LA VITA INVISIBILE DI ISABEL GUSMAO (A vida invisivel) di Karim AinouzMi pare che il film d'autore latinoamericano ultimamente cerchi il proprio modo di esprimersi attraverso il richiamo a quello che è forse il principale e più peculiare contributo del continente al linguaggio audiovisivo contemporaneo, e cioè la telenovela. Ne ho visto di recente due esempi: Il segreto di una famiglia, firmato da Pablo Trapero, che si avvoltola in una rete di adulteri, crimini politici, disaffezioni famigliari, rapporti al limite dell'incestuoso, rivelazioni scandalose, ecc., e La vita invisibile di Isabel Gusmao. Del primo ho già parlato (v. link qui sopra). La vita invisibile, di origine letteraria (dal romanzo Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione di Martha Batalha) segue anch'esso mi pare (non ha mai visto in effetti un briciolo di telenovela in vita mia) un andamento da romanzo d'appendice dei nostri giorni audiovisuali: una ragazza di buona famiglia negli anni '50, Guida, si innamora di un marinaio e fugge con lui; torna, abbandonata e incinta, e viene ripudiata dal padre che la scaccia di casa; la sorella Euridice, nel silenzio colpevole della madre, la crede morta, come vuole la famiglia per salvare la propria rispettabilità, e cresce senza di lei, all'interno di un matrimonio infelice che frustra le sue ambizioni da pianista; le due vivono per anni nella stessa città, Rio de Janeiro, senza più vedersi né incontrarsi; solo dopo molti anni, e quando è ormai troppo tardi, la verità verrà disvelata sulle loro vite invisibili. Il prologo, con le due ragazze (interpretate da Carol Duarte e Julia Stockler) che si perdono l'un l'altra nella selva che circonda Rio, prefigura già il tema del film, la perdita e la separazione. Le due vite vengono raccontate in parallelo, quella del matrimonio borghese e castrante di Euridice e quella grama di Guida, che deve sopravvivere arrangiandosi come può, sempre alla ricerca di un amore e di riscatto. Guida e Euridice vivono una invisibile all'altra, ciascuna senza il sostegno dell'altra che quasi sicuramente la avrebbe aiutata ad affrontare in modo diverso le traversie e le avversità della vita, ma anche a perseguire con più volontà e tenacia i propri desideri e i propri sogni. Come in ogni romanzo d'appendice o telenovela che si rispetti, nel lungo film (due ore e venti) si avvicendano le generazioni, si accumulano rapporti carnali (per lo più insoddisfacenti), incontri sfiorati e mancati, perfino cambi di identità e agnizioni finali. Ma Karim Aïnouz guardava forse al cinema estetizzante (e sublime) di Wong Kar-wai e ai suoi amori irrealizzati per raccontare una storia di sorellanza attraverso un luogo, un'epoca e un sistema patriarcale in cui l'emancipazione femminile era ancora di là da venire. Ma le sue immagini non hanno l'ipnotica fascinazione, sensualmente geometrica e sentimentalmente struggente di In the Mood for Love; il racconto non ne possiede il ritmo ellittico e preciso di dolorosa danza, e le sue sorelle divise non hanno la grazia dolente dei suoi esitanti e indimenticabili protagonisti.
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IL SEGRETO DI UNA FAMIGLIA (La Quietud) di Pablo TraperoPablo Trapero ha dedicato buona parte della sua filmografia ai temi della famiglia - in chiave dolceamara in Familia rodante, in chiave di thriller politico ne Il clan - e della genitorialità, dal padre operaio di Mundo grua alla combattiva madre detenuta de la Leonera. Il titolo italiano de La quietud ci informa da subito che stiamo tornando sulla stessa tematica. L'inizio è intrigante: l'incedere di Mia lungo i corridoi labirintici della casa di famiglia (una grande finca nella campagna non lontana da Buenos Aires), fino alla porta chiusa dietro alla quale il padre e la madre stanno discutendo animatamente, è da subito leggibile come una metafora del labirinto di segreti e bugie racchiuso nella proprietà ironicamente chiamata appunto La Quietud, La Quiete. Poco dopo un'analoga più breve sequenza a seguire ci presenta la seconda protagonista del film, Eugenia (detta Euge): stavolta la mdp segue la donna in un percorso lungo gli spazi a loro volta labirintici di un aeroporto. Euge infatti è arrivata da Parigi richiamata dall'infermità del padre, colpito da un ictus nell'ufficio della Procura, dietro un'altra porta chiusa, dove stava discutendo di affari misteriosi. La macchina da presa ci introduce quindi nell'intimità più scabrosa della famiglia, o meglio del rapporto tra le sorelle che è al centro del film, in una conturbante sequenza di sesso, quasi lesbica e quasi incestuosa, in cui le due sorelle fanno l'amore con se stesse sdraiate sullo stesso letto. Il rapporto quasi morboso tra le sorelle si rispecchia poi nel terzo lato del triangolo, quello di una madre altoborghese, una matriarca ospitale ma sprezzante, e nei personaggi ancillari maschili, amanti e compagni. Con il proseguire della vicenda, tra una colonna sonora multigenere e a volte troppo invadente e qualche altra spinta scena di sesso, cominciano a trapelare i segreti, a rivelarsi le bugie, a succedersi le rivelazioni. Ma fin troppo: la sequela di colpi di scena, che percorre tutto il film per non arrestarsi mai sino all'ultima sequenza, finisce per costruire una telenovela d'autore sovraccarica e alla fine un po' stucchevole, dove si accumulano maternità procurate con la violenza, gravidanze immaginarie, uteri in prestito, ricoveri ospedalieri, uxoricidi, tentativi di omicidio-suicidio, affari loschi, compromissioni politiche innominabili, senza contare che tutti fanno l'amore con quasi tutti e tutti tradiscono tutti, in tutti i modi possibili. In mezzo a tutto questo bric-a-brac da soap opera, Trapero, un regista che aveva suscitato la mia sincera ammirazione con i suoi film precedenti e che ha firmato anche la sceneggiatura tutta al femminile di questa storia di madri, figlie e sorelle, finisce per svilire anche le metafore sparse per il film (i cancelli che si aprono e si chiudono, le luci della sala da pranzo che vanno e vengono, il cadavere da esibire con protervia o da nascondere come un passato troppo ingombrante), chiedendo alle sue attrici un'adesione sempre più problematica man mano che la trama sbanda da una rivelazione scandalosa all'altra. Interessante la composizione del cast femminile, quasi una rassegna generazionale del cinema argentino. Incredibilmente somiglianti tra loro le due sorelle. Euge è Bérénice Bejo, attrice di origine argentina, figlia di un regista e moglie e musa di Michel Hazanavicius che l'ha resa celebre con The Artist, e che ha lavorato con registi di varie nazionalità, dall'italiano Bellocchio all'iraniano Farhadi; Mia è Martina Gusmán, moglie del regista che l'ha già diretta in altri quattro film, tra cui Leonera, dove l'attrice aveva fornito una memorabile e pluripremiata interpretazione nella parte della combattiva e disperata madre-leonessa. Infine la matriarca è interpretata da Graciela Borges, una veterana del cinema argentino attiva fin dagli anni '50. 5 CM AL SECONDO (Byosoku go senchimetoru) di Makoto ShinkaiIl tempo insieme dei giovanissimi Takaki e Akari, confinato nelle prime suggestive ed ellittiche del film, al tempo dei ciliegi in fiore, quando i petali si distaccano dai rami degli alberi e cadono lentamente come fiocchi di neve. Quindi è subito il tempo del distacco. Akari segue la famiglia in una città lontana, e la distanza e il tempo separano i due. Tempo e distanza attraversati solo dalle lettere che si scambiano, a tenere desta nella vita che continua nonostante tutto la nostalgia e il desiderio di rivedersi. Trascorrono le stagioni, finché Takaki riesce a programmare un viaggio per andare a trovare l'amata compagna. Ma, ancora una volta, lo spazio e il tempo congiurano contro il loro amore. Una nevicata eccezionale rallenta le linee ferroviarie, mette in forse le coincidenze, rischia di vanificare l'appuntamento fissato. Tempo e distanze implodono, si dilatano a dismisura. Tra tabelloni ferroviari e sguardi angosciati all'orologio, il montaggio e le inquadrature alternano i campi lunghi, con il lento inesorabile cadere dei fiocchi