MADRES PARALELAS di Pedro AlmodovarMadres paralelas (anche se sulla locandina ne rappresenta uno in atto, intenso e geometrico), è pieno di abbracci spezzati. Le madri partorienti sono separate (e il montaggio alternato si sofferma a mostrare il dolore fisico della separazione) dai loro nascituri; poi dai loro neonati; poi ciascuna dal proprio figlio; poi ancora dal bambino che una sorte maligna ha loro assegnato. E le madri sono state separate dalle proprie madri (a causa della morte, o del semplice egoismo quando la madre di Ana si invola per inseguire narcisisticamente la propria realizzazione individuale come attrice nel ruolo della Dona Rosita descritta da Garcia Lorca, una donna condannata – e autocondannatasi – alla solitudine e alla sterilità), e queste dai propri avi, in una catena dolorosa che risale di generazione in generazione. Una condizione esistenziale e antropologica tragica che segna la storia di ognuno, e che diventa Storia con la S maiuscola quando incontra la grande frattura, quella faglia storica, politica, familiare rappresentata dalla Guerra Civile. La guerra fratricida è stata ed è il grande rimosso non solo del cinema di Almodovar, che non ne aveva mai fatto cenno nei suoi film precedenti, ma della stessa Spagna democratica: la legge sulla “Memoria historica” viene approvata solo nel 2007, dal governo Zapatero, ma poi svuotata e di fatto azzerata dal Popolare Rajoy negli anni 2013-14. E' purtroppo una situazione che non riguarda la sola Spagna: da uno spunto assai simile (l'indagine di un giovane antropologo forense che indaga sui desaparecidos eliminati dalla dittatura) si muove anche un film recente come Nuestras madres, ambientato in Guatemala e che parla di tragedie molto più vicine ai nostri tempi. Si è sottolineato molto il ruolo dell'importanza della memoria celebrato da Madres paralelas, più volte ribadito nel corso del film dagli stessi personaggi ed esplicitata nella citazione finale dalle parole dello scrittore uruguayano Eduardo Galeno: “Per quanto si tenti di ridurla al silenzio, la storia umana si rifiuta di tacere”. Ma se la tragedia che mina le possibilità di felicità dell'essere umano è rappresentata dalla frattura e dalla separazione, e se la memoria è lo strumento per sanare questa frattura per così dire in verticale, nella dimensione della storia individuale e collettiva, è ancora una volta lo stare insieme il mezzo per combattere nel qui e ora la minaccia della lacerazione. Accanto alla fossa nel terreno (piena alla fine non più di scheletri, ma di persone), si riuniscono i vivi, avvinti da legami comuni di memorie e di affetto; si riunisce una collettività. Non contano (solo) i legami di sangue; in quella inquadrata nelle sequenze finali, a rendere omaggio agli avi, è una strana e nuova famiglia allargata composta da vedove, da donne di differente età, sole o con un nuovo compagno, con figli reali o putativi. Il passato si salda con il presente e le persone si stringono insieme per ricucire le ferite e trovare i modi e la forza per affrontare la fatica di vivere. Pedro Almodovar gira intorno a temi a lui consueti (il rapporto con le madri e la maternità, la formazione di “famiglie” anomale e allargate; il gioco del caso e del destino; il rapporto con la morte e con chi non c'è più), ma con l'avanzare degli anni sembra avere sempre più occhi e interesse per il dolor dell'esistenza - comunque esso si possa manifestare e qualunque origine abbia - più che per la sua gloria effimera (l'unico suo tentativo recente di tornare alla spensieratezza e al cinema sregolato e grottesco delle origini, con Gli amanti passeggeri, è stato un vero e proprio inatteso e inattuale disastro). La stessa scelta dell'espressione artistica, che nel precedente Dolor y Gloria sembrava offrire all'autobiografico protagonista un risarcimento attraverso il cinema per i