EUFORIA di Valeria Golino Si direbbe che il tema della morte interessi particolarmente la Valeria Golino regista. Dopo aver affrontato il tema dell'eutanasia nella sua opera prima, Miele, torna ora in argomento (parlare di “euforia” è chiaramente un eufemismo) con il suo secondo film. A raccontare il rapporto tra due uomini, paradossalmente (anche se l'inverso è abbastanza comune) sono tre sceneggiatrici donne, la Golino stessa con Francesca Marciano e Valia Santella. I protagonisti sono due fratelli, Matteo e Ettore, rispettivamente un imprenditore estroverso e gaudente, in affari con gli ambienti ecclesiastici e gay dichiarato, e un insegnante mite e depresso. Il riavvicinamento tra i due, ostacolato da opposti caratteri e da divergenti visioni del mondo, avviene in occasione della scoperta della malattia di Ettore. Matteo, deciso a tenere nascosta la natura ferale del male al fratello, si adopera a rendere più piacevoli, sereni e movimentati quelli che potrebbero essere gli ultimi mesi di vita di Ettore. Ne nasce, ovviamente, una commedia di caratteri, sostenuta dalla verve di Matteo ma minata alla base da una programmatica malinconia, affidata a due interpreti praticamente naturali per i ruoli: Riccardo Scamarcio che conferisce fascino, estroversione e superficialità al suo Matteo, e il sempre sotto le righe Valerio Mastandrea (già in tema nella serie tv La linea verticale), che dà ad Ettore il carattere dimesso e malinconico che gli è congeniale. La Golino sembra tuttavia trovare più interessante il personaggio del primo, che è quello forse che nel film subisce la metamorfosi maggiore: mentre Ettore si fa blandamente conquistare da qualche lusinga del fratello ricco e spregiudicato, è Matteo che da una visione della vita puramente edonistica si troverà, volontariamente, a confrontarsi con la realtà del dolore e della perdita. Da questa scelta dipende anche il tono del film, che predilige tutto sommato i toni leggeri della commedia (quelli di Matteo) a quelli drammatici o tragici (quelli di Ettore e della malattia che lo affligge), evitando la retorica melodrammatica e la ricerca programmatica della commozione. La Golino si diverte palesemente a dirigere i suoi due colleghi, ma è ambiziosa anche come narratrice, realizzando un film con diversi personaggi di contorno e di sfondo (nei ruoli femminili sono da citare Isabella Ferrari e Jasmine Trinca), divagazioni narrative e diverse ambientazioni; è un bene, ma nello stesso tempo anche un limite: l'impressione è che a volte il film si disperda in episodi divertiti ma aneddotici e inessenziali (la stessa sequenza d'apertura, l'operazione ai polpacci di Matteo, il pellegrinaggio mariano che rimane privo di conclusione), la cui elisione avrebbe conferito una maggiore stringatezza e una migliore coesione al film.
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SENZA LASCIARE TRACCIA (Leave No Trace) di Debra GranikQualche anno fa a Cortona On the Move vidi una mostra fotografica, “Homeschooled”, di Rachel Papo, sui ragazzi americani che non vanno a scuola. E’ un fenomeno non trascurabile: si tratta in particolare di bambini e ragazzi di zone rurali, i cui genitori per motivi religiosi o politici, o per sfiducia nel sistema sociale più ancora che nelle istituzioni scolastiche, ritengono che l’educazione e l’istruzione che loro stessi sono in grado di impartire (per quanto misera possa talvolta essere) sia sufficiente per i propri figli. Un paio d’anni fa Captain Fantastic raccontava un caso particolare: un uomo che per motivi culturali e intellettuali (anche se distorti in un’impossibile utopia anche a causa di un disagio psicologico) allevava i figli in mezzo alla natura selvaggia, impartendo ai propri sei figli una cultura a suo modo raffinata e di qualità, basata sulla libertà e sull’indipendenza del pensiero; dall’altra le regole dell’autosufficienza e della sopravvivenza, con una disciplina piuttosto militaresca. Con Captain Fantastic Senza lasciare traccia condivide