dal merchandising più scellerato alla carriera tv, Zero Calcare ha seguito in sordina il proprio percorso ostinato e indipendente. Prima è arrivato al cinema con il non risolto La profezia dell'armadillo; poi si è esercitato nell'animazione per proprio conto, con i brevi corti animati di Rebibbia Quarantine (mostrati in Propaganda di Zoro) che ci hanno raccontato con spirito e tono diverso da tutti gli altri gli infelici giorni del lockdown. E' stato questo esperimento a convincerlo probabilmente che poteva essere giunto il momento del grande passo, con l'approdo sulla più colossale piattaforma mondiale dell'audiovisivo con la breve serie animata Strappare lungo i bordi, appunto, sei puntatine da una ventina di minuti ciascuna, un paio d'ore di visione in tutto, l'equivalente in termini di tempo di un normale lungometraggio più che di una serie tv. Ci arriva comunque a modo suo, con i suoi tempi, i suoi personaggi, la sua lingua, i suoi luoghi, i suoi temi. Forse sono attutiti i toni più politici o politicizzati, più sfumati i riferimenti al contesto italiano, per farne un prodotto più comprensibile da pubblici di altri Paesi e altre lingue. Eppure Strappare lungo i bordi è Zero Calcare allo stato puro, con i suoi gusti musicali, le sue autocitazioni, i suoi riferimenti alla cultura pop anni '90, il suo sentimento della vita: lo dichiara la sigla stessa, dove cercando di ritagliare la figurina di un uomo ideale sbaglia, non riesce a seguire le righe, sborda, ottenendo alla fine, anziché un perfetto uomo-modello, un imperfettissimo Zero Calcare; talmente autocosciente delle proprie manchevolezze da aver generato un avatar della propria – per altro fallace - coscienza in forma di armadillo. E la star del web, del fumetto, e di Netflix (dove oltre a strappare bordi sta stracciando record) si racconta così, come un uomo inadeguato, incapace di adeguarsi ai modelli precostituiti, insofferente agli stereotipi sociali e alle ipocrisie; ma anche timoroso di non essere in grado di soddisfare le aspettative degli altri, pieno di insicurezze e di sensi di colpa. Una condizione esistenziale di cosmica infelicità leopardiana, di sensi di colpa kafkiani radicati nell'infanzia, ma raccontata con lo stile di Zero Calcare: che è grottesco, veloce, ironico e, soprattutto, autoironico. Sullo schermo, rispetto alla pagina scritta e disegnata, è soprattutto questo a colpire, la velocità vorticosa, questa capacità di sdrammatizzare tutto lo sdrammatizzabile (o quasi) zigzagandoci sopra e attraverso, sull'ottovolante del ritmo e dell'umorismo; almeno fino all'ultimo giro di giostra, o meglio all'ultima puntata, quando dopo mille divagazioni e depistaggi, arriva il momento di fare i conti con la vita (e con il suo contrario) - e con se stesso. Il personaggio di Zero Calcare ispira forse più tenerezza di quanta lui ne provi per se medesimo; ma è un personaggio in cui tutti (almeno noi tutti strappati lungo i bordi) possono identificarsi, al di là dell'età, del luogo in cui si vive e delle appartenenze. E' strano come quello che viene considerato uno degli autori di fumetti più politico e politicizzato ci racconti invece (con un indubbio afflato autobiografico) un personaggio rinunciatario, che rifiuta la lotta (al massimo esercita la propria resilienza prendendole, ma mai dandole), che ha terrore del cambiamento, che aspira all'immobilità assoluta, che rifugge da qualsiasi assunzione di responsabilità, perfino nel campo individuale ed esistenziale. Ci si rende conto solo per gradi che Strappare lungo i bordi sta raccontando, sotto le mentite spoglie della divagazione continua, un viaggio in avanti, che è però l'occasione per ripensare alla costante fuga all'indietro che l'ha portato a questo punto. Si ride molto in Strappare lungo i bordi, ma alla fine ci si trova di fronte ad un dolore vero, e a