dolori dell'esistenza, diventa qui, nella figura della madre di Ana, che antepone il teatro alla figlia, una scelta egoistica e crudele. La fotografia, protagonista dei titoli di testa – bellissimi come in tutti i film di Almodovar – compare più volte nel corso del film: è la professione di Janis, che all'inizio cerca di cogliere durante uno shooting fotografico la personalità di Arturo, di cui presto si invaghirà (ma rifiutandosi di fotografarlo con un teschio, simbolo della sua professione di antropologo forense); si degrada poi ponendosi al servizio dello spettacolo delle merci, quando Janis accetterà di prestarsi a conferire glamour e appetibilità a degli accessori di abbigliamento; si riafferma alla fine con una funzione nobile quando Arturo fotografa i resti nella fossa comune, restituendoli alla dignità della memoria. Dignità che non è toccata a Garcia Lorca, citato a più riprese nel film, il più famoso desaparecido della storia spagnola secondo Almodovar, fucilato di nascosto dai franchisti nel 1936, e il cui cadavere non verrà mai rintracciato, malgrado le ricerche effettuate tra il 2009 e il 2012. Penelope Cruz, al suo settimo incontro con Almodovar e vincitrice della Coppa Volpi a Venezia, è ammirevole per naturalezza e credibilità; ma anche la giovane Milena Smit, già notata nel notevole No mataras, è un'attrice da tenere d'occhio.
0 Commenti
ANNETTE di Leos Caraxl mio colpo di fulmine per Leos Carax è arrivato con Rosso sangue (ma in originale il sangue era mauvais, cattivo): con una Juliette Binoche poco più che ventenne, la faccia incredibile di Denis Lavant, la fisica presenza carismatica di Hugo Pratt, la poesia, la furia, la follia, la corsa fino all'ultimo respiro, disperata, liberatoria e disarticolata, con Bowie che dà la spinta cantando Modern Love. Dopo ho recuperato il suo primo film, Boy Meets Girl, e ho continuato ad attenderlo fiducioso a tutte le sue uscite successive. Non è stato difficile: nei 35 anni che sono seguiti a Rosso sangue Carax ha diretto solo quattro lungometraggi, appuntamenti ogni volta attesi e ogni volta disattesi, dal disastro de Gli amanti del Pont-Neuf (come mandare in fallimento una produzione per un film con due attori e un solo set), al dimenticato Pola X, all'enigma caotico di Holy Motors, fino alla cupa caverna musicale rappresentata di Annette (premio per la regia a Cannes 2021). Nel nuovo film, Henry è uno stand-up comedian in crisi esistenziale e d'ispirazione, che anziché divertirli ormai si limita a provocare i suoi sempre più perplessi spettatori proponendo nei suoi spettacoli le proprie angosce disturbanti. Mal sopporta di contro il successo e l'affetto che il pubblico continua a tributare a sua moglie Ann, amata e apprezzata cantante lirica. La nascita della loro figlia Annette (che in realtà viene impersonata da un'inquietante marionetta - il secondo bambino-mostro di Cannes, insieme a quello di Titane) non migliora le cose. La storia tra i due divi, uno in discesa e l'altra in ascesa, si deteriora sempre di più (puntualmente scandita dai resoconti di tabloid e giornali scandalistici) e culmina in una notte di tregenda, in cui Ann scompare nel mare in tempesta. Henry rimane solo con Annette e con la maledizione scagliata da Ann: la bambina si esprime solo cantando e con le sue performance raggiunge una fama planetaria che getta un definitivo cono d'ombra su Henry. Il film è introdotto da un prologo in cui viene prescritto agli spettatori come comportarsi nel seguire il film, e concluso da un epilogo in cui gli interpreti di personaggi vivi e morti sfilano in un corteo notturno e cantando prendono congedo dal pubblico in sala. Non l'ho ancora detto, ma senz'altro già lo saprete: Annette è un musical, e tutti i dialoghi sono cantati dagli attori sulle musiche appositamente composte dagli Sparks, l'eccentrico duo dei fratelli