di neve, e i dettagli prosaici e allucinati delle stazioni e dei treni, dove Takaki è una presenza immobile e impotente, sempre più afflitta e rassegnata. Quello di Takaki e Akari è un incontro nato sotto il segno dello scacco, dove, se un incontro ci sarà, sembra già il preludio di un nuovo distacco. Il capitolo dei fiori di ciliegio è solo il primo dei tre segmenti di cui si compone 5 cm al secondo, forse il più bello e intenso, in cui è già pienamente dispiegata la poetica di Makoto Shinkai, oggi probabilmente il nome di punta dell'animazione giapponese, indicato come l'erede di Hayao Miyazaki, qui al suo secondo lungometraggio, girato nel 2008 ma solo in questi giorni distribuito su grande schermo in Italia, accompagnato dal cortissimo Cross Road del 2014. D'altra parte, tutto era già racchiuso nel titolo, apparentemente arido come una formula matematica. 5 cm al secondo è la velocità con cui discendono verso il suolo i petali di ciliegio, e nel titolo c'è già tutto: il tema del tempo e della distanza, la poesia ma soprattutto la caducità delle cose terrene. La bellezza, la poesia, l'amore: anche tutte le cose più belle che la vita ci possa offrire sono destinate a sfiorire, a cadere e a consumarsi. Siamo immersi nell'ukiyo-e, nel mondo fluttuante che gli artisti giapponesi da secoli cercano di fissare precariamente sulla carta (Un artista del mondo effimero si intitola un romanzo del premio Nobel Kazuo Ishiguro): all'uomo non resta che cercare di godere dei momenti di effimera felicità che gli possono essere concessi, nella consapevolezza dolorosa e struggente della precarietà degli affetti e delle cose, dell'impermanenza del nostro essere nel mondo (i latini e i pittori europei la chiamavano vanitas). Nel secondo capitolo (qualcuno erroneamente parla di “episodi”, ma i vari segmenti sono collegati dagli stessi protagonisti e da una sia pur ellittica continuità narrativa), Cosmonauta, ritroviamo Takaki, ancora solo. La giovane Kanae, non più bambina e non ancora donna, è perdutamente, dolorosamente innamorata di lui, ma non osa parlargli del proprio amore. Mentre i razzi partono per il cielo, Kanae si rende conto che il gentile Takaki è sideralmente lontano da lei e dai suoi sentimenti, perduto a sua volta in un rimpianto insanabile. Nel secondo capitolo la passione di Shinkai per i cieli fantasmagorici esplode, complice anche la sua propensione per i temi fantascientifici, qui appena allusi dal titolo metaforico del capitolo e dalla scena della partenza del razzo. Quello che mi stupisce sempre nell'animazione giapponese contemporanea tuttavia è l'enorme sproporzione tra la resa dei paesaggi, delle ambientazioni (con un raffinatissimo uso del "fuori fuoco"), della resa dei materiali, delle luci (vera punta di eccellenza dell'animazione nipponica), e lo stile invariabilmente naïf della resa della figura umana, con la rappresentazione stereotipata e piuttosto piatta dei personaggi. 5 cm al secondo non fa eccezione alla regola; i personaggi sono le solite figurette interscambiabili con i grandi occhioni e i nasi appuntiti, mentre paesaggi e cieli sono un tripudio di bellezza, di splendore e di poesia visiva. Resta da dire del terzo capitolo, che porta lo stesso titolo del film e che conduce rapidamente alla conclusione, utilizzando in un montaggio serratissimo diverse inquadrature dei segmenti precedenti. Takaki è ora un giovane adulto; l'amore per Akari appartiene forse al passato, eppure una donna intravista a un passaggio a livello ha ancora il potere di fargli battere il cuore. L'episodio conclusivo è forse il meno compiuto e convincente. Si esce un po' insoddisfatti, con la voglia di vedere di più, di prolungare un po' i 63 minuti di durata della narrazione. Ma bisognerà “accontentarsi” dei successivi film di Shinkai. CAFARNAO - CAOS E MIRACOLI (Cafarnaum) di Nadine LabakiDagli interni del microcosmo ambrato e caramellato (ma paradigmatico delle problematiche femminili nel Libano contemporaneo) di Caramel e dagli spazi aperti e rurali (ma metaforici della conflittualità latente e sempre pronta