un senso di colpa difficile da lenire. Ci si prova l'amica Sarah, che gli rinfaccia il suo eterno sentirsi inutilmente colpevole di tutto quello che accade agli altri e al mondo (“Chi è felice è complice” è la citazione che fa da sfondo al display del cellulare del personaggio), con l'ormai celeberrima e citatissima metafora del filo d'erba tra i fili d'erba. Ma è davvero così? E' davvero quel po' di temporaneo calore che emana dalla fiamma delle nostre figurine strappate e ciancicate tutto ciò di cui dobbiamo accontentarci? Paradossalmente, la morale di Strappare lungo i bordi si avvicina a quello di molto cinema di animazione mainstream contemporaneo: l'accettazione del diverso, il riconoscimento della propria natura e dei propri limiti, il valore dell'amicizia. Ma a mancare, altrettanto paradossalmente, è forse proprio la dimensione più propriamente politica (nella misura in cui anche il personale è politico, come si diceva una volta), l'andare oltre l'esistente, la capacità di immaginare un futuro differente senza limitarsi all'accettazione (anche se con disagio o a volte disgusto) della situazione di fatto, il valore della solidarietà attiva, la sensibilità per accorgersi dei bisogni di chi ci sta accanto, la capacità di assumersi delle responsabilità che a volte implicano salvare la propria vita e quella degli altri. Perfino la velocità del racconto e lo schermo del dialetto romanesco (elementi che in molti hanno lamentato come ostacoli alla fruizione e alla godibilità della serie), sembrano allora degli escamotage dettati da una timidezza esistenziale, che evita di soffermarsi troppo per non correre il rischio di approfondire argomenti che possono rivelarsi troppo delicati; così come i grossi blocchetti grafici dei sopracciglioni neri e rettangolari sembrano due paraurti schierati contro i colpi della vita. Per citare un altro amato e rimpianto fumettista, uno che ha interpretato la propria vita e la propria morte vestendo i panni di rock star ironica e disperata, forse anche Strappare lungo i bordi non è altro che il segno di una resa invincibile.
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SANI! - TEATRO TRA PARENTESI di e con Marco PaoliniE' tornato a teatro anche Marco Paolini, uno dei più grandi artisti del teatro di narrazione italiano. Torna a suo dire cambiato, dopo l'infuriare della pandemia, il lockdown, la chiusura forzata dei luoghi di spettacolo (e di tanto altro), il periodo di inattività con il cervello che non smette di funzionare, e lo spettacolo di un mondo che non era difficile immaginare tanto fragile, ma che della propria vulnerabilità ha dato un esempio talmente convincente da sembrare una sinistra prova generale. Sembrano scaturire tutti da qui, lungo diversi ma alla fine non inconciliabili rivoli, i racconti che vanno a riempire il teatro tra parentesi di Sani!. “Sani” è una formula di saluto in uso in alcune zone del Veneto, ma qui suona anche come un auspicio per il futuro, e ancora come un'esclamazione di sollievo, al ritrovarsi di nuovo vivi, in una sala gremita, ad assistere di nuovo all'antico rito collettivo del teatro. Si parla così di teatri e luoghi di spettacolo chiusi; ma siamo tornati indietro nel 1983, a seguito del disastroso incendio nel Cinema Statuto di Torino. Paolini partecipò a quel tempo all'organizzazione di uno spettacolo teatrale che doveva servire a raccogliere fondi e a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla situazione degli operatori dello spettacolo, soprattutto i più piccoli e i più penalizzati. Ne scaturisce il racconto di un'avventura rocambolesca dove si mescolano l'inesperienza, l'ingenuità, la cieca fiducia nel potere della cultura, attraversata dalla figura lunare e inaccessibile di Carmelo Bene, inconsapevole testimonial (retribuito) della fallimentare iniziativa. E' il momento più