UNE SAISON EN FRANCE di Mahamat-Saleh HarounIl Festival del Cinema africano, d’Asia e America latina è sulla linea di partenza. Il programma delle proiezioni parte domani con il film d’inaugurazione, ma già oggi si può gustare un antipasto con tre mostre (Tchamba, con foto di Nicola Lo Calzo, AfricaAfrica a Palazzo Litta, e una mostra fotografica realizzata da laboratori di studenti) e, in serata, con il concerto rock-blues-folk dei Strange Silver Man. Fino a oggi, poi, è possibile acquistare on line l’abbonamento per tutte le proiezioni del festival a prezzo ridotto. Domenica 17 invece si entra nel vivo con la proiezione nell’opening night, in anteprima italiana, di Une saison en France. Il film è diretto da Mahamat-Saleh Haroun, regista di origine ciadiana, già ospite fin dai suoi esordi del Festival del Cinema africano e i cui precedenti film hanno raccolto premi ai festival di Venezia e di Cannes, oltre che il premio Fellini assegnato dall’Unesco. Il film racconta una storia di ordinaria immigrazione. Il protagonista è sfuggito alla guerra centrafricana, in cui ha perduto la moglie, e ha raggiunto la Francia insieme ai due figli piccoli. Insegnante in patria, a Parigi si guadagna da vivere scaricando casse al mercato, ha trovato casa e intrattiene perfino una relazione con una donna francese, Carole, che in lui ha riconosciuto un uomo buono e gentile. Ma la vita di Abbas non è semplice: da una parte vive nel doloroso e inconsolabile ricordo della moglie perduta, dall’altra nell’angoscia di non poter garantire un futuro sereno e sicuro ai propri figli (che nutre a omelette). E la situazione peggiora quando le corti francesi rifiutano ripetutamente la sua richiesta d’asilo. Il film mantiene un ritmo piano e disteso, evitando gli accenti più drammatici (riservati alla storia parallela di un amico di Abbas, un intellettuale che vive in una catapecchia in riva al fiume), descrivendo con pacata partecipazione l’alternarsi di paura e speranza, angoscia e intime gioie famigliari (con la lunga sequenza della festa di compleanno di Carole) del protagonista, trasformando quello che nell’immaginario comune è lo straniero (alieno e sconosciuto, potenziale policriminale), in un padre di famiglia, onesto lavoratore, uomo vulnerabile portatore di dolori, paure e speranze con cui chiunque può immedesimarsi. Se ad Abbas viene spesso da piangere, il film ci spinge ad assistere alla storia a ciglio asciutto, mantenendo sotto controllo l’emozione ma lasciando intatta la capacità di giudizio e di compassione dello spettatore. Nel medesimo tempo, il regista descrive l’impassibile e impietosa burocrazia francese, incarnata dai commessi incaricato di tenere a distanza i richiedenti asilo mentre si appendono in bacheca i fogli in cui è scritto, nel bene o nel male, il loro destino, o nei poliziotti che si presentano alla porta di Carole, ricordandole che aiutare un clandestino, e cioè esercitare un atto di amore e di solidarietà, può costare in base alla legge francese fino a cinque anni di reclusione. Il terreno desolato che ospitava la “giungla” di Calais, sulla quale si chiude il film, rischia di essere una metafora del destino del cuore dell’Europa: desertificato e arido, privo di qualsiasi traccia di umanità. Efficace il cast, con il dolente Eriq Ebouaney nei panni di un uomo grande, grosso e fragile, e Sandrine Bonnaire, rivista dopo parecchi anni, con la sua apparente durezza che si apre in improvvisi squarci di dolcezza. Una nota particolare poi per la piccola Aalayna Lys, e la sua bella naturalezza. Leggi le recensioni dei film delle sezioni: "Finestre sul mondo" (lungometraggi in concorso) "Flash", "E tutti ridono" e "Cortometraggi africani"
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UNA DONNA FANTASTICA di Sebastián LelioSantiago del Cile, oggi. All’inizio del film vediamo Orlando andare a prendere Marina, che canta in un locale notturno. I due si conoscono, hanno una relazione. Li vediamo andare al ristorante, poi rientrare a casa. Si baciano più volte, vediamo l’inizio di un rapporto sessuale. Di notte, Orlando ha un malore. A nulla vale la corsa in ospedale. Mentre vediamo Marina affrontare il duro colpo della perdita improvvisa e inaspettata della persona amata, cominciamo a renderci conto (a che punto?) che Marina non è una donna come le altre. Marina è una donna fantastica allo stesso modo in cui parliamo di creature fantastiche; creature cioè che esistono nell’immaginario, che hanno forma e figura, ma che non esistono nella realtà. Una chimera, la definisce la moglie di Orlando al loro primo incontro. La scommessa – vinta -, prima di sceneggiatura (premiata a Berlino) e poi di regia di Sebastian Lelio, che già aveva raccontato una storia di solitudine femminile dedicata ad una bruttina stagionata in Gloria, è precisamente questo: mettere al centro dell’inquadratura un corpo con il quale non possiamo identificarci (e che lascia disorientati anche molti dei personaggi del film, incerti tra desiderio e ripulsa, tra solidarietà femminile e incapacità di comprendere), e al centro della drammaturgia un personaggio con il quale invece empatizzare, alle prese con l’esperienza comune e a tutti comprensibile del lutto per una persona cara. Una scena mostra icasticamente la doppia natura di Marina, la sua doppia immagine e la sua doppia identità: nella sauna entra, uomo con immagine da donna, nella sezione femminile; quindi, raccolti i capelli dietro la nuca, passa con immagine da uomo nella sezione maschile. E’ l’attraversamento di un diaframma in cui sembra di vedere l’immagine e il suo negativo, una faccia e la faccia opposta. Lelio non inquadra mai le parti sessuali di Marina, rispettandone il pudore e il segreto; ma, di