THE SHIFT di Alessandro TondaThe Shift (la cui uscita in sala è stata falciata come tante dall'emergenza Covid) ha a mio parere un paratesto non all'altezza: il titolo (si potrebbe tradurre “il pulsante”) concentra l'attenzione sull'aspetto più “meccanico” del film e la locandina, dai colori scuri e contrastati, che mostra un giovane malmesso con un'apparecchiatura legata in vita davanti al retro di un'ambulanza, potrebbe adattarsi ad un horror, a una commedia giovanile, a un film video-gioco. Invece The Shift è un ottimo thriller, teso e umanistico insieme, con una fotografia, un montaggio e un commento sonoro (dei Mokadelic, quelli di Gomorra) funzionali ed efficaci. Per il regista (anche sceneggiatore) Alessandro Tonda, si tratta di un esordio alla regia di un lungometraggio, cui arriva però dopo una lunga gavetta esemplare come aiuto regista sui set di Romanzo criminale, Suburra, Gomorra, Sicilian Ghost Story ed altri, tra cinema e tv. Tonda insomma è arrivato pronto, e lo dimostra subito con un piano-sequenza che segue un gruppo di ragazzi che si reca a scuola, a Bruxelles (ma le riprese si sono tenute a Liegi), fin dall'autobus; una ripresa immersiva tra i volti, i corpi, il brusio confuso e allegro delle voci. Volti, corpi, voci che presto verranno deturpati da un incubo di sangue: quello che sembrava un normale giorno di scuola di ragazzi che si baciano, si abbracciano, chiacchierano, si salutano, senza far caso al colore della pelle, si trasforma in pochi attimi in un inferno, scatenato da un loro coetaneo armato di pistola che apre il fuoco indiscriminatamente su di loro e poi fa esplodere l'ordigno, armato con chiodi e bulloni per essere più letale e devastante, che porta legato in vita. Dopo l'inizio scioccante, e in tempo reale, quasi tutto il resto del film si svolge nello spazio concentrazionario e frammentato dell'interno di un'ambulanza, accorsa sul posto malgrado fosse a fine turno, e che raccoglie un ragazzo gravemente ferito. Ma appena tagliati i vestiti che ha addosso per le medicazioni, anche alla sua vita appare legata una cintura esplosiva, che il giovane terrorista non ha avuto la forza e il coraggio di azionare insieme a quella del suo complice. La missione di salvare una vita si trasforma improvvisamente per i due membri dell'equipaggio – l'autista Adamo (Adamo Dionisi), immigrato di origine italiana, e Isabelle (un'ottima Clotilde Hesme), sposata con un tunisino e con un figlio della stessa età del terrorista ferito – quella di salvare se stessi e gli altri da quella bomba vivente che cerca in se stesso il coraggio e la spietatezza di fare quello che non è riuscito a fare nell'atrio della scuola. In parallelo cominciamo a seguire le investigazioni e poi le azioni della polizia, quando ci si accorge che il conto delle ambulanze non torna e che un attentatore è svanito nel nulla. Tonda gestisce abilmente la tensione crescente e riesce a realizzare un thriller efficacissimo che fa trattenere il fiato fino all'ultimo minuto, ma mantenendosi rigorosamente nei limiti della credibilità, sia dal punto di vista del contesto, che delle azioni, dei comportamenti e dei personaggi (l'unico eventuale “buco nero” nella sceneggiatura è guarda caso ambientata in un tunnel, quando i protagonisti avrebbero la possibilità di dare l'allarme e di abbandonare nell'ambulanza il terrorista con la sua bomba e il suo odioso pulsante). Si potrebbe fare una lista molto lunga dei luoghi comuni e delle trappole narrative che il regista/sceneggiatore evita, firmando un film appassionante ma sostanzialmente onesto. La paura di morire o di vedere morire altri innocenti degli infermieri (che non sono delle persone comuni che scoprono di averi capacità straordinarie una volta implicati in circostanze eccezionali); il peso della responsabilità dei poliziotti al comando delle operazioni (che non sono né professionisti dai poteri taumaturgici né ottusi e protervi); il senso di colpa dei genitori che non si erano resi conto di avere in casa un fanatico assassino, rientrano in un quadro ben delineato, dove forse il personaggio più debole è