TENET di Cristopher NolanForse quando hanno intitolato il film Tenet, oltre che al Quadrato di Sator (una combinazione esoterica di lettere palindrome che si possono leggere sia da sinistra a destra che da destra a sinistra, sia dall'alto in basso che dal basso in alto) pensavano agli spettatori italiani che l'avrebbero interpretato come un “Tenet-evi forte!”. Tenet è in effetti il primo filmone, molto atteso, uscito dopo la buia parentesi (non ancora destinata a chiudersi) dell'epoca Covid, girato in 70 mm e in Imax con grande dispendio di mezzi, set ed effetti speciali. L'operazione pianificata per la realizzazione di Tenet è alla base piuttosto semplice da comprendere: mettere sul fuoco un film di spionaggio e azione alla 007 e farcirlo con l'ossessione per il tempo che caratterizza il cinema di Nolan, che perfino nell'insospettabile kolossal bellico Dunkirk riusciva a intrecciare virtuosisticamente tre linee narrative di durata molto differente tra loro. Del Bond-movie Tenet ha l'intreccio avventuroso-spionistico, il susseguirsi di affascinanti location sparse in giro per il mondo (le ambientazioni dichiarate, che non corrispondono necessariamente ai luoghi reali delle riprese, sono Kiev, Mumbay, Londra, la costiera amalfitana, Oslo, Tallinn, la Thailandia, una città fantasma in Russia), le funamboliche scene di combattimento e di inseguimento, i classici dubbi da spy story chi-lavora-per-chi e chi-sei-veramente, il protagonista cool a proprio agio sia con la tuta d'assalto che con gli abiti di alta sartoria, seducente con le donne e implacabile con i nemici, il mega-malvagio che vuole distruggere il mondo, e perfino il classico assalto finale alla base segreta dei cattivi. Lo schema estremamente classico e convenzionale (ovviamente aggiornato ai tempi) viene però contaminato con l'ossessione per il tempo, la coscienza e la memoria che è l'ossessione di Nolan e oramai forse anche il suo marchio di fabbrica, quello che lo spettatore si aspetta da un film di Nolan e quello che Nolan è disposto volentieri a dargli. E qui le cose si fanno molto meno semplici e lineari. “Non cercare di capire”, la frase detta da una scienziata al perplesso protagonista, potrebbe essere un monito rivolto al frastornato spettatore, e “l'ignoranza è la nostra arma”, frase insensata più volte ripetuta, potrebbe assurgere a claim per il lancio del film. La trovata al centro del film stavolta è un'entropia inversa inventata nel futuro e da lì rilanciata nel nostro presente, per cui gli oggetti che ne sono investiti si comportano secondo una sequenza temporale invertita. Non è chiaro? Facciamo un esempio: se io sparo con una pistola scarica, il proiettile già sparato uscirà dal bersaglio, tornerà alla pistola e rientrerà nel caricatore. La trovata sembrerebbe abbastanza gratuita, non fosse che dopo un po' scopriamo che l'inversione si applica anche alle azioni umane: si entra così in un inestricabile labirinto in cui i protagonisti a volte avanzano nel tempo, a volte lo ripercorrono a ritroso conservando la consapevolezza di quello che è già accaduto nel futuro e quindi con la possibilità di modificarlo a proprio vantaggio, con buona pace dei terrificanti paradossi temporali che si produrrebbero o degli infiniti e ineusaribili universi paralleli che si verrebbero a creare. Siete stati avvertiti già dall'inizio: non tentate (toh, una parola che contiene tutte le lettere di “tenet”) di capire; ogni spiegazione che viene fornita nel corso del film, e sul quale lo spaesato spettatore vorrebbe fermarsi a riflettere un attimo, viene sommersa e spazzata via dalla colonna sonora, dal flusso incessante e travolgente dall'azione (candidatura assicurata all'Oscar nella categoria Miglior montaggio), dai vertiginosi cambi di ambientazione e dal multitasking temporale. Si comincia dalla prima sequenza, fulminante ma incomprensibile nella dinamica dei personaggi in scena; poi nel corso del film si torna più volte sulle stesse scene, da diverse prospettive temporali, e si arriva all'apoteosi del confuso scontro finale in cui “i nostri” sono divisi in squadre che operano sulla stessa scena e “contemporaneamente” nel presente inconsapevole e nel futuro che già sa, contro antagonisti altrettanto diacronici e schizofrenici, con la possibilità anche di passare opportunisticamente da una dimensione all'altra. Non state sbagliando se avete l'impressione che si tratti di un pasticcio, sebbene di alta qualità spettacolare. Come in Inception, anche stavolta la complessità narratologica non è necessariamente un