nuovo, trasla il suo dilemma attraverso le immagini: l’uso della metafora degli specchi non è certo nuovo quando al cinema si parla di identità doppie o scisse, ma Lelio la usa con pertinenza, coerenza e una certa raffinatezza. Non solo l’immagine di Marina si riflette, si sdoppia, si moltiplica, si frantuma più volte durante il film. Durante una scena sospesa la donna-chimera si trova in mezzo alla strada, immobilizzata davanti ad uno specchio trasportato da due operai, che ne riflette per qualche attimo l’immagine mobile e deformata. In un’altra scena, ancora più esplicita, Marina scruta il proprio volto riflesso da uno specchietto tondo che le copre il pube. In un altro momento ancora sarà nel finestrino di una macchina che Marina esplora il proprio volto, sconciato dal nastro adesivo dopo un’aggressione violenta, per trovarvi le sembianze di quel mostro che taluni sembrano e vogliono vedere in lei. Si perdona volentieri al film qualche inessenziale scena onirica o fantasmatica, mentre è efficace la polimorfa colonna sonora di Matthew Herbert; nel film fa capolino anche Luis Gnecco, interprete del Neruda firmato da Pablo Larraín , che produce questo film (insieme anche alla Maren Ade autrice di Vi presento Toni Erdmann); ma è sul viso, sul corpo, sulle movenze di Daniela Vega che si gioca l’intera partita del film: impegnata nel doppio salto mortale di essere una donna che recita un uomo che si vuole donna. L'INSULTO di Ziad DoueiriUna lite da strada, qualche parola grossa; una cosa che potrebbe capitare a chiunque, dovunque: ma siamo a Beirut, al centro di un Medioriente mai pacificato (oggi infiammato ancora una volta da Trump che ha gettato benzina sul fuoco sostenendo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele) e i contendenti sono un meccanico libanese che cerca nella politica xenofoba una rivincita rispetto ai torti subiti nel passato e un palestinese, buon capocantiere ma segnato dal marchio di profugo e in quanto tale odiato e non desiderato. La lite tra i due riapre ferite mai rimarginate, la lunga, interminabile, insanabile, indecidibile catena dei torti subiti e che collega strage a strage, vendetta a vendetta. La questione personale diventa collettiva, politica, storica, si allarga a macchia d’olio, diventa la palla di neve che provoca una valanga che rischia di travolgere gli stessi protagonisti, in parte al di là della loro stessa reale volontà. La frattura separa i sessi, le donne conciliatrici contro la bellicosità e il senso dell’onore maschili, e le generazioni, i vecchi contro i giovani (in tribunale si affrontano dal banco degli avvocati padre e figlia; mentre la caparbietà del meccanico libanese finirà per mettere in pericolo la vita della sua stessa figlia neonata, tanto la forza del passato è in grado di scardinare non solo la logica del presente, ma anche le prospettive di futuro); invade le case, si insinua sotto le lenzuola, entra nei sogni e negli incubi dei protagonisti. Quanto la situazione sia incasinata e incandescente lo dimostra il cartello posto all’inizio del film, che dichiara che le opinioni espresse nel film sono solo quelle dell’autore e non quelle dello Stato o delle istituzioni libanesi; cosa che non ha impedito che il regista, di ritorno dal Festival di Venezia, venisse comunque arrestato con accuse di collaborazionismo con l’eterno nemico israeliano a causa del suo precedente film, The Attack. Ziad Doueiri governa una sceneggiatura ottima, da lui stesso firmata, che racconta un crescendo apparentemente inarrestabile, che però un semplice gesto, o una sola parola, basterebbero ad interrompere. Kamel El Basha ha vinto la Coppa Volpi per la sua interpretazione dell’antagonista palestinese Yasser, un riconoscimento forse eccessivo per un ruolo certamente centrale, ma in un film che, se non è corale nel senso pieno del termine, distribuisce comunque tra diversi personaggi il peso delle responsabilità drammaturgiche. Bellissima oltre che brava Rita Hayek, che interpreta la moglie del meccanico libanese. Per una mia scheda più approfondita, vi rimando al prossimo numero di Segnocinema, in uscita a gennaio... UN APPUNTAMENTO PER LA SPOSA di Rama BurshteinRama Burshtein fa uno strano cinema, tutto interno e rivolto alla comunità ortodossa ebraica (e a volte riservato al pubblico femminile). Fin dal primo film, comunque, La sposa promessa, in cui già si parlava di un matrimonio che s'aveva/non s'aveva da fare, ha subito conquistato l'attenzione della critica cinematografica internazionale (soprattutto per i meriti formali e per l'interpretazione della protagonista, premiata con la Coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia) e una sia pur limitata distribuzione, mettendo lo spettatore occidentale a disagio nei confronti di un film che, di fronte alla contrapposizione tra libertà individuale e obblighi sociali derivanti da arcaici precetti religiosi, non prendeva a priori partito a favore della prima. A differenza dell'opera prima, drammatica e intimistica, Un appuntamento con la sposa appartiene di diritto al genere della commedia ebraica, con una sceneggiatura ben scritta e ben interpretata, con dialoghi brillanti che spesso si spingono ben al di sotto della superficie e con attori (la brava Noa Koller ovviamente in testa) che spesso nascondono sotto i sorrisi un certo male di vivere. Michal, una donna brillante che vive a Gerusalemme, religiosa ma moderna, intraprendente e simpatica ma non particolarmente avvenente, viene lasciata all'improvviso dal promesso sposo. Ma non potendo più sopportare la propria solitudine, fissa comunque la data del matrimonio, manda 200 inviti, prenota la sala ricevimenti e si prova l'abito: ha 22 giorni di tempo per trovare un