godibile e divertente dello spettacolo, dove il racconto della débâcle si ammanta di umorismo e autoironia. Perché il prologo dello spettacolo è più hard, con Paolini che, sullo sfondo di un troneggiante simbolico castello di carte (il castello delle cose, una torre di Babele tanto esorbitante quanto facile a rovinare ad un tocco di dita o a un soffio d'aria), dà i numeri, raccontando di come il peso di tutti i manufatti umani abbia ormai raggiunto (e si prepara a superarlo, in una crescita esponenziale inarrestabile), l'intero peso della biomassa terrestre, ovvero l'insieme di tutti le forme di vita presenti sul pianeta. Sono delineati così i due binari su cui corre lo spettacolo (e che innervano il percorso artistico di Paolini, tra l'autobiografia sentimentale degli Album personali e le narrazioni civili di eventi collettivi, come ne Il racconto del Vajont o in Parlamento chimico), tra la dimensione delle memorie personali e quella dei grandi temi: il mondo che cambia o meglio che scivola lungo una china rovinosa, tra pandemia, cambiamenti climatici, e un'Europa che smarrisce e tradisce i propri valori. C'è quindi un alto ufficiale sovietico (Stanislav Evgrafovic Petrov) che, nello stesso 1983, con la propria capacità di giudizio e la propria volontà evita la risposta ad un presunto attacco militare americano (che in realtà era un abbaglio del sistema di difesa russo), scongiurando un'apocalisse nucleare. C'è una donna comune che in mezzo alle macerie del terremoto di Gemona offre senza battere ciglio (come il pescatore di De Andrè) quel che poco che le rimane, un po' di vino, un caffè caldo e corretto: un'eroina della resilienza prima che fosse creato il termine (e che, se il termine fosse esistito, non ne avrebbe capito il significato). C'è un sogno di Giorgio Gaber (raccontato nell'album E pensare che c'era il pensiero, un titolo che suona oggi di grande e desolante attualità), con un uomo su una zattera che si interroga se far posto ad un naufrago che rischia di affogare o dargli una remata in testa per non correre rischi (e sullo stesso uomo che si ritrova in mare rischiando di affogare mentre l'altro sulla zattera si chiede se accoglierlo o dargli una remata in testa per risolvere il problema). C'è un uomo che in un racconto di Raymond Carver deve descrivere ad un cieco una cattedrale, e c'è Antoni Gaudì, che progettò la Sagrada Familia senza avere la speranza di vederla mai finita, capace di vedere il futuro oltre il limite della propria esistenza. Da storie apparentemente slegate emerge quindi chiaro il messaggio. Bisogna essere capaci di ricominciare; bisogna essere resilienti, coraggiosi, in grado di giudicare rettamente sulla bilancia il valore della vita umana e dei beni materiali; bisogna essere uomini e donne capaci di opporsi al male con la propria individuale volontà, di spingere lo sguardo oltre il futuro e di avere la forza e la visionarietà di progettarlo. Sono le fondamenta de La fabbrica del futuro, un progetto che Paolini ci invita a cercare e seguire nei prossimi mesi. Il consumato talento affabulatorio di Paolini si conferma ineccepibile come sempre, anche nell'apparente dispersività dei temi; meno riuscite a mio parere le canzoni (sulle stesse tematiche) che intervallano i quadri dello spettacolo, quando Paolini fa un passo indietro per lasciare spazio al musicista Lorenzo Monguzzi e alla cantante italo-etiope Saba Anglana, una presenza scenica comunque suggestiva per vocalità ed eleganza. Anche quest'anno Jazzmi è passato con una ventata di grande musica e se ne è andato troppo presto (anche se visti i tempi non era nemmeno scontato che arrivasse). Una valanga di concerti in città, in una moltitudine di luoghi, con un'incredibile varietà di declinazioni di quello che può stare sotto l'etichetta jazz, la possibilità di ascoltare mostri sacri e