SANPA - LUCI E TENEBRE DI SAN PATRIGNANO, regia di Cosima SpenderE’ estremamente difficile fare una recensione su Sanpa (la prima miniserie italiana prodotta da Netflix, cinque episodi della durata complessiva di circa cinque ore) che non si trasformi in una recensione su Vincenzo Muccioli, sulla sua figura, sulla sua creatura, sui suoi metodi. Gli stessi vertici attuali della comunità di San Patrignano si sono lamentati della parzialità della ricostruzione del docu-film, che prende in esame solo gli anni dal 1978, anno di fondazione della comunità, fino al 1995, anno della morte di Vincenzo Muccioli, senza considerare l'attività successiva, in cui le polemiche si attenuano lasciando posto ad una gestione più regolata, lontana dai riflettori e dalla pressione mediatica. In realtà, come è evidente dal taglio temporale, Sanpa non è tanto un film sulla comunità di San Patrignano quanto un film su Vincenzo Muccioli. La vicenda raccontata dal film finisce per presentare un intero spaccato della società italiana dell'epoca, popolato da tanti volti noti, giornalisti, personaggi dello spettacolo, conduttori televisivi, politici, imprenditori. Ma tutto, a San Patrignano, la comunità di recupero per tossicodipendenti sorta alla fine degli anni ‘70 nel Riminese, ruotava intorno a Muccioli e alla sua ingombrante personalità, padre fondatore, padre-padrone, santone devoto all’occultismo e santo redentore, titanico e messianico. Erano anni in cui un’ondata formidabile di droga piombava sull’Italia e sul mondo, contribuendo a spegnere nella miseria della dipendenza e dell’alienazione tutte le velleità dei movimenti giovanili che negli anni precedenti si erano proposti un sovvertimento - pacifico o a mano armata - della società. E’ un ritorno all’ordine che trova in Muccioli e in San Patrignano un correlativo perfetto: Muccioli rappresentava la restaurazione dell’autorità paterna che molti genitori avevano rinunciato - o non erano più riusciti - ad esercitare nella società. San Patrignano diventa per molti giovani sbandati un sostituto della famiglia, in cui si mescolano inclusione, affetto e attenzione, ma anche regole - in genere non scritte ma non per questo meno ferree -, esclusività e fedeltà reciproca (Sanpa non si sfugge e non si tradisce), autoritarismo e un implacabile sistema di punizioni per i trasgressori. Nello stesso tempo San Patrignano è un simulacro di Stato in un momento in cui anche lo Stato vero e proprio soffre una crisi di autorità, quando addirittura non accoglie con un inconfessabile sospiro di sollievo una sciagura epocale che spazza via però la marea montante della rivolta sociale giovanile. Il microstato di San Patrignano accoglie ecumenicamente tutti, fascisti e comunisti, guerriglieri e ragazzine, sfaccendati e seguaci delle controculture, figli di papà e proletari. Quando le strutture statali non sanno reagire al problema delle tossicodipendenze che con la somministrazione di metadone, Muccioli offre accoglienza, attenzione, rieducazione al lavoro, alla disciplina, alla riconquista di una dignità e di una forma di autosufficienza, sia pur acquisita attraverso una nuova forma di dipendenza, stavolta dalla comunità e dalla figura del dio-padre incarnata da Muccioli. San Patrignano funziona, salva centinaia o migliaia di vite, restituisce a tanti giovani una vita, una profesione, un futuro; solleva famiglie ridotte alla nera disperazione, convince della bontà dei propri metodi genitori angosciati e tossici persi, disposti a farsi incatenare e umiliare pur di sfuggire alla schiavitù peggiore della droga; e cresce. Il piccolo Stato possiede ormai aziende agricole e manifatturiere (dove si produce di tutto, dalle pellicce allo spumante), alleva cani e cavalli, si dota di un ospedale interno, di una foresteria, di alloggi e mense capaci di ospitare migliaia di ospiti. Tutto cresce: le strutture, il giro economico e finanziario (tra gli sponsor giganteggiano i coniugi Moratti), la fama, l'attrattività mediatica, il peso politico (presto ci si rende conto che Muccioli è in grado di mobilitare ingenti masse di voti), la stazza fisica e l’ego di