forse proprio quello del giovane protagonista, un adolescente che sentendosi incompreso (come molto suoi coetanei) si è rifugiato nella follia micidiale ma consolatoria del fanatismo religioso che gli ha dato accoglienza, affidato responsabilità e fornito una prospettiva di gloria e di martirio. Tonda amministra virtuosamente l'uso degli spazi, i tempi della narrazione, il progredire della tensione (con un naturale calo nella parte centrale, inevitabile dopo un incipit sconvolgente e prima di un finale col fiato sospeso), il gioco asciutto dei caratteri (dei quali emerge poco più che l'essenziale legato alla drammaticità del momento), il contesto sociopolitico (il finale si svolge a Molenbeek, punto di partenza di molti terroristi stragisti e di miliziani islamisti). Anche lo scioglimento è perfetto, affidato ad un gesto che è insieme di difesa e di compassione. The Shift cerca un punto di equilibrio tra cinema di genere e cinema d'autore, trovando in questa ricerca insieme il proprio punto di forza e di debolezza. Iniziato come Elephant di Gus van Sant, il film incontra inevitabilmente nell'epilogo il cinema dei fratelli Dardenne, numi tutelari (belgi) del cinema umanistico, che già avevano pedinato Le jeune Ahmed fino al suo epilogo di pietà e di sconfitta.
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IL BUCO IN TESTA di Antonio CapuanoAntonio Capuano è uno dei più originali e assidui cantori di una napoletanità non stereotipata: non si sposta di molto dalla sua città ambientando Il buco in testa a Torre del Greco e mettendo al centro della narrazione una protagonista femminile che sotto certi aspetti può essere considerata l'incarnazione del carattere della città: ruvida, vitale, disincantata, ribelle, animata insieme dalla voglia di vivere ed da una sorta di cupio dissolvi. E orfana. Forse Napoli non ha mai avuto un padre (lo Stato?) che la togliesse dal suo senso di abbandono e di precarietà e la facesse diventare adulta; un padre sicuramente non ha mai avuto Maria (la storia è ispirata - in alcuni tratti abbastanza fedelmente - a quella reale di Antonia Custra), figlia di un brigadiere ucciso ventenne durante una manifestazione di Piazza Milano, agli albori degli anni di piombo. La pallottola che ha ucciso suo padre ha lasciato un buco nella testa e nella vita di Maria, che conduce un'esistenza precaria tra una madre ammutolita persa nel lavoro casalingo di pastaia, un insegnante alle prese con una gioventù problematica e innamorato di lei (che lo respinge), un poliziotto che la corteggia, un provino da netturbino (fallito), il lavoro volontario in una scuola, le sedute della psicologa. Tutto alla fine la condurrà ad una prova per tentare di chiudere i conti con quell'assenza fondamentale: la ricerca dell'uomo che ha sparato il colpo che ha ucciso suo padre, il pellegrinaggio nei luoghi degli scontri, il confronto con l'asfalto che ha visto scorrere il sangue del padre che non ha mai conosciuto. Ci sono in questo film due Maria (una bruna con i capelli lunghi, l'altra con i capelli corti rossi), due città, due epoche, due tempi narrativi, due registri (quello realistico e quello onirico e semionirico dei flashback), ma al centro di tutto c'è il personaggio di Maria, interpretata in modo intrepido ed estremistico da una Teresa Saponangelo nervosa, dura e sanguigna. Nel reparto attori è convincente Francesco Di Leva nel ruolo dell'insegnante (il cui personaggio però sparirà dopo una svolta imprevista e contraddittoria), un po’ meno Tommaso Ragno nel ruolo dell'ex militante di Autonomia operaia che non si è mai perdonato l'errore del passato. Capuano filma bene gli ambienti e ama il proprio personaggio, ma imposta un punto di vista (Maria all'inizio si presenta, sguardo in macchina), che poi abbandona subito, la drammaturgia ha qualche sbandamento e qualche deviazione in vicoli senza uscita, e sembra non decidersi su quale linea far diventare preminente, quella esistenziale del disagio di vivere di Maria, quella sociologica della realtà contraddittoria della Napoli di oggi, o quella politica della resa dei conti con un