ad esplodere nel Medio Oriente) di E adesso dove andiamo?, il cinema di Nadine Labaki si sposta nelle strade caotiche di una Beirut abbrutita e ostile. Lungo le strade della città si aggira Zain, un dodicenne che sembra ancora più piccolo della sua età (in effetti non esiste nessun documento atto a dimostrarla, perché non è mai stato registrato all'anagrafe), fuggito dalla casa e da una famiglia che non se ne cura, dopo che quest'ultima ha barattato la figlioletta appena mestruata, data in sposa a un commerciante del quartiere in cambio di un po' di cibo. Per gli stessi ambienti si aggira Rahil, un'immigrata clandestina con un figlio piccolo, che nasconde nei gabinetti mentre lei fa le pulizie negli uffici. C'è un venditore del mercato disposto ad aiutarla: basterebbe solo che lei gli cedesse il piccolo Yonas, merce pregiata nel mercato delle adozioni. Il mondo che ci mostra Labaki è un mondo spietato (anche se la regista e sceneggiatrice ci risparmia gli aspetti più truculenti: lo stesso atto di violenza che è alla base dello sviluppo drammaturgico rimane fuori scena), dove si fa fatica a stabilire chi sta peggio, a definire una gerarchia della sfortuna, della miseria, dell'assenza di speranza e di prospettive, tra poveri e disperati, profughi e immigrati, donne e madre disperate, ragazzine e bambini venduti, ragazzini costretti a vivere di espedienti in mezzo alla sporcizia e all'indigenza, neonati privi di tutto e prima di tutto di futuro. Con la complicità del suo piccolo combattivo protagonista, la Labaki gira un film veemente, appassionato, indignato, che corre, si incazza, si perde nel labirinto brutto, sporco e cattivo del cafarnao, dove l'unico supereroe concepibile è un uomo-scarafaggio. Zain, pieno di forza di carattere e di volontà, di intelligenza e di spirito d'iniziativa, altrove sarebbe un ragazzo pieno di talento e di prospettive; ma lì dove per caso è nato e si è trovato a vivere è solo un vuoto a perdere, un piccolo straccione della cui scomparsa nessuno si accorgerebbe. La regista non adotta uno sguardo ad altezza di bambino per indurre all'immedesimazione, ma chiede invece allo spettatore di guardare ad occhi bene aperti e responsabili una realtà diffusa in tutto il mondo, ma che si preferirebbe ignorare. Oggetto dello sguardo della macchina da presa e dello spettatore, Zain passa in un certo senso dall'altra parte dello sguardo durante le scene del processo, in cui, stavolta, è lui a guardare, ad accusare, a puntare lo sguardo verso gli altri e a rinfacciargli le rispettive responsabilità. La cornice processuale, che deriva da un'iniziativa dello stesso indomabile Zain, già incarcerato, che denuncia i propri genitori di averlo messo al mondo senza avere la possibilità né la voglia di curarsene, è forse la parte meno convincente del film, ma serve all'autrice per dare una visione più sfaccettata della realtà, dove ognuno ha la possibilità di esporre le proprie ragioni, dando una visione meno manichea dei personaggi. Il ragazzino protagonista (Zain al-Rafeea) si impegna allo spasimo a rendere l'energia disperata ma vitalistica e orientata al bene del proprio personaggio; ma è addirittura prodigioso come l'infante Yonas (il piccolissimo Boluwatife Treasure Bankole) riesca ad essere sempre – inconsapevolmente - perfettamente adeguato alle situazioni rappresentate (diamogli un Oscar o premio equivalente subito, così non ci pensiamo più). Come succede spesso con i film (e probabilmente con gli stili di recitazione) non occidentali, un punto debole è invece il doppiaggio, che non si sa perché ma in questi casi suona sempre un po' forzato e innaturale. Avrei preferito vedere il film con sonoro originale e sottotitoli; magari mi sarei perso qualche sfumatura di testo, ma avrei preferito sentire Zain inveire con parole sue; secondo me la visione ne avrebbe guadagnato in termini di naturalezza e di realismo. SARAH E SALEEM - LA' DOVE NIENTE E' POSSIBILE (The reports on Sarah and Saleem) |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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