pregio. La trovata dell'inversione temporale appare piuttosto meccanica e naïf (gli effetti speciali a volte fanno pensare a quelli sperimentati da Melies alle origini del cinema; e, se a un personaggio viene appiccato il fuoco, può succedere che geli invece di carbonizzarsi, a causa dell'inversione entropica), la coerenza narrativa è impossibile da sostenere, e non sono rare le battute di comicità non si sa fino a che punto volontaria e autoironica. Se più volte il Protagonista (senza nome, e definito come tale nei credits) si chiede se è effettivamente tale rispetto agli eventi in cui è coinvolto (e non è gratuito pensare che il vero regista sia un onnisciente se stesso del futuro che dirige quasi fosse un attore un se stesso del presente ancora ignaro del copione), lo stesso Nolan forse si è proposto un'inversione metatemporale con la propria opera – coerente con le premesse che facevo all'inizio, a proposito di un film classico contaminato con ambizioni intellettuali contemporanee -: protesa nel futuro (un futuro che nella finzione cinematografica non ci vuole certo bene) attraverso la trama fantascientifica e gli effetti speciali, ma ripiegata sul passato, con una serie di omaggi al cinema del passato. Bond, innanzitutto, ma anche tutti i suoi epigoni alla Mission Impossible (Tom Cruise è stato tra i primi spettatori di Tenet), o anche l'Harry Palmer cui fa pensare la presenza, in un piccolo cameo, di Michael Caine, pure abituale presenza nei film del regista. Avvalora, forse, questa tesi il vero e proprio catalogo di mezzi di trasporto “novecenteschi” (in genere a motore) sciorinato nel film in un'esaltazione futurista del movimento: automobili, furgoni, camion, mezzi dei pompieri, blindati, carri armati, treni, elicotteri, aerei, motoscafi, gommoni, catamarani, navi cargo, panfili...
0 Commenti
e VOLEVO NASCONDERMI di Giorgio DirittiForse ho già avuto modo di dirlo, non amo molto i film biografici. In questo caso poi la sfida affrontata da Diritti (e proposta al recensore) è duplice, dovendosi confrontare non solo con i dati biografici di Ligabue, e dalle tracce audiovisive da questi impresse nei documentari a lui dedicati mentre era ancora in vita, ma anche con l'epocale sceneggiato televisivo realizzato da Salvatore Nocita con una memorabile interpretazione di Flavio Bucci, tale da imporre un imprinting definitivo sulla carriera dell'attore e sulla rappresentazione dell'artista (Flavio Bucci è Ligabue, Ligabue è Flavio Bucci). Il Ligabue di Diritti racconta la vita del pittore dall'infanzia (segnata dall'abbandono, dalla malattia, dall'emarginazione), alla giovinezza nomade e sbandata (trascorsa tra rifugi improvvisati lungo il Po, gli istituti di carità e gli ospedali), alla maturità (con la scoperta, propria e altrui, dell'eccentrico talento pittorico e plastico e alla conseguente affermazione nel mondo dell'arte - senza che questo arrivi mai a significare una vera integrazione sociale) fino alla malattia che lo condurrà ad una morte prematura. Apparentemente Diritti sembra scegliere una narrazione simile a quella utilizzata da Schnabel per raccontare Van Gogh, quindi senza una reale concatenazione logica-narrativa, ma piuttosto seguendo le vicende del protagonista secondo un procedimento paratattico e casuale, con pochi flashback a ricordare le sofferenze dell'infanzia. Pure lo stile di Diritti si discosta da quello di Schnabel: al contrario di questi . artista che racconta un artista - il suo scopo non sembra quello di un'immedesimazione immersiva ed estatica nella mente del suo personaggio. Se la logica frammentaria del racconto può alludere alla dimensione mentale e spirituale non organizzata secondo una logica razionale, Diritti mantiene sempre un certo distacco dal suo personaggio, una distanza dal quale osservare una personalità aliena senza empatizzare troppo. Personalità che, pure, è oggetto predominante del suo interesse, quasi sempre presente sulla scena e nell'inquadratura. Diritti è infatti da sempre interessato a raccontare l'incontro/scontro con un'individualità eccentrica rispetto al contesto sociale in cui si inserisce (sia esso un pastore francese in una comunità agricolo-pastorale nel Piemonte occitano; una bimba muta nell'Appennino bolognese segnato dall'occupazione nazista; una volontaria italiana in una comunità indigena in Amazzonia, o un artista anomalo nell'Emilia rurale e novecentesca in cui Ligabue visse gran parte della sua vita). Se il "corpo estraneo" di Ligabue è una figura a tutto tondo, pur nella sua naïveté indecifrabile, tutte