giovani talenti, ma anche di scoprire angoli inediti di una città che ha da offrire sempre più di quanto sembri. Quest'anno abbiamo ascoltato otto concerti nell'arco di una settimana circa, quasi tutti ad ingresso libero, in sei diverse location. L'ultimo giorno del festival, domenica 31, è stata una giornata ricca di soddisfazioni e di godimento musicale, con tre concerti ospitati in Villa Necchi Campiglio. La villa, nelle vicinanze della fermata della metropolitana di Palestro, risale agli anni '30 ed è ora proprietà del Fai che organizza visite guidate nei suoi interni e nel parco circostante. In effetti, per la precisione, i concerti si sono tenuti nell'ex-campo da tennis della villa, ora chiuso in una specie di serra tutta vetrata (soffitto compreso), ad offrire una sorta di auditorium moquettato e riscaldato, con vista sullo splendido giardino carico d'autunno della villa. Purtroppo non c'erano sedie, ma solo sottili cuscinetti blu sul pavimento. E sentire tre concerti, sia pure di un'oretta l'uno, seduti sul pavimento, almeno alla nostra età, si avvicina abbastanza all'idea di un supplizio. Per fortuna la musica offriva un'ampia consolazione alla scomoda ospitalità. Partiamo da quella che per quanto mi riguarda è stata la rivelazione dell'anno. Il gruppo si chiama Lorr, e Lorr, alias Laura Salvi, ha in realtà un'aria da brava ragazza prima della classe, vestita con maglioncino e jeans, occhiali e cerchietti alle orecchie. E in più è timida, e le sue presentazioni dei brani naufragano regolarmente in un conclusivo “e... beh... niente”. Ma è l'autrice della maggior parte dei brani proposti, e appena comincia la musica si trasforma in una cantante grintosa, con una grande estensione vocale, e perfino movenze musicalmente sensuali. Gran belle canzoni, di quelle che piacerebbe vedere in qualche tipo di classifica, con composizioni che si impongono con naturalezza e autorevolezza già dal primo ascolto. Il genere è il soul con inflessioni british e il rythm'n'blues e oltre ai brani composti dalla frontwoman nella scaletta appaiono alcuni brani dell'ispiratrice anglo-giamaicana Jorja Smith. Alle spalle della cantante, un'implacabile macchina da musica con chitarra (Tommaso Caccia), basso (Giuseppe Viscomi), tastiera (Pietro Garcea, anche alla tromba) e batteria (Alex Canella). Il gruppo si è formato al Conservatorio di Milano e non ha ancora inciso nulla. Lorr mi dice che qualcosa è in preparazione, intanto stanno creando l'hype. Da tenere d'occhio; il pubblico li ha accolti con un calore che ha stupito loro stessi (“Siete probabilmente il pubblico più caloroso che abbiamo avuto”). Non è una sorpresa ma una nuova riconferma invece quella di Cosimo & The Hot Coals, che abbiamo già avuto il piacere di ascoltare diverse volte. Cosimo è in smoking, gli Hot Coals in giacca cravatta e panciotto. Sono giovani (anche loro vengono dal Conservatorio di Milano), ma la loro passione è il sound di New Orleans. Di ascolto in ascolto però si stanno sempre più staccando dal repertorio tradizionale per proporre sempre più brani originali, composti da loro, con testi in italiano e musica in rigoroso stile hot jazz. Cosimo è sempre più mattatore, con baffetti, capelli impomatati, la voce perfetta per il ruolo e un talento per la tromba, a metà tra scanzonato speakeasy e elegante vaudeville, tra la tromba di Armstrong e l'strionismo di Cab Calloway, tra il citazionismo e l'ironia di Buscaglione e Carosone. Tra una canzone sui luoghi comuni e una sull'onnisapienza d'epoca Covid, ma sempre con souplesse e leggerezza, Cosimo (Pignataro) trova disinvolte spalle per le sue gag nei complici Martin Di Pietro (piano) e Stefano Della Grotta (chitarra e banjo), mentre nelle retrovie Mirko Boles e Michele Capasso al contrabbasso e alla batteria svolgono con serietà e competenza il loro dovere