diversi elementi, primo tra tutti l’assenza della figura femminile e materna, che avrebbe potuto garantire l’elemento antropologico domestico e stanziale ai rispettivi nuclei famigliari. Qui la famiglia (scomparsa la madre, evocata in un paio di rapide ma significative di dialogo) è composta solo da due elementi, Will, un reduce da qualche guerra, afflitto da qualche tipo di trauma (alluso con un incubo dove si sente un rumore di elicottero), e la figlia adolescente Tom. Vivono nel profondo di un parco naturale, sfuggendo all’attenzione dei ranger, riparandosi dalle intemperie con un cellophane, cuocendo lo scarso cibo sul fuoco appiccato con l’acciarino, raccogliendo l’acqua piovana, e comprando i pochi beni indispensabili con i soldi ottenuti rivendendo gli psicofarmaci assegnatigli. Per Tom suo papà rappresenta tutto: non solo il maestro e il compagno di vita e di avventura, ma la società intera, il mondo intero, la totalità dei propri affetti. Ma proprio come in Captain Fantastic, sarà il confronto obbligato con il mondo sociale a far deflagrare e divergere quelle che diventano immediatamente e naturalmente due visioni inconciliabili della vita: l’ossessione solipsistica dell’adulto e l’insopprimibile anelito sociale della figlia. Prima in una fattoria in cui Will potrebbe trovare una dimensione congeniale di vita e di lavoro (tra coltivazioni di abeti e allevamenti di cavalli) e Tom un’istruzione, dei contatti sociali, e perfino una nuova dimensione affettiva; poi in un accampamento di dropout che vivono in una comunità solidale nei boschi, l’uomo stenta a trovare requie, ad integrarsi in contesti sociali pur rudimentali, ad adattarsi alla convivenza con gli altri. E’ commovente Tom nel dichiarare nelle diverse situazioni che si trova “bene” o “benissimo”, semplicemente lontana dall’isolamento e dai boschi. Appare chiaro che presto Tom sarà costretta a una scelta da cui dipenderà la sua vita e il suo futuro: continuare a seguire l’amato padre, di cui si sente quasi una costola, una metà; oppure, come Mowgli, abbandonare la jungla e la sua legge per andare a vivere nel villaggio degli uomini. Ambientato in una stagione fredda e piovosa (che la Granik evidentemente predilige per ambientare le sue storie di solitudine sociale e di marginalità), nei boschi suggestivamente fotografati da Mike McDonough, il film si basa su una sceneggiatura laconica scritta a sei mani dalla stessa regista, da Anne Rosellini (anche produttrice) e da Peter Rock (autore del romanzo “My Abandonment”, su cui è basata), che, esattamente come i protagonisti della storia, cerca di fare a meno di tutto ciò che non sia indispensabile. Come si è già accennato, ben poco ci viene detto del passato dei personaggi, tranne poche avare allusioni, mentre il film si concentra sul rapporto viscerale e simbiotico tra padre e figlia e sulla timida scoperta del mondo da parte di quest’ultima, pur non rinunciando a dipingere lo sfondo di un’America marginale e distante da tutto, ma questa volta non negativa. In fondo i servizi sociali funzionano e dimostrano umanità e attenzione, e quasi tutte le persone incrociate dai due vagabondi sono capaci di accoglienza e di solidarietà. A Ben Foster spetta il ruolo più tormentato, ma gli strappa la scena la giovane australiana Thomasin McKenzie, con un’interpretazione sensibile e trepidante che rende il suo personaggio credibile e prezioso. CONTA SU DI ME (Dieses bescheuerte Herz) dI Marc Rothemund.Conta su di me si iscrive d’acchito nella categoria dei feel good movie, sottogenere malattia, filone commovente e anticonvenzionale rapporto tra accuditore sano ed eccentrico e malato conquistato dalla sua irriverente assistenza, che gli fa assaporare malgrado tutto le gioie della vita (esatto, tipo Quasi amici, cui perfino l’immagine della locandina sembra ispirarsi). Lo fa in maniera un po’ teutonica (al posto dell’elefante nella cristalleria qui c’è un bolide sportivo che si tuffa in piscina), entrando subito in tema e in