passato dove ideologia e ideale rivoluzionario della lotta al sistema giustificavano crimini. Un tema quest'ultimo già affrontato in precedenza dal cinema, ma forse non abbastanza; per citare solo due film, per affinità tematica o di titolo, ricordo La seconda volta di Mimmo Calopresti, dove un professore universitario rincontra la terrorista che gli ha sparato il proiettile ancora conficcato nel suo cranio, o il tedesco Il coltello in testa di Reinhard Hauff dove uno scienziato viene ferito alla testa dalla polizia durante un'irruzione, perde la memoria e viene scambiato a sua volta per un terrorista. Affrontare questi temi oggi, non da una prospettiva storica postuma, ma come sentimenti ancora brucianti anche nel vissuto di personaggi contemporanei, può sembrare stranamente attuale, ma occorre ricordare che nello stesso 2020 Claudio Noce ha raccontato nel parzialmente autobiografico Padrenostro la propria esperienza di bambino che vide cadere il padre sotto i colpi dei Nuclei armati rivoluzionari nella Roma del 1976. NOTIZIE DAL MONDO (News of the World) di Paul GreengrassOkay, tappatevi le orecchi perché sto per usare un termine che non ho mai usato e che detesto: News of the World è un film buonista. D'altra parte c'è Tom Hanks, ed è noto che Hanks è ormai il portabandiera dei buoni valori progressisti americani. In News supera se stesso. E' un ex-tipografo, ex-soldato nella Guerra civile (che prova vergogna per quello che ha visto), che ora si guadagna da vivere girando il West e leggendo a pagamento alle popolazioni ignoranti e illetterate le notizie riportate dai periodici (appunto, le news del titolo). E' un intellettuale, un uomo d'azione, un uomo di buon cuore. Come marito timorato di Dio, a dispetto delle apparenze, non ha nulla da rimproverarsi; ed è chiaro fin dal primo incontro con Cigada-Johanna - una ragazzina rapita prima dagli indiani Kiowa alla sua famiglia di origini tedesche (sterminata), e poi ri-rapita dai soldati alla sua famiglia adottiva indiana (sterminata) – che malgrado gli sforzi benintenzionati per riportarla verso una casa che non le è mai appartenuta, non ci potrà mai essere padre migliori di lui, il capitano Jefferson Kyle Kidd. Perché Kidd è anche antirazzista, neopacifista, progressista, aperto al multiculturalismo, propugnatore del sindacalismo e dei diritti dei lavoratori, difensore della libertà di stampa e di pensiero; ma è ovviamente anche abile a fronteggiare armi in pugno avversari più numerosi ed esageratamente incarogniti. I cattivi invece sono pedofili, trafficanti di bambini, assassini, massacratori di bisonti, schiavisti, prevaricatori, razzisti, despoti ammalati di culto della personalità (l'ombra della presidenza Trump sul vecchio West?). Il film è attento all'equilibrio ideologico tra le parti in campo: Kidd è un confederato, ma è convinto che il Sud debba abbandonare tanto il suo livore revanscista quanto la mentalità razzista e schiavista; il fatto che Cigada sia stata tolta con la violenza sia alla sua famiglia bianca che a quella indiana, entrambe massacrate, racconta di una nazione dove la violenza era imperante, ma serve anche stabilire una sorta di par condicio della brutalità; gli indiani sono delle presenze già fantasmatiche, visti in lontananza durante un loro esodo, o incontrati nel deserto, raminghi dentro una tempesta di sabbia. Sono autori di massacri, ma ora non esitano a regalare un cavallo perfettamente sellato ed equipaggiato ai nostri eroi nel momento del bisogno. Un po' a gesti un po' a parole, Jeffrey e Cigada si raccontano l'un l'altro le filosofie esistenziali dei bianchi e dei pellerossa: i bianchi si muovono in linea retta, perseguendo fini e obiettivi, i pellerossa vivono in un cosmo olistico dove terra, cielo, uomini e animali sono compartecipi di un unico spirito. In fondo Francesco De Gregori ci aveva visto giusto, quando in Buffalo Bill cantava che “Tra bufalo e locomotiva / la differenza salta agli occhi: / la locomotiva ha la strada segnata, / il bufalo può scartare di lato / e cadere”. L'aggiornamento del genere western per quanto riguarda News of