nuovo marito (una determinazione allo sposalizio a tutti costi che ricorda un po' quella della Sabine de Il bel matrimonio di Rohmer). Che non si tratti di una classica marriage comedy hollywoodiana d'altra parte è intuibile fin dalle prime sequenze. A cominciare dallo stile di ripresa, con una camera a mano mobile e instabile che dà un senso di insicurezza e di precarietà anche alle sequenze più domestiche. Ma soprattutto per la volontà di scavo e di analisi che è degli stessi personaggi ancor prima che della regista. Nelle prime sequenze Michal mette alle strette il fidanzato finché questi non le confessa di non amarla; in un'altra è lei a essere incalzata da una maga che con insistenza sviscera (letteralmente: la donna, durante quella che sembra più una seduta analitica che un rito, sporca il viso della giovane con delle interiora di pesce) le motivazioni, consapevoli o nascoste, e che si rivelano essere sia esistenziali che sociali, per cui Michal vuole arrivare a un matrimonio qualunque sia. L'elemento paradossale, quello che porta alla commedia, nasce appunto nel punto di congiunzione tra due degli elementi già citati. Da una parte c'è quest'ansia tutta ebraica (dalla ricerca cabalistica a Freud) di analizzare, di trovare le motivazioni ultime degli eventi e dei comportamenti (finanche quelli divini, in quanto i dibattiti sul folle progetto di Michal sconfinano spesso in ambito teologico, interrogandosi sulla bontà e sulle scelte di Dio, che si interseca con quello psicologico, dove la protagonista presume o spera di essere l'eletta che beneficerà dell'aiuto miracoloso della divinità, qualora non dovessero bastare la buona volontà e lo zelo - propri e di amiche, sensali e parenti -, tutte impegnate a trovare l'uomo giusto per lei); dall'altra parte c'è il time-lock che pone a questo proposito esistenziale una scadenza ben precisa, fissata una volta per tutte e sciaguratamente ravvicinata. Dal contrasto tra questi due elementi nasce non solo l'umorismo (che somma quello di situazione a quello di carattere), ma anche la suspense, che, tenuta a freno con vari diversivi e false piste durante tutto l'arco del film, si impenna in modo esponenziale man mano che si avvicina il finale, e che il malessere della protagonista di fronte a una prospettiva fallimentare e pubblicamente infamante monta fino a contagiare con un autentico senso di disagio anche lo spettatore. Fino all'ultimo il racconto di una solitudine femminile (che si autoimpone i limiti ristretti di una scelta religiosa radicale) - sensibile anche se ironico, malinconico anche se divertente, problematico anche se disinvolto -, lascia lo spettatore incerto sul genere di appartenenza del film: potrebbe essere una favola romantica dai toni dolce-amari e con il lieto fine di prammatica; oppure il racconto ironico, crudele e spietato su una donna che, sfidando se stessa, Dio e il destino, ha voluto osare troppo. Per saperlo, dopo che la suspense avrà raggiunto il punto più ardito del suo climax, dovrete aspettare gli ultimi minuti del film. Altre storie di donne (palestinesi) nella Israele dei nostri giorni in LIBERE, DISOBBEDIENTI, INNAMORATE: leggi la recensione di Intothewonderland: Sex and the City in Tel Aviv http://intothewonderland.weebly.com/hollybloog-cosa-cegrave-da-vedere/sex-and-the-city-in-tel-aviv IL CITTADINO ILLUSTRE di Gastón Duprat e Mariano CohnCosa succede se il premio Nobel per la letteratura, sinceramente annoiato da tutte le celebrazioni, la mondanità e perfino dall'ambiente genuinamente culturale e intellettuale dell'intero pianeta decide per un impulso improvviso e irrefrenabile di tornare per un breve periodo nel suo paese natale, Salas, un villaggio dell'Argentina profonda, da cui è fuggito insofferente decine di anni fa ma che è rimasto vivo nella sua anima ad alimentare costantemente la sua vena creativa? Succede che all'accoglienza trionfale, anche se un po' intimidita, fanno seguito conflitti sempre più pesanti e aperti. Gastón Duprat (anche sceneggiatore) e Mariano Cohn (anche fotografo) non hanno dubbi sulla parte da cui schierarsi, e non è detto che sia la più scontata. Tonnellate di film avrebbero scelto sicuramente la strada della commedia sentimentale buonista, dove l'intellettuale inaridito e snob, a contatto con la vita semplice e genuina dei vecchi compaesani, che vivono più col cuore che col cervello, avrebbe riscoperto i veri valori della vita, avrebbe magari rimparato ad amare e avrebbe riconquistato la perduta vena creativa. Niente di tutto questo ne Il cittadino illustre, dove lo scrittore Daniel Mantovani, dal carattere tutt'altro che tenero e accomodante, ma ben disposto ad abbandonarsi per qualche giorno all'affetto e all'ammirazione che i vecchi compaesani si aspetta debbano tributargli, si trova immerso in una comunità vischiosa che si rivela sempre più ostile mano a mano che emerge l'indisponibilità del concittadino di fama e successo ad assecondarne le aspettative. Perché presto appare chiaro che ognuno da Mantovani si aspetta e pretende qualcosa; dal sindaco che lo vuole sfruttare per migliorare la propria immagine, alla giovane che gli si concede sperando di aprirsi una via di fuga dall'asfittica vita provinciale, al pittore mediocre che pretende la gratificazione da parte di un critico di prestigio, al vecchio amico che vuole vendicarsi del suo successo sbandierandogli la preda sottratta, e cioè l'antica fidanzata di Daniel, ora sposata con lui che la esibisce come una sorta di ostaggio o di alternativo status symbol. Tutti si presentano a Mantovani per chiedere: anche soldi, o financo l'umile soddisfazione di veder riconosciuto nei personaggi di fantasia dello scrittore l'eco di un parente che potrebbe averli