Mael, prossimo ai 50 anni di attività e recentemente celebrato in un film dedicatogli da Edgar Wright, il regista di Ultima notte a Soho. Annette impone le sue due ore e venti di racconto musicale, su atmosfere costantemente cupe, claustrofobiche, soffocanti (anche quando sono ambientate in spazi ampi come teatri e palazzetti o in mare aperto) e spesso funeree, nelle quali personalmente non ho riscontrato quelle invenzioni visive che mi aspettavo e di cui invece altri parlano. Abitato oltre che dalla marionetta da soli due/tre personaggi protagonisti, il film spreca la presenza di Marion Cotillard, eliminata a metà film, lascia sullo sfondo il deuteragonista interpretato da Simon Helberg (l'Howard Wolowitz di The Big Bang Theory), concentrandosi completamente sul protagonismo assoluto di Adam Driver (coproduttore del film) e sulle angosce di Henry. Nelle quali non è difficile intravedere quelle di Carax, cineasta alla costante ricerca di un cinema “altro” e che si fa un punto d'orgoglio nel confondere, stupire e irritare il proprio pubblico. E nelle quali risuonano gli echi di vicende personali, come il suicidio nel 2011 della compagna Katerina Gobuleva (che ha lasciato “vedovo” anche un altro regista, il lituano Sharunas Bartas, che alla sua memoria ha dedicato nel 2015 il film Peace To Us In Our Dreams). Il manifesto, con i due protagonisti abbracciati che sfidano onde immani e tumultuose che torreggiano su di loro, fa pensare ad un romanticismo dark che è invece assente nel film, interamente occupato dalla espansione narcisistica anche se autopunitiva del personaggio maschile; che ha inoltre l'imperdonabile difetto di impersonare un comico che, durante le lunghe sequenze che lo vedono sul palcoscenico, non fa mai una volta ridere il suo pubblico (o noi pubblico), nemmeno per distrazione, per deformazione professionale o per riflesso condizionato. Se il film è totalmente privo di umorismo, accumula invece diversi elementi spiazzanti: dal modo assolutamente anomalo con cui affronta un genere come il musical (le più riuscite a mio parere sono le scene in cui il cantato si applica al linguaggio ordinario o addirittura tecnico o burocratico, come in un ospedale o in una stazione di polizia); la messa in scena che riesce ad essere insieme minimalista e barocca, intrisa di oscurità; il tono generale che sommerge il realismo con la fiaba nera e il melodramma; la presenza freudianamente perturbante della marionetta al posto della bambina, che diventerà tale solo quando suo padre pentito riuscirà a stabilire con lei un primo vero rapporto umano e affettivo. Un rapporto umano e affettivo che stentiamo a provare verso e il film e il suo autore; forse sarebbe ora che qualcuno consigliasse a Leos Carax (uno che mescolando e anagrammando il proprio nome, Alex, e quello del premio Oscar si è composto un nome d'arte che suona anche come Le Oscar a X...) di scendere dal suo appartato piedistallo, di avvicinarsi a noi spettatori, e di guardarci per una volta negli occhi. LA PEGGIOR PERSONA DEL MONDO (Verdens verste menneske) di Joachim TrierC'è una voce (femminile) off a presentarci il personaggio, una giovane donna irrisolta che passa dall'interesse per la medicina a quello per la psicologia a quello per la fotografia, senza trovare mai soddisfazione né realizzazione. Julie cerca la sua strada nella vita anche in campo sentimentale: cerca un rapporto ma ha paura di legarsi; diffida dell'istituzione familiare e non ha alcun desiderio di maternità; sembra acquietarsi in un legame fisso (con un disegnatore di fumetti più vecchio di lei) ma poi ne fugge alla prima occasione, senza trovare soddisfazione neppure nella nuova situazione. Salvo trovarsi ad un certo punto della sua vita, ancora giovane, a far conto con il passato, con le occasioni perdute, con ciò che non può più ritornare. Diviso in capitoli, con