FIRST MAN - IL PRIMO UOMO di Damien Chazelle![]() Trovo singolare la convergenza su un medesimo tema, e la presenza di un analogo mood, in due tra i maggiori esempi di fantascienza adulta contemporanea, Gravity e First Man. Addirittura i titoli si richiamano e si rilanciano l'un l'altro in un richiamo alla sessualità e alla procreazione: il first man come elemento maschile fecondatore e la gravity come condizione di chi porta un peso, la gravidanza, si riecheggiano in due film con protagonisti assoluti nel primo caso un uomo (con una donna a terra in – dolce - attesa), e nel secondo una donna (con un uomo alle spalle che ne rende possibile l'avventura e la sopravvivenza), entrambi ambientati nello spazio “domestico” compreso tra la terra “madre” e le orbite satellitari, fino a quella luna verso la quale è diretta una missione “seminale” (un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l'umanità). Entrambi i film, anche se a colpo d'occhio non appare il tema dominante, radicano le storie personali dei rispettivi protagonisti in un lutto e in una mancanza, del tutto analoghi. Pur essendo uno una storia di pura fiction, l'altro ispirato a fatti reali e verificabili, entrambi i film hanno radicamento nella morte di una figlia bambina. Per quanto possa apparire azzardato a una visione superficiale, i due film mi sembrano raccontare una storia molto simile di elaborazione del lutto, attraverso un viaggio reale e simbolico, compiuto nell'astrazione dello spazio cosmico, in cui l'individuo è costretto a confrontarsi con se stesso, e il cui fine ultimo è il ritorno e la ri-generazione. Come quello dell'Odissea, il viaggio, qualsiasi sia la destinazione, e qualunque deviazione ed ostacolo possa incontrare nel suo svolgersi, è sotto l'egida del nostos (la parola greca che dà origine al termine italiano “nostalgia”), cioè del ritorno. Un ritorno che è un rientro in se stessi prima che sulla terra, dopo l'elaborazione di un lutto e il diretto e brutale confronto tra la vita e la morte. In Gravity (cui avevo dedicato un articolo scritto per "Segnocinema") la dottoressa Ryan Stone è l'unica sopravvissuta del proprio equipaggio e in First Man il percorso di Armstrong verso la missione lunare e verso la luna si svolge sotto il segno di presagi luttuosi, con la morte germinale della figlioletta e poi progressivamente di diversi amici e colleghi e i rischi di morte cui il protagonista è più volte sottoposto, in genere a causa delle avarie o del malfunzionamento dei vettori sperimentali cui è affidata la sua vita. La partenza da casa di Neil è preceduto dall'addio ai figli, che devono essere preparati al suo non-ritorno, mentre per lui sono già scritti i necrologi da leggere ai telegiornali se, come sembra quasi probabile, la sua missione fallirà e la sua vita sarà persa da qualche parte, per mancanza di ossigeno, per una rotazione eccessiva, per il malfunzionamento di qualche valvola, per un'esplosione improvvisa, per uno schianto contro le rocce lunari o per qualsiasi altro imprevisto banale o eccezionale incidente possa capitare. Come Ryan viene di nuovo partorita e rinasce dopo una gravidanza interstellare, emergendo dalle acque ed ergendosi di nuovo sulla terra, così Neil compie definitivamente la propria missione non mettendo piede su un satellite deserto e arido, ma riprendendo contatto (letteralmente, malgrado ci sia ancora il diaframma di un vetro a separarli) con la propria vita e con la compagna amata. Il punto di traguardo del lungo viaggio sono delle dita che si toccano con altre dita: non per mettere in contatto l'uomo con Dio, come in Michelangelo, o con l'alterità, come in E.T., ma per mettere in contatto l'uomo con l'umanità, la propria umile, preziosa, fragile e indistruttibile umanità. Per Kennedy l'impresa andava compiuta perché “difficile”; e solo Neil potrebbe (forse) dirci quanto. Come Astolfo vola sulla luna per recuperare il senno di Orlando, Armstrong persegue cupamente la propria missione, ormai tetra e