ispirati. Duprat e Cohn fanno mantenere a Mantovani un atteggiamento dignitoso, a volte perfino duro, quando rifiuta l'aiuto economico a un disabile, a volte perfino grottesco, come quando elogia un quadro di un concorso di pittura (purché visto dal retro, dal momento che è stato dipinto su un manifesto pubblicitario riciclato, e quindi inconsapevolmente allude al rapporto tra arte e mercificazione); ma sempre dettato da una rigorosa onestà intellettuale. La rigidità di Daniel si scontra con una dimensione provinciale descritta come gretta, meschina, mediocre, interessata nel migliore dei casi alla personalità di fama piuttosto che al contributo culturale e intellettuale che questa potrebbe portare in dono alla comunità. La curiosità deferente e sospettosa di cui è fatto oggetto all'inizio si trasforma ben presto in distacco (il numero delle persone presenti alle sue conferenze diminuisce a vista d'occhio), poi in contestazione, infine in ostilità aperta e eclatante. La commedia buonista che avrebbe potuto essere si rivela invece una commedia nera, agra, a tratti sgradevole, problematica. Alla fine sembra quasi naturale che finisca in tragedia, alla Scene di caccia in Bassa Baviera, con il protagonista che diventa letteralmente (e cioè con un processo inverso a quello letterario che lui padroneggia così bene) la preda sacrificale di una comunità belluina e barbara che non accetta il diverso. Una tesi e un posizionamento “politici” non facili da accettare, ma che conferiscono al film a sua volta un'aura di originalità e di sincerità morale e intellettuale. La commedia agra strappa qualche volta sorrisi a labbra tirate, ma stimola la riflessione. Oscar Martínez si è aggiudicato con la sua interpretazione nel ruolo del protagonista la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia; ma la regia del film, malgrado quattro mani al lavoro, è piuttosto sciatta e scialba. L'unico guizzo registico, alla fine, rimane quello dei concittadini che, accogliendo Mantovani, mostrano con orgoglio un filmato in power point che ne ripercorre la vita e la carriera: orribilmente kitsch, ma che commuove Mantovani fino alle lacrime. Per un attimo, la vendetta dell'antiestetica, la rivalsa del sentimentalismo e del cattivo gusto che riescono a generare emozione in chi ha creduto di poter relegare i sentimenti nella sfera chiusa dell'estetica. RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA di Hirokazu Kore-edaHirokazu Kore-eda imposta spesso le sue analisi cinematografiche sulla famiglia nella società giapponese (scelta tematica per cui viene spesso accostato a Ozu) sull’espediente dell’estraneo. Per limitarci ai tre film distribuiti in Italia negli ultimi anni (la sua filmografia, che data dall’inizio degli anni ‘90, sfiora la ventina di titoli), in Father and Son, in Little Sister, in Ritratto di famiglia con tempesta, la molla narrativa è sempre la stessa: si prende una famiglia più o meno tranquilla e si introduce un corpo estraneo, e si osservano le reazioni: nel primo è un figlio che un padre scopre improvvisamente non proprio, scambiato nella culla; nel secondo la sorellina che il padre delle protagoniste ha avuto con un’altra moglie. In After the Storm (questo il titolo internazionale di Ritratto di famiglia, quello giapponese, tratto da una canzone, si traduce più o meno con “Più profondo del mare”) l’estraneo è lo stesso padre di famiglia, separato dalla moglie, autorizzato a vedere il figlio una sola volta al mese, autore di un solo libro di successo, e ora impegnato a giustificarsi della sua nuova attività di investigatore privato con il pretesto di raccogliere materiale per un nuovo romanzo. Ma non è finita qui: Ryota non paga gli alimenti alla moglie, ricatta i suoi investigati, tenta di derubare perfino l’anziana madre, sperpera i soldi in scommesse naturalmente perdenti. Sarà la ventiquattresima tempesta della stagione a Tokyo a riunirlo a moglie, figlioletto e madre nella casa di quest’ultima, in una notte in cui fare i conti col proprio passato per superarlo, per accettare il presente e per affrontare a testa finalmente alta un futuro comunque incerto. Può darsi che Oruam Norac vi parli di delicatezza di tocco, di profonda umanità, di un’antimelodrammatica accettazione della vita e di quella elegante saggezza orientale che riemerge anche in un contesto squallido come quello descritto dal film (che evita comunque toni malinconici o drammatici, attestandosi invece su un registro lieve e non privo di umorismo), ma non fa per me. Il regista si prende troppo troppo tempo per descrivere situazioni e caratteri, il film manca di tensione e di concisione. Confesso: io ho superato solo la prova di Father and Son, per Little Sister e per Ritratto di famiglia mi spiace ma rispettosamente passo la mano. OLTRE LE NUVOLE - IL LUOGO PROMESSOCI di Makoto ShinkaiMakoto Shinkai è considerato l’erede di Miyazaki nel mondo dell’anime giapponese. Il suo primo lungometraggio, Oltre le nuvole – Il luogo promessoci, datato 2004, approda sui nostri schermi solo dopo il successo ottenuto dal suo Your name, entrambi distribuiti da Nexodigital. Raccontare la trama di Oltre le nuvole è molto difficile, e io non ho capito tutto. C’è l’amicizia di tre ragazzi, un Giappone diviso in due dopo la guerra, una torre enigmatica oltre confine che raggiunge il cielo, sogni, mondi che sognano altri mondi, ragazze in coma che sognano a loro volta universi paralleli, intrighi internazionali, segnali di guerra, strane fabbriche, esperimenti scientifici, e poi bombe, aerei. Ma tutto parte, e in fondo tutto torna, a una di quelle estati incantate che si vivono solo quando si è giovani, quando si stringono amicizie e nascono amori che dureranno per sempre, quando