le altre figure sono come appena abbozzate in bassorilievo sullo sfondo, scarsamente riconoscibili e caratterizzate. Non solo: le stesse opere del pittore rimangono visivamente in sordina, mostrate solo per quel tanto richiesto dalla diegesi, per ricevere la dovuta attenzione solo durante i titoli di coda, quando l'ingombrante personaggio di Ligabue è ormai scomparso e non può più monopolizzare l'attenzione del regista. Dopodiché la voglia di raccontare Ligabue di Diritti si accompagna alla bramosia di Elio Germano nell'interpretarlo. Germano prende il personaggio, lo scava dall'interno, lo indossa, si immedesima in lui, e di conseguenza si prende il film, visto che il film è Ligabue. Germano diventa un Ligabue sbilenco, pulcioso, sporco, selvatico, scontroso. I fan di Flavio Bucci possono tranquillizzarsi: non so quale sia l'interprete migliore, ma quello che è certo è che Germano ha affrontato il ruolo con una foga e un coinvolgimento totali. A Hollywood questo sarebbe certamente un ruolo per cui aspirare all'Oscar. Che poi ad un talento naturale e naturalistico come quello di Germano (già Giacomo Leopardi per Martone) convenga applicarsi a ruoli in diversa misura estremi, ma comunque fortissimamente caratterizzati a priori, che inducono invece a una recitazione imitativa e manieristica, è questione tutta da discutere. DOGTOOTH (Kynodontas, 2009) di Yorgos LanthimosLanthimos è greco e alla cultura e alla mitologia greca allaccia il suo cinema. Se con Il sacrificio del cervo sacro dichiara il proprio debito con la tragedia di Euripide, in Kynodontas i riferimenti sono più disseminati, occultati, impliciti. La storia è semplice. C'era una volta una lussuosa villetta, con giardino e piscina, isolata in campagna. C'erano una volta padre, madre e tre figli, un maschio e due femmine. Il padre esce dalla villetta per andare a lavorare come funzionario in una fabbrica. La madre non esce più di casa. I figli ignorano completamente che esista un mondo esterno. Da sempre segregati nella casa di famiglia, non conoscono altri che i loro genitori; non conoscono altro mondo che quello che si estende fino al muro di cinta. Gli aerei che solcano il cielo per loro sono dei giocattoli, e capita che ogni tanto ne cada qualcuno (gettato di nascosto dai genitori) nel loro giardino. Le cose scagliate oltre il muro scompaiono nel nulla. Il mondo fuori è il male, e nasconde pericoli mortali. O così raccontano loro i genitori, che non fanno altro, nella loro visione, che difendere i figli dalla corruzione e dalle brutture del mondo. In casa non esistono film (se non i filmini girati in famiglia e conosciuti a memoria), libri o musiche che non siano quelle suonate da loro stessi. Potrà sembrare una storia assurda (assomiglia quella raccontata da Shyamalan in The Village), eppure la cronaca nera anche recente ha raccontato storie di reclusione e segregazione ancora più atroci. Ma nel mondo platonico della famiglia (dove come nel mito della caverna chi sta all'interno vede solo ombre del mondo reale, senza conoscere veramente gli oggetti e gli esseri che le proiettano, dove i componenti non hanno nomi propri quasi si trattassero di idee universali) si introduce non solo il veleno corrosivo di Eraclito (tutto scorre, niente può rimanere identico a se stesso), ma anche il racconto biblico della tentazione, del peccato, del piacere e della conoscenza. Nell'iperuranio scorre sangue, stavolta vero, non quello fittizio delle favole paterne, e tutto può (o potrebbe, il finale è aperto, ambiguo e pessimistico) cambiare. Kynodontas è un film semplice, povero nelle ambientazioni, con un ridotto numero di personaggi, stilisticamente quasi sciatto (anche se già non mancano le citazioni di Kubrick che torneranno nel suo cinema seguente), con una narrazione parattaticae quasi naïf, astratto e grottesco ad un tempo. Eppure (fu premiato a Cannes nella sezione Un certain regard nel 2009 e candidato all'Oscar per la Grecia come miglior film straniero nel 2011 – da noi viene distribuito grazie a Lucky Red con 11 anni di ritardo, dopo che Lanthimos si è fatto conoscere con The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, La favorita) contiene in sé una serie di suggestioni tematiche e simboliche davvero ricca e stimolante. Se quelli che hanno fatto il classico potranno esercitare le proprie memorie scolastiche e la propria fantasia nel trovare agganci alla cultura greca antica, altrettanto potranno fare i cultori del cinema italiano a cavallo tra gli anni '60 e '70, quello firmato da