fatale come un destino, per recuperare il proprio senno, la propria dimensione vitale ed esistenziale, la propria possibilità di tornare a vivere in un mondo che pure è capace di infliggere un dolore apparentemente insuperabile e irreparabile. Forse è proprio la morte a far sì che la missione di Armstrong possa compiersi. Forse è la disperazione per la morte della figlioletta che porta Neil a sfidare la propria sorte nello spazio, ed è la morte dei compagni che gli permette di approdare passo dopo passo alla partecipazione alla missione fatale. Si direbbe che Neil raggiunga la luna non solo per una propria ossessiva ambizione, per coronare un sogno dell'umanità intera, per celebrare la potenza tecnologica dell'uomo, per sconfiggere l'Unione sovietica nella lotta piena di simboli e di propaganda per la conquista dello spazio, bensì per compiere un rito mesto e intimo, paradossalmente sproporzionato rispetto all'investimento economico, tecnologico, politico, di volontà e di progresso che l'ha portato sulla superficie lunare: il compimento, l'apice del viaggio di Armstrong è un gesto semplice e quasi impercettibile - quasi la negazione di un gesto, il non trattenere, il lasciare andare -: quello di una mano che si apre, e che lascia cadere di moto proprio una collanina dentro un cratere lunare, altare, sepoltura o cicatrice sempre aperta che sia. Ma se First Man si rispecchia in Gravity, è nello stesso tempo d'altra parte la logica conseguenza della poetica d'autore di Chazelle, che in Whiplash, in La la land e in First Man racconta con diverse declinazioni (e attraverso diversi generi cinematografici classici, la success story, il musical, la science fiction) storie di ossessioni e di successo, sempre con la stessa morale, o con con la stessa amara constatazione: quanto costi e quanto appaia alla fine vacuo, anche se raggiunto, qualsiasi ambizioso obiettivo possa dominare la mente e la vita degli esseri umani. Così si chiede se valga la pena massacrarsi le mani e la vita per diventare il migliore dei batteristi; o se valga la pena raggiungere la fama e il successo nel mondo dello spettacolo, se il prezzo da pagare è lo smarrimento lungo la strada dell'amore della propria vita; o infine se valga la pena di mettere piede sulla luna, quando i nostri affetti e le nostre memorie dimorano sulla terra. Chazelle da parte sua affronta di nuovo, come già in La la land, l'impresa di coniugare il cinema classico con quello contemporaneo. Al primo sono da attribuire la linearità narrativa, l'andamento antiretorico e antieffettistico, la discezione del commento sonoro affidato al fedele Justin Hurwitz e l'importantissima presenza di una fotografia dalle tonalità vintage firmata da Linus Sandgren. Al secondo appartengono invece l'astrazione figurativa in talune sequenze e soprattutto l'instabilità emotiva continuamente ribadita dalle riprese con camera a mano – anche dove la sua presenza e i suoi movimenti rasentano l'impercettibilità – non solo nelle sequenze di movimento ma anche in quelle più intime e domestiche (il montaggio è di Tom Cross). D'altra parte lo sguardo di Chazelle, assume un'ottica simmetrica ed inversa a quella di 2001 Odissea nello spazio, che nel 1968, grazie alla visionarietà di Kubrick immaginava in un futuro fantascientifico astronavi immacolate, accoglienti e servizievoli (almeno finché non impazziscono) levigate e perfette da far danzare sulle note del Bel Danubio blu; qui invece si guardano con piglio quasi documentaristico i veicoli spaziali di quell'epoca, che si vedono e si sentono in tutta la loro pesante materialità, macchine che oggi appaiono rozze, di cui è percepibile nel film la fattura quasi artigianale e rudimentale. Il regista affida infine la missione del titolo a un Ryan Gosling tornato alla sua connaturale e dolente inespressività, regalando a Claire Foy (anche in Unsane di Soderbergh) un ruolo ancillare ma di notevole intensità.
0 Commenti
|
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|