si fanno promesse per il futuro che, mantenute o no, non si dimenticheranno più. E’ una narrazione che mescola fantascienza distopica e lirismo, avvenimenti oscuri e sentimenti, dimensione onirica e proiezioni parascientifiche. Io, dopo qualche sforzo iniziale, ho fatto così: a un certo punto ho rinunciato a seguire la storia, piena di ellissi brusche e disomogenee, ho cercato di scollegare le orecchie dalla colonna musicale invadente e spesso molesta, e mi sono goduto la visione del film. Perché visivamente Oltre le nuvole è un grande film. Ovvero, il disegno e l’animazione dei personaggi umani è quella tipica dei manga, semplice e stereotipata, ma la descrizione visiva e cromatica dei paesaggi e dei contesti, di carattere invece pittorico, è di grande suggestione. La trattazione della luce è stata una dei punti di innovazione dell’animazione giapponese, a cominciare dalle serie robotiche degli anni ’70. Ma qui la luce diventa una magnifica ossessione, l’oggetto di una ricerca costante, maniacale, che porta a esplorarla in tutte le sue declinazioni. La luce atmosferica, nelle diverse ore del giorno e nelle diverse condizioni metereologiche, l’illuminazione artificiale, e poi tutto quello che riuscite a immaginarvi: il gioco delle luci e delle ombre, le vibrazioni della luce nel movimento, i riflessi, i barbagli, gli scintillii, i bagliori, i luccicori, gli scoppi, i lampi che animano il ventre delle nuvole o ne stagliano i bordi, il sole che tramonta, il cielo che emana luce di pioggia o di neve, l’acqua, il metallo, gli schermi dei computer, e tutto quanto non so elencare a parole. E’ una festa per gli occhi, da gustare anche se, come me, decidete di scollegare cervello e orecchie. La regia di Shinkai gioca poi anche con i tagli delle inquadrature, molto “cinematografici” e non necessariamente asserviti alla lettura delle immagini e degli eventi; il ritmo visivo è sincopato e diseguale, con un montaggio serrato che gioca a volte sull’intravedere più che sul vedere, alternato a sequenze apparentemente più statiche ma sempre percorse da una tensione continua, con l’inquadratura che slitta spesso di lato, in modo il più delle volte quasi impercettibile. Alla fine, nel volo intorno alla torre, il gioco si fa astratto, con l’alternarsi delle superfici Il titolo contiene già un riferimento al cielo e a un altrove utopico. Oltre le nuvole ci regala in effetti alcuni tra i più bei cieli visti al cinema, con inquadrature basse che esaltano la vastità della volta celeste, dove il sole e le nuvole, le ombre e le luci, le scie che lo solcano nella sua altezza o l’esile profilo della torre che sfugge alla gravità terrena dipingono immagini grandiose che si imprimono nei nostri occhi e in qualche modo nella nostra anima. Se c’è un luogo promesso in cui Shinkai riesce a trasportarci, è il mondo della luce. LIBERE, DISOBBEDIENTI, INNAMORATE di Maysaloun HamoudCerto, in un film così conta di più il messaggio politico che quello strettamente cinematografico. Il tema si impone da sé: protagoniste sono tre donne palestinesi in Israele, soggette quindi a una doppia discriminazione, sessuale e etnica (benché quest’aspetto sia decisamente secondario, relegato alle poche battute sull’improbabilità di una relazione mista o nel rimbrotto del capo che non vuole che i lavoranti in cucina parlino tra loro in arabo perché questo potrebbe infastidire i clienti). Leila e Salma dividono un appartamento a Tel Aviv e vivono una vita libera e disinibita, tra look audaci o alternativi, discoteche, alcol, droghe e amori occasionali. Noor è una ragazza mussulmana velata che arriva dalla provincia e sarà loro ospite per un po’ di tempo. Sono tre giovani donne di livello sociale e culturale non basso (Leila è un avvocato, Salma è un inserviente nei ristoranti ma lavora anche come disc jockey, Noor è una studentessa di informatica), che vivono con fastidio o con disagio le costrizioni della condizione femminile in un contesto di tradizioni sociali e familiari sentite come arcaiche: Leila vorrebbe trovare un uomo che la accetti così com’è e non la costringa a cambiare il suo stile di vita per renderla “presentabile” alla propria famiglia; Salma vorrebbe vivere liberamente la propria omosessualità e Noor si accorge che il suo promesso sposo è un bigotto ipocrita autoritario e violento. Si tratta di rivendicazioni forti, di questioni che nemmeno in Occidente sono così pacificamente acquisite, e vissute con qualche contraddizioni dalle stesse protagoniste (Leila pretende di tenere una condotta alternativa ma aspira anche all’accettazione, Salma va a flirtare con la sua nuova conquista sotto il naso dei familiari – di religione cristiana – con le prevedibili conseguenze). Le tre donne (qualcuno ha compilato un’ardita equazione Tel Aviv : Libere = New York : Sex and the City) sono in between, nel mezzo, come recita il titolo internazionale, o Bar Bahar, tra terra e mare, come recita il titolo originale: sospese tra modernità e tradizione, tra libertà e convenzioni, tra l’aspirazione a compiere le proprie scelte e il pericolo di subire imposizioni e divieti. Nell’emblematica inquadratura finale le vediamo sedute fianco a fianco, diverse l’una dall’altra eppure avvicinate da un sentire comune, sedute sul bordo di una terrazza sul tetto, i piedi ciondoloni, con in mano i loro drink e sul viso espressioni perplesse. Il futuro è incerto, la strada da compiere è ancora lunga; ma loro ormai si sono già incamminate. Maysaloun Hamoud è schierata senza remore dalla parte della modernità e di uno stile di vita e di pensiero occidentale (la stessa timida e inibita Noor alla fine, velo sempre in testa, è sedotta dalla musica e dalla danza di un party promiscuo), anche qualora