ritmico. Bis, ovviamente, con When the Saints Go Marchin' In e pubblico in visibilio. Il loro ultimo album si intitola, appunto, Speakeasy. Si sono incontrate al Conservatorio di Ferrara le tre ragazze che hanno scelto l'accattivante nome di Le Scat Noir per il loro progetto tutto al femminile. Si tratta sostanzialmente di un trio vocale, ma solo Ginevra Benedetti si limita a usare la voce, mentre Sara Tinti suona anche la tastiera e Natalia Abbascià usa il violino suonandolo con l'archetto, a pizzico, o a percussione. Il trio usa comunque anche la bocca, le mani, il petto, le guance per produrre il proprio sound e il proprio ritmo. Le Scat Noir fondono nel loro programma, amalgamandolo col loro stile particolare, generi diversi, passando con disinvoltura dal gospel alla canzone brasiliana (con un Djvan già rifatto dai Manatthan Trasfer), dalla Nuvolari di Dalla (che speravo di sentire eseguire da Servillo e orchestra nel concerto di cui parlerò dopo, magari come bis fuori programma) alle canzoni popolari franco-canadesi, dalle composizioni originali (una sulla preparazione della zuppa di cipolle) fino a It Don't Mean a Thing di Duke Ellington, tutto con armonizzazioni originali e audaci, del tutto prive di timore reverenziali verso i mostri sacri. A volte effervescenti e a volte lunari, secondo le loro stesse parole - capaci di ammettere di essersi impappinate, con il sorriso sulle labbra e il divertimento nell'anima - tre belle e intrepide voci complementari che lasciano il pubblico ammirato. Gli Arianna Masini & the City Flowers, gruppo formatosi nella Civica Scuola di Jazz, si presentano invece con una formazione essenzialista alla Carmel, con voce, contrabbasso (e basso elettrico) e batteria. Il programma prevede un pout pourri che spazia tra composizioni originali anche in italiano (come quella in cui si mescola fame d'amore e fame di pasta al sugo; evidentemente le compositrici amano mescolare musica e riflessioni sentimental-culinarie) e in inglese, qualche standard jazz, un'ampia parentesi brasiliana e alcuni hit celeberrimi come Via con me di Conte o un brano dei Police. Arianna ha una gran bella voce e una notevole grinta, ma a lasciarmi qualche perplessità è stata proprio qualche scelta di repertorio e il trattamento riservato ai brani più famosi: va bene accelerarli, ma a volte si rasenta la sbrigatività, con la chiusura dei versi quasi tronchi in calando, come se prevalesse l'urgenza di tirare avanti. E' comunque una voce che mi farebbe piacere risentire. Il concerto si è tenuto nel bar dello Sheraton Milano San Siro, che ospita il ristorante di Javier Zanetti e sorge sul margine verde della città, dove si possono incontrare anatre e scoiattoli. In un'altra area verde, il parco che circonda l'ex-istituto psichiatrico Paolo Pini, che ora ospita un ristorante gestito da Olinda, abbiamo ascoltato all'aperto la Lazy Sloths Jazz Band, un gruppo molto giovane che avevamo incrociato al loro esordio in Jazzmi due anni fa. Stavolta sono non poco penalizzati dall'afonia del loro ironico portavoce, Giacomo Bertazzoni, che per fortuna però conserva il fiato necessario da dedicare al proprio sassofono e comunica con il pubblico con appositi cartelli con scritto “Salve” o “Grazie”. Jazz della tradizione di New Orleans, con basso tuba, chitarra e banjo oltre al sax. Una band simpatica, che necessiterebbe, visto anche il genere prescelto, un'iniezione supplementare di energia e calore. Allo Sheraton Diana Majestic abbiamo ascoltato invece il programma di standard di jazz moderno proposto dall'Impressions Duo composto da Simona Daniele alla voce e Lorenzo Barcella alla chitarra acustica ed elettrica. Una formazione minimale, con spazio per lo scat e le improvvisazioni della vocalist. La sala dove si tiene il concerto è abbastanza fredda, ma poco più in là il Diana nasconde il suo gioiello