maniera un po’ autoritaria: l’anziano medico costringe a scopo educativo, anzi, rieducativo, il riluttante figlio Lenny (pena il taglio immediato e totale del mantenimento economico), scavezzacollo e sciupafemmine, un gaudente che insieme a qualsiasi forma di fatica e di assunzione di responsabilità ha in fondo rinunciato a qualsiasi forma di affetto sincero, a prendersi cura di un suo giovanissimo paziente, David, un adolescente minato da una serie di malattie terribili che gli lasciano poche speranze di vita. Il ragazzo esprime i propri desideri (che rischiano di essere gli ultimi), che l’altro cercherà di realizzare. Come andrà avanti la storia è facile intuirlo: già l’impatto con l’ospedale dei bambini è scioccante; e poi, tra alti e bassi, tentativi ed errori, crisi e risoluzioni, tra i due giovani finirà per stabilirsi un legame forte e profondo, quasi simbiotico, in cui la sete di vita e di esperienze di David si sazierà alla smaliziata esperienza di vita di Lenny. Ciascuno avrà da guadagnare qualcosa da questo rapporto speciale che finirà per cambiare la visione della vita di entrambi. A proposito di guadagno, bisogna dire che la storia approfitta di un espediente, se vogliamo molto americano, basata sull’importanza che il denaro riveste in questo rapporto terapeutico. Se inizialmente la motivazione di Lenny ad assistere David è innanzitutto di natura economica, sarà poi proprio la sua condizione di privilegiato e la sua disponibilità inesauribile di denaro che gli consentirà – come fosse una fata con la bacchetta magica – di soddisfare molti dei desideri di David, almeno prima di arrivare al nocciolo duro dei bisogni affettivi nella loro diversa declinazione (l’amicizia fraterna, il rapporto con la madre, l’attrazione per una coetanea dell’altro sesso). Convenzionale ma gradevole, con una sceneggiatura prevedibile ma efficiente, il film si basa evidentemente sulla scelta dei due interpreti principali: Elyas M'Barek che ben si presta alla rapida trasformazione morale del suo personaggio, e il giovanissimo Philip Schwarz, che conferisce un commovente entusiasmo allo sfortunato David, che avrà avuto almeno (la storia è ispirata a personaggi reali) il privilegio di aver vissuto intensamente la breve vita concessagli. TUTTI LO SANNO (Todos lo saben - Everybody Knows) di Ashgar FahradiBenché firmato da un autore molto stimato, apprezzato e premiato, l’iraniano Ashgar Farhadi, o forse proprio per questo, Tutti lo sanno, cui è stato concesso l’onore di aprire il Festival di Cannes di quest’anno, ha raccolto almeno in prima battuta una raffica di stroncature. Immeritate a mio parere. Farhadi è uno dei pochi registi iraniani che abbia l’opportunità di girare film all’estero (Panahi ad esempio, di cui uscirà a breve Tre volti, è stato condannato per motivi ideologico-religiosi a noi di difficile comprensione a non scrivere e non girare film e a non espatriare): l’aveva già fatto con Il passato (girato in Francia con Bérénice Bejo), e, dopo aver girato in patria Il cliente, l’ha rifatto ora in Spagna avendo a disposizione due star internazionali come Javier Bardem e Penelope Cruz (al loro quarto film insieme, e con l’aggiunta del divo argentino Ricardo Alberto Darín), e un team di produttori che comprende i fratelli Almodóvar e il nostro Andrea Occhipinti. Impresa tutt’altro che semplice, considerando che Farhadi comunicava con la troupe solo con la mediazione di un’interprete che traduceva in spagnolo le sue indicazioni in lingua farsi. Sta proprio in una visione un tantino folkloristica della Spagna (caratteri focosi, vino, danze e danza – firmata da Alberto Iglesias), vista con uno sguardo esotico (ma in parte giustificata dall’occasione cerimoniale e festosa da cui prende le mosse il racconto, una riunione di famiglia per un matrimonio in un paesino rurale) il difetto forse principale, ma veniale, di Tutti lo sanno. Che, peraltro, è un film strettamente coerente con la poetica di Fahradi. Come sempre, un evento imprevisto (qui