non dovessero dare – almeno per il momento - la felicità; in patria ha anche affrontato le critiche di chi le ha rinfacciato di raccontare storie di palestinesi utilizzando finanziamenti israeliani. Dicevamo del risultato cinematografico, anche se qui sembra davvero contare relativamente. Il film ha infatti ottenuto un consenso intercontinentale, con premi vinti a Haifa, a San Sebastian, a Toronto, e sicuramente viene percepito diversamente dagli spettatori maschi (che trovano nel film omologhi maschili tutti negativi, tranne un padre comprensivo) e femmine (che trovano nel film personaggi con cui solidarizzare e simpatizzare). Ma la sceneggiatura avrebbe bisogno di una maggiore calibratura (a volte anche rispetto alle motivazioni delle scelte delle protagoniste), la regia (dell’opera prima della Hamoud) cerca la disinvoltura in scene di vita libera e selvaggia un po’ risapute e le interpreti diciamo che non sono delle campionesse di simpatia. Merita attenzione la colonna sonora, che porta alla ribalta una realtà musicale che – da incompetenti - non ci aspetteremmo, afflitti dagli stereotipi attraverso i quali guardiamo di solito al mondo arabo, che spazia dall’hip hop all’electro-folk, in cui sonorità, ritmi e strumentazioni contemporanei entrano in cortocircuito con matrici arabe della tradizione, con la presenza di artisti quali i Dam (palestinesi attivi in Israele), o Yasmine Hamdam, libanese, già presente nella colonna sonora di Solo gli amanti sopravvivono di Jarmusch e sposata con il regista palestinese Elia Suleiman. Del film che ha aperto il festival, I Am Not Your Negro, ho già parlato in questo stesso sito. Raoul Peck, regista di origine haitiane, che ha trascorso parte della sua vita in Congo, ha acquisito i diritti di un saggio incompiuto dello scrittore e saggista James Baldwin e lo ha affidato alla voce di Samuel L. Jackson, costruendo con le immagini, in gran parte di repertorio, un poderoso testo audiovisivo che costituisce il più importante contributo cinematografico al dibattito sulla questione afroamericana in una stagione pure affollata di titoli. Le immagini diventano parte integrante di una critica analitica (fondata anche sulll'autobiografia) non solo dell'ideologia ma anche di un immaginario intimamente compromesso con essa. I cortometraggi africani in concorso hanno offerto uno spaccato non solo di situazioni, tematiche (migrazioni, memorie e radici, metafore politiche, corruzione, condizione dell'infanzia, ecc.) e aree di produzione, ma anche di tecniche cinematografiche: fiction tradizionale ma anche cinema di animazione e found footage, per non dimenticare la sezione New Dimensions (fuori concorso) che ha proposto tre suggestivi esempi di film girati in realtà virtuale: grazie al visore e alle cuffie ci si ritrova immersi in un ambiente virtuale a 360°, di volta in volta in una sperimentazione videoartistica con danze e riprese subacquee (Nairobi Berries, Kenya), in una specie di videogioco in cui lo spettatore è la vittima sotto minaccia (Let This Be A Warning, Kenya) o in un festival d'arte all'aperto a Accra (Spirit Robot, Ghana). Ha vinto il concorso per i cortometraggi Un enfant perdu (di Abdou Khadir Ndiaye, Senegal), che segue l'odissea di un bambino di famiglia borghese che si perde all'uscita di scuola e scopre un mondo per lui sconosciuto. Tra i film che ho visto, sempre in tema di condizione dell'infanzia, ho trovato toccante (anche se forse tecnicamente è il più debole) Une place pour moi di Marie Clémentine Dusa bejambo (Ruanda), su una bambina che al suo ingresso nel mondo della scuola scopre la discriminazione superstiziosa cui ancora oggi sono sottoposte in certe parti dell'Africa le persone albine. Una discriminazione dolorosa cui reagirà mettendo per iscritto le sue semplici parole di bambina in una lettera, che la maestra fotocopierà e distribuirà ai genitori dei suoi compagni di classe. Passando al Concorso per lungometraggi “Finestre sul mondo”, mi è sfuggito purtroppo il film che si è aggiudicato il premio principale, House in the Fields (Marocco) di Tala Hadid, che racconta in forme semidocumentaristiche la vita e le tradizioni di una popolazione berbera dell'Atlante, concentrando la propria attenzione su due personaggi femminili. Perfettamente adeguato invece il premio del pubblico “Città di Milano”, andato a quello che secondo me è il film migliore del festival, El Amparo, una produzione venezuelana-colombiana, del giovane regista Rober Calzadilla. Negli anni '80 una battuta di pesca si trasforma (fuori schermo) in un massacro: verso il confine colombiano l'esercito venezuelano uccide 14 pescatori inermi scambiandoli per guerriglieri. Gli unici due sopravvissuti verranno imprigionati e sottoposti a enormi pressioni perché confessino di far parte della guerriglia, per evitare all'esercito e al governo venezuelano la vergogna di un errore letale. Film di dignità e di resistenza umana, stupendamente calato in una realtà locale ben caratterizzata, che dà risalto ai caratteri principali (la storia, vera, si era tradotta dapprima in un'opera teatrale) ma senza mai dimenticare la dimensione corale, collettiva, politica della vicenda. Una regia fluida, tesa, a suo agio tanto nell'uso della camera a mano nelle movimentate riprese in spazi aperti che negli spazi claustrofobici della prigione del paese, e un cast di attori perfetti. Se proprio gli si vuole trovare un difetto, il film procede in anticlimax, poiché le scene più drammatiche sono concentrate nella prima parte; ma in ogni caso è un grande film. In un'edizione del festival dove stranamente non si è parlato moltissimo, almeno in forma diretta, dei diritti delle donne, spicca A Day For Women (Yom Lel Setat), della regista