più prezioso, il bel giardino privato dove prendere un aperitivo in una piccola e affascinante giungla addomesticata nel centro di Milano. Veniamo infine ai fuoriclasse. Rincrociamo Gianni Coscia e Gianluigi Trovesi in una location insolita, la chiesa di Santa Barbara di San Donato Milanese, una costruzione di quegli anni '50 in cui sorgeva Metanopoli, che cita nella facciata le cattedrali toscane e che contiene all'interno uno dei più grandi mosaici d'Europa e uno stupendo soffitto che sembra composto di tappeti etnici, concepito da Andrea Cascella. Coscia e Trovesi sono due maestri ottuagenari (facendo la media dell'età), che non hanno più nulla da dover dimostrare e che propongono con eleganza e sicurezza un programma interamente ispirato alla musica degli anni '30 e 40, girando intorno alle suggestioni contenute nel romanzo di Umberto Eco - ampiamente autobiografico – La fiamma della regina Loana, cui forniscono un'apocrifa colonna sonora intitolata naturalmente La musica della regina Loana. Un omaggio sentito e doveroso: sia Coscia che Eco sono originari di Alessandria e coltivarono una grande amicizia e lo scrittore dedicò vari scritti al percorso musicale del duo. Il fisarmonicista e il sassofonista giocano il loro collaudato e affiatato interplay non solo attraverso gli strumenti, ma anche con un continuo scambio di battute contrassegnato da cultura, ironia e bonomia, rileggendo a modo loro alcuni episodi musicali, sia americani che italiani, del periodo pre- e postbellico: da Basin Street Blues a Moonlight Serenade, da un medley di canzoni italiane d'epoca (durante il fascismo il jazz in Italia era ufficialmente proibito, ma a Coscia sarebbe molto piaciuto che queste canzoni “travestite” diventassero degli standard jazzistici come meritavano), fino all'inno dei sommergibilisti che gli amici intonavano nelle serate goliardiche a casa Eco. In una sede più tradizionale, nell'enorme Teatro Dal Verme, era ambientato invece il concerto dedicato ad un album storico della canzone d'autore italiana, Anidride solforosa, musicato da Lucio Dalla su testi del poeta bolognese Roberto Roversi. Era il 1975, e la musica pop incontrava inevitabilmente l'impegno politico e sociale. Concerto bellissimo. Unico elemento scenico uno schermo con ciminiere disegnate che si colorano di rosso o di blu; Mario Tronco (ora direttore dell'Orchestra di Piazza Vittorio, già tra i componenti originari della Piccola Orchestra Avion Travel) arrangia i brani avvolgendoli in un sound che ha l'energia del presente e il fascino delle perimentazioni di Dalla; e Peppe Servillo resuscita i versi di Roversi facendogli omaggio della sua istrionica ma raffinata teatralità. Il sodalizio Dalla-Roversi dura lo spazio di tre album. Poi il rigore di Roversi comincia a stare stretto a Dalla che cerca una dimensioni più accessibile e popolare. Per cui mentre io spero in un bis con Nuvolari, presente nel successivo album Automobili, Servillo salta a Disperato Erotico Stomp, quasi un'irriverente rivendicazione di libertà e disimpegno del “nuovo” Lucio Dalla.
In bilico tra Avion Travel e Orchestra di piazza Vittorio, oltre a Servillo in scena e Tronco dietro, nel gruppo sul palco (tutti in tuta da metalmeccanico) ci sono Peppe D'Argenzio (sax), Marcello Tirelli (tastiere), Emanuele Bultrini (chitarra), Pino Pecorelli (basso), Davide Savarese (batteria) e Kyung Me Lee (i fan di Zoro la vedono ogni venerdì in tv nella Propaganda Orchestra). |
AutoreMauro Caron possiede, tra i suoi molti talenti, quello della culturagenerale. Tra gli altri suoi pregi, è superficiale, non sa parlare in pubblico (intendendosi per pubblico assembramenti di persone da una in su) - ecco perché la scelta del blog -, è pigro ed incostante - ecco perché il blog non durerà. Archivi
Aprile 2024
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