the World sta soprattutto qui, in un revisionismo (peraltro iniziato decenni fa con film epocali come Soldato blu, Il piccolo grande uomo, Un uomo chiamato cavallo, Corvo rosso non avrai il mio scalpo, ecc.) piuttosto scolastico e in una piena adesione all'ideologia del politicamente corretto, dove gli aspetti più violenti sono allusi, ma pudicamente sterilizzati. Il film è effettivamente povero di scene d'azione violenta (gli scontri a fuoco sono solo due, episodici, e manca la tipica resa di conti finale con il cattivo di turno), forse perché il romanzo d'origine è scritto da una mano femminile, e Greengrass (autore anche della sceneggiatura insieme a Luke Davies, nei cui script precedenti ci sono già figli e figlie da conquistare o da salvare, o già sulla strada di casa, come in Lion) rinuncia al suo sguardo sulla storia contemporanea (da Bloody Sunday, sulla “domenica di sangue” del 72 a Derry, all'United 93 dell'attacco alle torri gemelle del 2001, alla strage di Utoya del 2011 raccontata in 22 luglio) così come alla sua abilità nel gestire con raffinata perizia i ritmi adrenalici della trilogia di Bourne, impostando invece su toni dilatati una narrazione insieme epica e intimistica. Per il resto, su un canovaccio alla Sentieri selvaggi (citato anche iconograficamente), News non si nega nulla dei topoi del road movie che fa viaggiare insieme due personaggi diversi che imparano a conoscersi ed apprezzarsi nel corso di un viaggio che assume valore esistenziale, né soprattutto del western classico, tra villaggi in costruzione e postazioni militari, inseguimenti e sparatorie tra le rocce, protagonisti appiedati nel deserto e la borraccia che si svuota, tempeste di sabbia e incontri con gli indiani, il nero linciato che penzola dall'albero e le rovine della casa isolata attaccata dagli indiani, il vecchio patriarca dispotico coi suoi sgherri sinistri e ghignanti, e così via. Il film negli States è piaciuto agli addetti ai lavori e vanta parecchie candidature da parte delle varie associazioni di critici, oltre che ai Golden Globes e, con tutta probabilità, agli Oscar. Ne condivido alcune, come quelle alla giovanissima rivelazione Helena Zengel (una kiowa dai capelli biondi e gli occhi cerulei) o quelle alla fotografia (del polacco Dariusz Wolski, alle prese stavolta con luci naturalistiche); mi convincono decisamente meno quelle alla sceneggiatura, che mi è parsa, come già detto, assai prevedibile e troppo preoccupata del politicamente edificante, o quelle alla colonna sonora (confesso che mi ha un po' infastidito il far capolino nelle scene finali dell'Hallelujah di Coen). Kornél Mundruczó nei suoi precedenti film ungheresi (come White Dog o Una luna chiamata Europa) aveva già mescolato la dimensione realistica con quella simbolica, con esiti spinti fino al surrealismo. In Pieces of a Woman, scritto di nuovo con la sua compagna Kata Wéber, imposta le coordinate sia stilistiche che metaforiche della narrazione fin dalle prime due sequenze del film.
La prima è un piano di sequenza di circa un minuto, in cui la mdp segue Sean che lascia il suo turno di lavoro su un ponte in costruzione. Il piano sequenza è in effetti la figura stilistica e retorica che segna tutta la narrazione. Per oltre venti interminabili minuti, senza stacchi di montaggio, con la macchina da presa addosso ai tre personaggi – la madre, il padre, la levatrice – negli spazi della loro casa, seguiamo tutte le fasi del parto in casa di Martha, fino alla drammatica conclusione. Più avanti, attraverso il vano di una porta, seguiremo il tentativo goffo e disperato di Sean di forzare la moglie ad un rapporto sessuale. Più avanti ancora, un altro piano sequenza segue i protagonisti a casa della madre di lei, e alla fine inchioda l'anziana donna (interpretata da Ellen Burstyn) in primo piano – il viso segnato dagli anni e dalle vicissitudini, la pettinatura perfetta di una donna che ha combattuto per sopravvivere e per imporre un ordine alla propria vita – in un monologo di grande intensità e drammaticità. Si direbbe in realtà che il regista non spinga mai a suscitare nelle