egiziana Kamila Abu Zekri. In un quartiere popolare del Cairo apre una nuova piscina e, straordinariamente, la giornata della domenica viene riservata alle donne, altrimenti escluse dall'uso dell'impianto. La condizione collettiva, ludica, sensuale della piscina, che permette alle donne di stare insieme, un po' meno coperte del solito, a godere del sole, dell'acqua, della musica, della compagnia reciproca, avrà naturalmente un effetto benefico (salvo suscitare l'irritazione dei fondamentalisti, prontamente rintuzzati però dalla comunità), anche sulle tre protagoniste principali, una vedova inconsolabile che troverà una nuova ragione di vita, una modella per pittori che riuscirà a coronare un vecchio sogno d'amore e una ragazzina disinibita e considerata un po' pazza che a sua volta troverà qualcuno che la capisca e la apprezzi per quello che è. Un film non semplicisticamente propagandistico, ma capace di molte sfumature: la giovane regista si destreggia bene nel maneggiare diversi registri - il buffo, il patetico, il sentimentale, il drammatico – e chiude su una bella immagine subacquea di libertà. Un forte ritratto femminile viene delineato anche nel senegalese Félicité, di Alain Gomis, già vincitore dell'Orso d'argento alla Berlinale: una donna fiera e orgogliosa, ma anche arrogante e presuntuosa, che si guadagna da vivere cantando nei locali, ritrova la sua vita sconvolta da un grave incidente motociclistico in cui rimane coinvolto il figlio adolescente. Molta bella la prima parte, con una tesa linearità iterativa (alla Dardenne, o come certo cinema iraniano), finché Félicité fa di tutto per mettere insieme i soldi che servono all'operazione del figlio; poi il film si disperde e ristagna prima di arrivare a una conclusione. Non è facile in effetti trovare temi comuni tra i lungometraggi del concorso, se non genericamente l'emergere di storie individuali su contesti geopolitici, storici e socioeconomici sempre molto caratterizzati. Un altro dei film più direttamente impegnato in una polemica politica è Santa y Andrés, del cubano Carlos Lechuga. Nella Cuba anni '80 una commissaria del popolo, donna solitaria e segaligna, viene incaricata di sorvegliare Andrés, confinato in un isolamento rurale, scrittore omosessuale e accusato di idee dissidenti. Ovviamente l'incontro tra due solitudini e la conoscenza reciproca porteranno a un ben differente rapporto umano tra i due protagonisti, in una sorta di versione caraibica di Una giornata particolare. C'è il Bangladesh in preda a una crisi economica sociale invece sullo sfondo di Live from Dhaka di Abdullah Mohammad Saad. La situazione è bene impostata, la regia funziona e i due attori protagonisti, maschile e femminile, sono bravi; ma il film è afflitto da due problemi: una fotografia in un bianco e nero scialbo e poco contrastato (molte tra l'altro le scene notturne) e la sequela di sventure che colpisce il protagonista (è zoppo; sta perdendo tutti i suoi averi in speculazioni finanziarie; è perseguitato dai creditori; ha un fratello drogato – che gli ruba i soldi; che muore -; ha una fidanzata di cui è geloso – che rimane incinta; che ha bisogno di soldi per abortire; che non abortisce -; gli bruciano la macchina nei disordini; tenta di espatriare ma gli rubano i soldi, e via così, fino all'ultima sequenza e ben oltre) sono davvero troppe per un uomo solo. Va ancora peggio alla donna di una certa età protagonista di Burning Birds (Davena Vihagun, Sri Lanka) di Sanjeewa Pushpakumara: le milizie paramilitari anticomuniste le trucidano l'incolpevole marito; avendo otto figli da mantenere passa dal lavoro massacrante in una cava di pietre a uno rivoltante in un mattatoio; viene picchiata e stuprata a più riprese e da vari personaggi (tra i quali l'assassino del marito rincontrato casualmente); è costretta a darsi alla prostituzione; i figli vengono scacciati da scuola; viene arrestata e via così fino a un finale di sangue. Il regista cerca la bellezza nella sofferenza con riferimenti estetici alla pittura europea (lui fa i nomi di Caravaggio e di Rembrandt), ma il film è talvolta e nell'insieme piuttosto insostenibile. Molto funereo anche My Hindu Friend (Meu amigo hindu, evento speciale fuori concorso), girato da Hector Babenco (Il bacio della donna ragno, Giocando nei campi del Signore, Ironweed), già ammalato di cancro, che racconta se stesso facendosi impersonare da Willem Dafoe, che, prestigioso ospite d'onore alla proiezione, fa un'ottima figura, elegante, simpatico e cool. La prima metà si svolge prevalentemente in ospedale, in attesa e dopo un trapianto di midollo, ma tutto il film si rivela una cupa preparazione alla morte, anche quando sembra allontanarsene. Tra i molti film di registi che raccontano se stessi, i riferimenti più diretti sono all'All That Jazz di Bob Fosse, o a un altro film-testamento, il Radio America di Robert Altman, in cui la morte si aggirava tra le quinte in impermeabile. Personalmente non amo molto il registro del grottesco, e il film ne fa ampio uso, forse per esorcizzare i temi mortiferi, ma a mio parere con l'effetto di aggravare una situazione già difficilmente sostenibile. Un film decisamente poco riuscito, tra goffaggini di sceneggiatura e perfino di regia; la scena finale con la moglie (reale) di Babenco che balla nuda sotto la pioggia con l'accompagnamento (extradiegetico) di Dancing in the Rain mi ha imbarazzato. Più “leggero”, benché ambientato anche questo in una situazione di disagio sociale, El soñador del peruviano Adrian Saba, che più degli altri guarda a modelli occidentali – sia pure da cinema indipendente -, tra flashforward e sequenze oniriche, nel raccontare la storia di un ombroso adolescente, “fabbro” in una pandilla di