meno fortuito che in altre occasioni: il rapimento a scopo di estorsione di un’adolescente, che echeggia la sparizione della ragazza in About Elly) fa esplodere improvvisamente conflitti latenti, che si legano in una catena inarrestabile e in cui le ragioni e i torti dei vari contendenti sprofondano in abissi morali al fondo dei quali è arduo distinguere in modo manicheo il bene dal male. La sceneggiatura firmata dallo stesso Fahradi, forse in questo caso appena meno serrata e necessaria che in altri suoi film, inanella quindi una serie di dialoghi conflittuali tra i vari personaggi, con rivelazioni progressive, in cui la tensione è sempre in crescendo e in cui il peso morale delle scelte individuali si fa sempre più opprimente fin quasi a schiacciarli. Al centro della vicenda ci sono Laura e Paco, con il loro segreto che sembra già diffuso lungo la ragnatela dei rapporti di parentela e sociali all’interno della piccola comunità, dove rancori apparentemente sopiti sembrano ad un tratto rinfocolarsi. Li interpretano con partecipazione ed efficacia Penélope Cruz, che sacrifica il suo brio e il suo sex appeal recitando spenta, affranta e struccata per gran parte del film, e Javier Bardem, che scolpisce con sensibilità un personaggio all’apparenza granitico che scopre all’improvviso di avere piedi d’argilla. Bene in generale il resto del cast, forse un pochino artificiosa l’ambientazione stretta tra il paesino, la vigna al centro di molti conflitti e i panorami dei dintorni: pieni di sole, ma in cui la luce sembra improvvisamente farsi nera, come nel black out simbolico che costituisce il perno narrativo da cui si svilupperà la vicenda del film. Un cinema che sfiora stavolta il noir e il melodramma, ma mantenendo intatto il proprio nucleo etico e umanistico. NOTTI MAGICHE di Paolo VirzìUn titolo indovinato, evocativo e promettente; l’atmosfera di enorme attesa della finale dei Mondiali di calcio del 1990 (con annessa colonna sonora già pronta e la nostalgia pronta a scattare); il mondo del cinema romano; la dolce vita dopo il ’68, le rivolte studentesche, il femminismo, il nuovo edonismo degli anni ‘80; una trama gialla con omicidio e relativa indagine; un romanzo di formazione con protagonisti tre aspiranti sceneggiatori. Gli ingredienti per un grande film, per il Grande romanzo italiano? Forse no, forse troppi per un solo film, costretto a toccare qua e là, senza poter scegliere un genere, senza poter approfondire nulla. O forse sì; ne poteva uscire un pastiche un po’ folle ma intrigante. Ai Manetti Bros, che non sono dei geni, è riuscito ad esempio con Ammore e malavita, dove generi e stilemi diversi convivevano in un miracoloso equilibrio. Ma l’amalgama cercato in sceneggiatura da Virzì, Archibugi e Piccolo qui non è riuscito, ogni idea sembra stare per conto proprio, slegata dalle le altre, ognuna con una propria e autonoma intenzione. L’elemento giallo, che pure fornisce la – non strettamente necessaria – cornice narrativa, appare più che altro pretestuoso e senza interesse intrinseco; i Mondiali di calcio non sono più che qualche pennellata di fondo priva di spessore di senso; il mondo del cinema è descritto con ammiccamenti per conoscitori che lasciano interdetto lo spettatore comune. Il problema di Notti magiche, scendendo ancor più nel dettaglio, è non solo che non funziona l’insieme, ma neppure nessuna delle singole componenti. Non ci importa nulla in fondo sapere chi è l’assassino del produttore maneggione lanciato in fondo al Tevere, spersa com’è la trama gialla in mezzo ai tanti altri rivoli della narrazione; non ci divertiamo a riconoscere la pletora di personaggi reali cui le situazioni e i dialoghi alludono - con il vezzo di citarli con i nomi propri, spesso inequivocabili, ma senza cognomi, come per sfidare la conoscenza enciclopedica dello spettatore, che però si sente ben poco coinvolto, frastornato dalla massa delle citazioni e dalla concitazione dei dialoghi, ma anche privo di quella conoscenza reale delle