spettatrici e negli spettatori un sentimento di immedesimazione con Martha (Vanessa Kirby, già premiata con la Coppa Volpi a Venezia per la sua interpretazione, candidata al Golden Globe e all'Oscar), ma piuttosto ci costringa a spiarla da vicino, penetrandone la dimensione più intima, mostrandone i frammenti, disseminati nei singoli giorni nell'arco dei mesi che seguono la tragedia che ha mandato in pezzi la sua vita. Chi guarda si trova spesso in una posizione scomoda, imbarazzante, ad osservare Martha troppo da vicino, al gabinetto, o mentre il latte inutile sgorga dai suoi seni e le bagna i vestiti, o semplicemente mentre il dolore le irrigidisce il volto e annebbia i suoi occhi incapaci di distinguere un futuro. Eppure una tecnica apparentemente naturalistica come il piano sequenza (naturale, intima, domestica, come il parto in casa di Martha) si accompagna a una forte dimensione simbolica. Se già nella prima sequenza vediamo un ponte in costruzione, protagonista in costante crescita nelle didascalie che scandiscono il passare del tempo e dei mesi, nella seconda vediamo Martha ad una festa per la sua prossima maternità. Sulla torta c'è un pupazzetto che rappresenta la sua bambina, in una culla. Ma la torta è destinata ad essere fatta a pezzi e la vediamo in primo piano mentre il coltello affonda per affettarla. Ancora prima della sua nascita, anche la bambina è destinata ad essere fatta a pezzi, e i pieces of a woman del titolo potrebbero riferirsi tanto alla madre che alla neonata. Su una lapide si scrive in modo sbagliato e incompleto il suo nome, mentre si discute se donare i suoi organi a chi ne ha bisogno, o se lasciare l'intero suo corpicino alla scienza. Alla fine sarà ridotta in polvere, e le sue ceneri disperse nelle acque del fiume. Eppure, è come se nel film coesistessero due movimenti opposti. Nel primo, Martha discende nelle profondità del suo lutto e del suo dolore, dal tragico parto sino alla sua consapevole rievocazione nella testimonianza in tribunale (che vede alla sbarra degli imputati la levatrice) passando attraverso il momento in cui la contemporanea risonanza del rispettivo dolore manda in pezzi il matrimonio di Martha e Sean, così come l'omonimo fenomeno fisico è in grado di fare crollare un ponte; ma nell'altro c'è un movimento tutto indirizzato verso la ricomposizione e la rinascita, accompagnato e scandito da diverse linee simboliche. C'è un ponte che si completa; ci sono dei semi che germogliano; ci sono dei negativi in attesa da mesi che alla fine vengono sviluppati; ci sono le mani di due donne – madre e figlia – che finalmente si ricongiungono, dopo essersi evitate per molto tempo; c'è Martha che, dopo aver visto il volto della propria bambina perduta, e dopo aver rivissuto la propria tragedia e averne preso consapevolezza, può finalmente separarsi da quel che rimane della sua piccina. La piccola Yvette è un frutto che non è arrivato a maturazione, ma ha fornito i semi per una nuova fioritura. All'inizio vediamo Martha che sceglie una mela al supermercato; più avanti la vediamo addentarne una, mentre fissa con dolente invidia i figli degli altri; ma un piccolo seme le rimane appiccicato al polpastrello, dandole l'intuizione che qualcosa può rinascere. Coltiverà dei piccoli semi, e vedrà che da loro può nascere nuova vita. Quando in tribunale le chiedono cosa ricorda della sua bambina, che ha avuto tra le braccia per pochi attimi, Martha dirà incongruamente che aveva odore di mela. Scopriamo alla fine che il film si è dipanato nell'arco di otto mesi, dall'autunno alla primavera, il tempo di una gravidanza; nel nono e conclusivo frammento (stavolta senza indicazione di una data precisa, ma in un'estate lontana nel tempo o nella dimensione del desiderio), intravvediamo Martha avvicinarci alla base di un albero, sul quale una bambina si è arrampicata per raccogliere un'altra mela. La macchina da presa indugia a lungo su quei rami, di nuovo colmi di frutti. CORPUS CHRISTI (Boże Ciało, 2019) e |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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