scassinatori, che vedrà cambiare la sua vita dopo l'incontro con la sorella di uno dei complici, da lui ferito in uno scontro. E' un bizzarro oggetto cinematografico infine Honeygiver Among the Dogs (Munmo Tashi Khyidron), di Decher Roder. Tra le montagne boscose e nebbiose del Buthan e i suoi centri urbani si dipana un racconto che è di volta in volta road movie, commedia sentimentale, giallo (la trama si avvolge sul caso di una badessa scomparsa, forse assassinata, e sulle indagini di un giovane detective che si mette alle calcagna di un affascinante sospettata), il tutto spruzzato di misticismo buddista. Quindi paesaggi, schermaglie tra i due, femme fatale, visioni oniriche, indagini, colpo di scena, resa dei conti. Forse con un po' di stringatezza in più e nella mani di un regista più visionario avrebbe potuto diventare (a suo modo) un cult... 27° FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA di MilanoIl Festival del Cinema d'Africa, Asia e America Latina, nato 27 anni fa a Milano per iniziativa del Coe (Centro orientamento educativo), sviluppandosi a partire da un'eroica rassegna ospitata al Cinema San Fedele, intitolata “Il lontano presente”, che portava nella nostra città, nel cuore dei rampanti anni '80, cinematografie di cui non sospettavamo neppure l'esistenza, è da sempre un'occasione tra le più preziose per gettare lo sguardo non solo al di là degli steccati della produzione statunitense ed europea, ma anche per aprire delle vere e proprie finestre sul mondo, per ampliare e approfondire la conoscenza di altri mondi, altre culture, altri uomini, donne e bambini che, ci piaccia o no, vivono sul nostro stesso pianeta. Frequentare il Festival non è una vacanza esotica all inclusive; lo spettatore non rimane rinchiuso nei recinti ben protetti dei villaggi globali, ma viene lasciato e spinto a vagare tra terre sconosciute, mondi ignoti, pieni di contraddizioni, di problemi drammatici e a volte tragici, ma abitati da persone che meritano comprensione e rispetto, basilarmente pervasi spesso dai nostri sentimenti, spinti dagli stessi nostri desideri di fondo. E' un viaggio se volete anche impegnativo, da cui si ritorna con molti ricordi e a volte anche con qualche amarezza in più (quest'anno, tanto per dire, non è stata realizzata la piccola sezione di commedie, che negli ultimi anni aveva un pochino alleggerito il programma del festival, tanto per dare un'idea di come vanno le cose nel mondo), ma che vale indubbiamente la pena di fare. I sapori talvolta sono forti, non sempre gradevoli per il nostro gusto, ma almeno non sono la solita minestra riscaldata in chiave hollywoodiana, o i cibi esotici normalizzati e addomesticati per i nostri palati abitudinari. Seguo con grande piacere e interesse il Festival da molti anni e anche quest'anno non mi sono sottratto, concentrandomi soprattutto sui due concorsi principali, vedendo una decina di lungometraggi (prevalentemente dalla sezione intitolata, appunto, “Finestre sul mondo”) e altrettanti cortometraggi (Concorso cortometraggi africani), 3 film in realtà virtuale a 360° provenienti da Kenya e Ghana, per un totale di 17 Paesi di provenienza (senza contare le coproduzioni), un paio di mostre fotografiche, una mezza dozzina di incontri con registi (tra cui Raoul Peck) e con la star hollywoodiana Willem Dafoe (un attore che non si tira indietro davanti a sfide anche ardite, uno che ha recitato con Scorsese, Stone, Friedkin, Ferrara, solo per fare qualche nome), ospite d'onore (piacevolissimo, elegante e spiritoso) in quanto protagonista dell'ultimo film del regista Hector Babenco, che, già malato di cancro, ha lasciato il suo testamento cinematografico con My Hindu Friend. Ah, e una degustazione di piatti e bevande africane, last but not least. Da molti anni, circondate da uno stuolo di collaboratori e di giovani e volonterosi volontari, sono le instancabili animatrici di questa bellissima iniziativa (è il festival di cinema più bello di Milano? direi proprio di sì), Anna Maria Gallone e Alessandra Speciale, che riescono a infondere il loro prezioso entusiasmo a chiunque stia loro di fronte o a fianco, superando con lo slancio della loro passione anche le difficoltà economiche che di anno in anno rendono sempre più impervia l'organizzazione di una manifestazione internazionale, che ogni anno porta a Milano oltre che i film registi, attori e rappresentanti culturali dei Paesi di origine. Seduta a un tavolino della Casa del Pane, il Festival Center situato nel Casello Ovest di Porta Venezia, Anna Maria ci ha raccontato che per la selezione di quest'anno ha visionato 581 film; i prescelti sono poi distribuiti poi nelle varie sezioni che oltre alle due già citate comprendono anche il Concorso Extr'A – Il razzismo brutta storia (film italiani sui temi delle migrazioni e dei razzismi), Where Future Beats, oltre ai Flash, agli omaggi e alle iniziative speciali. E per chi non si accontenta, non c'è solo il cinema: completano il programma serate musicali, presentazioni di libri, conversazioni e incontri, workshop per adulti e per bambini. Sì, ve lo dovevo dire prima; sarà per la prossima volta. Se volete sapere chi ha vinto il Festival, potete andare sul sito ufficiale. Se invece volete leggere la recensione di I Am Not Your Negro, il film cui è spettato l'onore di aprire il festival, uno dei più stimolanti contributi cinematografici al dibattito della situazione afroamericana, diretto dal regista haitiano Raoul Peck sulla base di un testo di James Balwin, la trovate già su questo sito. Dopodiché, nel prossimo post, se siete interessati vi racconto i film che ho visto io. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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