Muccioli. E’ una crescita però che porta con sé i germi di una crisi potenzialmente distruttiva. Le dimensioni sono ormai tali che Muccioli non può più essere presente per tutti e dovunque, com’era all’inizio; ma nel momento in cui sarebbe doveroso dotare la comunità di una struttura organizzativa, le responsabilità di alcuni settori (alcuni dei quali di carattere chiaramente punitivo, cui vengono assegnati i soggetti più difficili e riottosi) vengono affidate a soggetti nelle mani dei quali i metodi esercitati prima in persona da quello che si offre come un padre autoritario (la coercizione fino alla reclusione con catene e in ambienti asfissianti, la demolizione, anche pubblica, di quelle che quelle che lui considerava perniciose sovrastrutture della personalità) diventano arbitrio e abuso incontrollato. Se Muccioli è stato già sottoposto al “processo delle catene” - in tribunale, nei media e nel dibattito pubblico politico e sociale -, inizia a questo punto l’epoca dei suicidi, delle morti misteriose, dei ricatti, di un nuovo processo. Muccioli continua a godere di un credito illimitato, è oggetto di un amore fideistico suffragato però dai molti improbabili successi terapeutici-riabilitativi ottenuti, eppure le nuove traversie trovano un corrispettivo anche nella sua decadenza fisica; senza che nessuna condanna in via definitiva sia stata pronunciata nei suoi confronti, si spegne nel 1995, per cause che non verranno mai dichiarate (suscitando sospetti negli anni in cui l'Aids stendeva la sua triste ombra su un'intera generazione). Gli autori (Bernardelli, Gabardini, Neri, per la regia di Cosima Spender), si muovono nell’inestricabile labirinto di luci e tenebre della vicenda, attraverso un efficacissimo lavoro di ricerca di filmati di repertorio e di interviste, componendo un mosaico dove si alternano immagini d’epoca, brani di trasmissioni televisive, riprese processuali, interviste ai protagonisti della vicenda, alla ricerca di un equilibrio possibile, nella consapevolezza di non poter raggiungere una verità assoluta e definitiva non solo sulle vicende processuali ma anche sull’uomo e sul suo operato. San Patrignano ha lamentato anche la parzialità dei testimoni (a suo parere sono stati messi in risalto prevalentemente gli aspetti negativi e problematici), ma i titoli di coda riportano anche un corposo elenco di persone che sono state interpellate e che si sono rifiutate all’intervista. In realtà, il film conserva, con un certo grado di consapevolezza, tutta l’ambiguità e l’ambivalenza di lettura che hanno accompagnato la vicenda di San Patrignano nel dibattito pubblico. Non semplicemente riportando versioni contrastanti dei fatti, ma scavando nel profondo del vissuto dei vari testimoni. Si può affermare che (con l’eccezione di Red Ronnie, che manifesta verso Muccioli una fede cieca e incondizionata, assolutamente scevra di dubbi) nessuno dei protagonisti - che si tratti del figlio o del giudice istruttore, dei sodali più stretti di Muccioli o del giornalista che ne indaga per anni le vicende, del medico del centro o della guardia del corpo che lo ricatta accusandolo di avergli commissionato l’eliminazione fisica di un testimone - fornisca un ritratto completamente negativo o completamente positivo di Muccioli. Odio e amore, disgusto e ammirazione, adorazione e frustrazione si mescolano nei sentimenti di ciascuno, in testimonianze in cui all’oggettività si mescolano dosi piccole o gigantesche di emotività. Il percorso costruito dal montaggio attraverso la successione dei brani delle interviste è abilmente costruito, in modo da fornire nella prima parte (Nascita, Crescita) un’immagine quasi prevalentemente positiva, per addensare poi mano a mano le ombre sempre più pesanti nella seconda parte (Fama, Declino, Caduta). In questa sorta di Citizen Muccioli - in cui come nel film di Welles-Mankiewicz (la citazione dello sceneggiatore è d’obbligo dopo Mank) la personalità titanica e inattingibile del protagonista è abbozzata attraverso un mosaico di indizi, di reperti, di testimonianze - il documentario diventa ad un certo punto avvincente come un thriller, con una sapiente costruzione della suspense (dove le rivelazioni più eclatanti vengono abilmente anticipate da accenni e allusioni). Ad essere in gioco non è però solo la scoperta del colpevole o lo scagionamento dell’innocente, bensì la ricerca di una verità umana e morale, oltre che giudiziaria e politica. C’è un’intervista che manca, quella di un Muccioli post mortem, ormai svincolato dagli interessi, dagli affetti e dalle ambizioni terrene. Ma non penso ci avrebbe comunque portati più vicini alla verità.