Pasolini, Ferreri, Bellocchio, Cavani, Petri, Taviani. Quello che, anche con le armi del grottesco e dell'assurdo, era in grado di riflettere icasticamente e filosoficamente su famiglia, società, Stato; sui meccanismi di potere e sui rapporti di dominazione/sottomissione; sul rapporto costi/benefici tra alienazione e benessere nella società capitalistica. Come forse il cinema di oggi non sa più fare. O no (Favolacce)? Se vi interessa o siete incuriositi, continuerò a parlare più ampiamente di Dogtooth – Kynodontas sul numero di novembre di SegnoCinema. VILLETTA CON OSPITI di Ivano De MatteoIvano De Matteo (sempre affiancato in sede di sceneggiatura da Valentina Ferlan) è un autore che seguo con piacere e interesse, impegnato con coerenza nella rappresentazione della società contemporanea e delle sue ipocrisie, partendo spesso da una situazione famigliare, con film non banali e dalla solida drammaturgia. Ho apprezzato la trasformazione quasi in un thriller mozzafiato delle difficoltà economiche e psicologiche di un separato ne Gli equilibristi; la fine descrizione delle dinamiche psicologiche di accettazione-rifiuto del diverso ne La bella gente; la stringente progressione drammatica de I nostri ragazzi, girato praticamente intorno al tavolo di un ristorante. Villetta con ospiti si colloca, tematicamente all'incrocio con questi due ultimi titoli: incentrato sulla reazione di un nucleo famigliare all'irruzione di un corpo estraneo (là una giovane prostituta, qui un ragazzo ferito) come La bella gente, descrive la chiusura a riccio (un riccio dagli aculei d'acciaio) di una famiglia allo scopo di occultare le nefandezze che sono state commesse dai propri membri, come succede anche ne I nostri ragazzi. Purtroppo però in Villetta con ospiti non ho ritrovato né la finezza psicologica de La bella gente né l'implacabile meccanismo ad orologeria drammaturgica de I nostri ragazzi, quanto piuttosto i difetti contrari. Villetta con ospiti è infatti un film a tesi (una definizione contestata o quanto meno argomentata da Gianni Canova), che assegna a ogni singolo personaggio almeno uno scheletro nell'armadio, per sporcarne la coscienza e spingerli nell'ignavia più vile, anche a fronte di una questione immediata di vita o di morte. Il padre è fedifrago e imbroglione, la madre una bigotta ipocrita pronta a predicare bene e a razzolare male, non rifiutandosi neppure le attenzioni di un prete sensibile alle lusinghe della femminilità, la figlia innamorata è pronta a tuffarsi nell'indifferenza e a sublimare nell'autolesionismo. Ma la notizia peggiore è che nell'elegante e isolata villetta del titolo, epicentro e luogo-simbolo di una borghesia benestante quanto ipocrita, di un Nord-est di imprenditori pronti ad arrangiare i conti, e di famiglie con la pistola nel cassetto nel nome del mito alla legittima difesa, vengono convocati anche gli ospiti; oltre all'autorità socio-antropologica rappresentata dai genitori sembra di assistere ad una grottesca parata delle autorità civili (il medico), militari (il poliziotto) e religiose (il prete), tutti ovviamente provvisti del bagaglio di una coscienza sporca e con relativo pelo sullo stomaco, ricattabili e accidiosi. Se nella prima parte il giudizio rimane sospeso - con un ritratto di provincia a tratti sapido e a tratti risaputo, come lo stesso uso del dialetto veneto che dovrebbe dare veridicità geopolitica e corposità al racconto - nella seconda parte, quando il ritratto si sporca del rosso del sangue, la narrazione, che prosegue in unità di tempo, d'azione e di luogo, promette di acquistare intensità e tensione. Invece il film si sfilaccia, dilata i tempi, indugia in maniera sospetta, blocca tutti i personaggi, mantiene perfino le luci assurdamente basse là dove invece occorrerebbe luce oltre che azione. E' vero che la realtà supera a volte la fantasia (v. ad es. un incredibile caso di cronaca nera come quello dell'omicidio di Marco Vannini), ma al cinema spesso l'esigenza di verosimiglianza è superiore a quella di verità. In parallelo, i personaggi rimangono stilizzati, semplici addendi di una somma già stabilita in partenza, aderenti alla loro caratterizzazione e ai loro vizi (oltre che alla naturale propensione al ruolo degli interpreti, a cominciare da Giallini e dalla Cescon), ma dotati di scarso spessore e sfumature. L'interpretazione più vibrante e convincente è alla fine quella di Cristina Flutur, una madre rumena il cui sogno italiano è destinato a svanire in una sola tragica notte. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|