persone alluse e dei rispettivi caratteri che sola potrebbe renderne godibile il riconoscimento; non ci suscita nulla inoltre la rievocazione sbrigativa dell’atmosfera dei Mondiali; e, fatto forse più grave tra tutti, non si empatizza infine con i tre giovani protagonisti, ridotti alle tre sterili macchiette del proletario livornese estroverso, dell’intellettuale siciliano colto e pomposo, dell’altoborghese romana femminista complessata e frustrata. Ci sono cameo di tanti volti noti (non solo volti: c’è anche Ornella Muti che si solleva la gonna); c’è l’evocazione magica dell’ultimo set di Fellini (citazione in abisso: sembra di rivedere anche il set finale di Otto e mezzo), ma svilita da un’incomprensibile storia di assegni truffaldini. Ovviamente non è tutto da buttare: il ritmo vuol essere ribaldo, gli attori si danno da fare nelle gabbie strette delle rispettive caratterizzazioni (forse è Herlitzka quello che si diverte di più), qualche volta si sorride, a momenti ci si sente gratificati dall’aver colto un riferimento, di essere entrati “nel giro”. Ma tutto sommato è un vero peccato. Virzì aveva azzeccato storia e personaggi con La pazza gioia e non aveva sfigurato nella trasferta hollywoodiana. Dispiace che, di ritorno nel cuore dell’Italia, ma alle prese forse con un materiale troppo intimo e autobiografico da cui ha voluto maldestramente tenere le distanze usando le pinze del grottesco e del depistaggio, le notti che descrive risultino poi così poco magiche. SUMMER (Leto) di Kirill SerebrennikovSummer è dopo tutto un film tenero. Racconta di una stagione passata, di illusioni perdute, di amori persi nel tempo, di ambizioni frustrate. Lo fa adottando la freschezza di stilemi di un cinema però già passato, che non è solo quello della nouvelle vague ma anche di Trainspotting, ma sapendo appunto che si tratta del passato, con un brio che sa già di elegia, una verve che sa già di malinconia. Mettendo delle note a margine dello schermo, dove un arbitro (interno al film ma metanarrativo) ci avverte sinceramente che qualcosa non è accaduto, qualcosa non è andata proprio così come il film con tenera ironia ce la mostra. Nel truffautiano terzetto formato da Mike, rocker già affermato e al centro di una corte di musicisti, aspiranti musicisti e groupies, Viktor, nuova stella emergente, e Natasha, la moglie di Mike attratta dal nuovo arrivato, a farsi carico del coté cecoviano, con il suo inesplicabile atteggiamento di rinuncia e di precoce disincanto, è inaspettatamente il primo. Summer racconta la stagione e la scena del rock russo a Leningrado intorno agli anni ’80, quando il Muro esisteva ancora, separava l’oriente dall’occidente ma non era impermeabile ai nuovi suoni che arrivavano da oltre cortina. Il glam, il punk, le mille sfumature di una stagione fervida del rock occidentale: note che arrivano nel torpido e conservatore panorama dell’Urss, risvegliando orecchie e sentimenti, voglia di novità e di cambiamento, non solo in campo musicale. Ma è ancora troppo presto. I gruppi si esibiscono sul palco ma il pubblico deve stare compostamente seduto, i testi devono essere passare prima al vaglio dei censori, e nemmeno il successo assicura una vita migliore. Citavo il titolo di Trainspotting, e forse anche i giovani sovietici e frustrati protagonisti di Summer passano il tempo a “guardare i treni”, che passano lontano e portano altrove, mentre loro sono ancora impantanati in un sistema politico, sociale e culturale retrogrado e immobilista. Nella mia totale ignoranza sulla storia del rock sovietico, scopro solo ai titoli di coda che si tratta di personaggi e di gruppi musicali realmente esistiti. E le didascalie finali gettano un’ulteriore ombra di malinconia su una stagione di speranze e di illusioni passata davvero troppo in fretta. La mia recensione completa di Summer sul numero 215 di SegnoCinema in uscita a gennaio. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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