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LA REGINA DEGLI SCACCHI (The Queen's Gambit, miniserie) di Scott FrankLa regina degli scacchi (miniserie Netflix in sette puntate da un'ora circa ciascuna) deve parte del suo successo ad una mossa vincente, appunto il queen's gambit del titolo originale. E' infatti un gioco al femminile; non credo che l'esito sarebbe stato lo stesso se la serie (e il romanzo di Walter Tevis da cui è tratto) avesse avuto al centro un bambino e poi un ragazzo con la passione e il talento per gli scacchi. La scelta di una protagonista femminile (immaginaria, forse vagamente ispirata alla personalità di Bobby Fischer) permette infatti di declinare in modo assai più ricco e sfaccettato la storia di emancipazione che ne è al centro (un po' come accadeva ne Il diritto di contare, storia di emancipazione femminil-razzial-intellettual-professionale negli Usa della corsa allo spazio). La storia di Beth, ambientata a cavallo tra gli anni '50 e '60, è innanzitutto una storia di emancipazione individuale ed esistenziale, che allude e riflette comunque l'evoluzione progressista e libertaria della società a lei contemporanea. All'inizio della storia Beth è una bambina orfana ricoverata in un istituto; scopriremo poi che il padre l'ha rifiutata in quanto frutto di una relazione adulterina, che lei viveva in una roulotte con la madre, e che quest'ultima si è suicidata provocando un incidente stradale nel quale avrebbe dovuto trovare la morte anche la bimba. Alla fine è una giovane donna realizzata e di successo, che ha conquistato agiatezza economica, fama e ammirazione universale. La sua evoluzione è resa visibile: quando ritroviamo Beth adolescente, conserva ancora aspetti della Beth bambina, con i capelli tagliati corti, la frangetta ai minimi termini che le lascia nuda la fronte, la divisa dimessa dell'orfanotrofio sostituita da abiti ancora monacali dal taglio castigato e dai colori spenti, ma il maturare e il consolidarsi della sua personalità si manifesta nella scelta di abiti sempre più originali e raffinati e in acconciature sempre più curate ed elaborate. La trasformazione del visibile, abilmente mostrata attraverso l'evoluzione del look e degli outfits, è il segnale di trasformazioni più profonde. Benché a lungo dipendente prima di psicofarmaci – scoperti in orfanotrofio, dove venivano somministrate alle ospiti per tenerle tranquille – e poi dell'alcol, Beth afferma la sua faticosa emancipazione anche in campo sentimentale e intellettuale. Orfana non solo dei genitori ma anche degli affetti (il suo mentore scacchistico è un custode scorbutico, taciturno e misantropo, la sua madre adottiva stenta a trovare il suo ruolo materno, mentre il padre adottivo rifiuta puramente e semplicemente la paternità come anche lo stato maritale), Beth appare attratta precocemente dalle manifestazioni di affettività e di erotismo che si trova più a volte a spiare, ma non finisce prigioniera delle possibilità di relazione che le si offrono, proseguendo in un'esplorazione inconclusa dei propri sentimenti e delle esperienze amorose (con un'incursione anche in territorio omosessuale). Il cerchio si chiude comunque nel finale, quando la donna che fin da bambina non ha più una casa propria (la casa paterna negata, la roulotte, l'orfanotrofio, la “casa d'altri” dei genitori adottivi, l'ospitalità inospitale di Bennie, le camere d'albergo...) acquista l'appartamento d'adozione, ritrova l'amica-complice dell'infanzia, riscopre l'affetto taciuto di Shaibel (forse l'unico suo vero padre putativo), scopre intorno a sé l'affetto e l'amicizia dei ragazzi che ciascuno a proprio modo le hanno voluto bene. Nello stesso tempo Beth sceglie l'indipendenza intellettuale rifiutando le pressioni degli sponsor bigotti o del governo statunitense, che vorrebbero usare la sua immagine e la sua fama crescente in chiave propagandistica contro l'Unione Sovietica atea e socialista. C'è un'altra forma ancora di emancipazione che manca al catalogo, quella razziale (negli anni in cui si svolge la vicenda in molti Stati Usa erano ancora in vigore legislazioni segregazioniste) e Scott Frank lo affronta lateralmente attraverso il ritorno nell'ultima puntata di Jolene, compagna di reclusione di Beth, che si è evoluta da ragazzina orfana afroamericana che nessuno vuole adottare a giovane donna futura avvocato e attivista dei diritti civili. A restare forse più sfumata, è la forma di emancipazione più ovvia, quella relativa a una donna che si fa strada e conquista le posizioni più elevate e prestigiose in un mondo e in un ambito di totale dominio maschile. Benché Beth incontri una sola avversaria donna, in uno dei primi tornei per dilettanti cui partecipa, l'atteggiamento dei suoi avversari – e spesso campioni – maschi non dà mai veramente segni di aperto maschilismo, di sciovinismo o di paternalismo. Beth nella sua ascesa sembra suscitare molto più stupore che ostilità. Il sostegno dei suoi (battuti) ex-avversari e l'abbraccio finale dell'impassibile Bergov sono anche in questo caso la chiusura di un cerchio che ha cominciato a disegnarsi in uno scantinato dell'orfanotrofio con uno scorbutico e laconico custode al di là della scacchiera: un segno definitivo di riconoscimento e di accettazione. Alla felice riuscita dell'operazione - che si basa in effetti su un gioco del tutto sedentario e antispettacolare come gli scacchi e su uno sviluppo narrativo lineare e prevedibile che accompagna la scalata al successo di Beth – contribuisce certamente la scelta di cast che ha assegnato a Anya Taylor-Joy la parte della protagonista, centro assoluto della narrazione. Con il suo visino affilato, i capelli rossi, gli occhioni grandi e magnetici, la bocca piccola a cuore, il fisico minuto, la Taylor-Joy è praticamente perfetta nell'incarnare un'eroina scostante ma bisognosa di amore e di riconoscimento, fredda eppure vulnerabile, ferreamente determinata eppure piena di incertezze, posseduta da un'astratta ossessione ma nello stesso tempo turbata dalla seduzioni del mondo. Se poco azzeccata mi è sembrata la trovata delle visioni di Beth, che vede disegnarsi sul soffitto delle sue stanze la scacchiera su cui si muovono a testa in giù come strane stalattiti i pezzi degli scacchi, e sono forse un po' deboli i flashback che forniscono le informazioni sulla vita di Beth con la madre, prima del ricovero in orfanotrofio, tutta la macchina della produzione è perfettamente oliata; d'altra parte, La regina degli scacchi, ha la compattezza e la coerenza di un progetto squisitamente d'autore, visto che Scott Frank (che ha scritto film celebri celebri come Out of Sight e Minority Report, e che aveva già raccontato la storia di un bambino prodigio ne Il mio piccolo genio), insieme ad Allan Scott e alcuni altri, ha ideato, sceneggiato, prodotto e diretto il film. Molto ben riuscita è la ricostruzione d'epoca, con accattivanti scenografie vintage (firmate da Uli Hanisch) piene di tappezzerie fiorite e con credibilissimi e suggestivi campi da gioco scacchistici, fantastici costumi (creati e scelti da Gabriele Binder, “visitabili” nella mostra virtuale proposta dal Brooklyn Museum) e location molto ben scelte - considerando che quasi tutte le riprese, sia che la storia fosse ambientata nel Kentucky piuttosto che a Las Vegas, a Parigi piuttosto che a Mosca, sono state effettuate a Berlino (o nell'Ontario). Ottima e brillante anche la scaletta della colonna sonora, in cui alle composizioni originali di Carlos Rafael Rivera si aggiungono, a rievocare l'epoca, evitando stereotipi e luoghi comuni, brani evocativi tra jazz e il pop nascente. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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