voce fuori campo e parte di una trilogia (dedicata a Oslo) come sarebbe piaciuto al quasi conterraneo e quasi omonimo Lars von Trier (Joachim è nato in Danimarca ma vive e opera in Norvegia); tentato dalla frammentarietà del racconto e del formato narrativo (c'è anche un inserto lisergico in animazione e una sequenza poetica dove la sola protagonista è in corsa in un mondo immobilizzato) come il modello americano 500 giorni insieme (ma senza possederne pari agilità, umorismo e grazia); aggiornato a moderni temi di dibattito (femminismo, sessualità, correttezza politica in campo artistico), il film piacerà forse più alle donne che agli uomini, pur essendo scritto interamente da mani maschili, quelle dello stesso regista e del suo abituale cosceneggiatore, Eskil Vogt. La persona peggiore del mondo (ma l'espressione usata nel film non si riferisce in realtà alla protagonista, come chiunque è portato a credere) racconta una donna d'oggi, un carattere fluido, indipendente, non incasellabile in un ruolo, in un legame, e neppure in una professione, in un racconto che è un po' amaro e un po' romantico, e che come la vita è parte commedia e parte dramma. Si parla tuttavia di commedia nordica, per cui non aspettatevi brillantezza da screwball comedy né battute memorabili alla Woody Allen; e di un dramma comunque temperato che non indulge al pathos. Diciamo che si tratta di un ritratto femminile non convenzionale e di una tranche de vie contemporanea, anche se a proposito dell'eroina protagonista rimane il dubbio: è una donna curiosa e libera o non piuttosto fondamentalmente egoista e velleitaria? L'attrice Renate Reinsve, già presente nel precedente Oslo, 31 august di Trier, ha una faccia aperta e simpatica. Di qui ad assegnarle il premio per la miglior interpretazione femminile a Cannes, però... ULTIMA NOTTE A SOHO (Last Night in Soho) di Edgar WrightEdgar Wright ha una predilezione e una predisposizione per l'ibridazione dei generi e dei toni. L'alba dei morti dementi (benchè si tratti della traduzione italiana dell'originale Shaun of the Dead, che è comunque una storpiatura del romeriano Dawn of the Dead – L'alba dei morti viventi), è un titolo che è già un manifesto d'intenti. Alla vocazione per l'ibrido è dedicato anima e corpo Last Night in Soho, già sdoppiato in una duplice protagonista e in una sfasatura storica: ambientato parte ai giorni nostri (ma ci vuole qualche minuto per rendersene conto) e parte nei favolosi anni '60 della swinging London (nel 1965, per la precisione, a giudicare dal cartellone pubblicitario che pubblicizza 007 – Operazione Tuono), in cui c'è già la fucina di musica, moda e cultura giovanile che ha per epicentro Carnaby Street (ma in cui, almeno nel film, non si ascoltano i Beatles). Seguendo la sua eroina Eloise, aspirante stilista e appassionata di vintage e di anni '60, Wright sembra impostare una storia di conquista del successo creativo e di emancipazione personale, famigliare (c'è già il fantasma di una madre finita stritolata nella morsa spietata della metropoli londinese) e sociale, per poi deviare apparentemente verso una storia di bullismo femminile; ma per scartare poi improvvisamente verso una discesa onirica nella Londra degli anni '60 (un po' come succedeva al protagonista di Midnight in Paris, che si trovava come per incanto nella vagheggiata e frizzante Parigi degli anni '20, ma anche ad Alice che si perdeva nel paese delle meraviglie...), dove la protagonista si sdoppia misteriosamente in una duplice identità; ma per virare verso una critica della società del tempo, che sotto la superficie patinata nasconde la violenza e lo squallore della rapacità sessuale maschile; che trasforma ben presto non solo il sogno in incubo ma anche la commedia fantastica della prima parte in un horror psicologico prima, in uno zombi movie poi, per sfociare in un finale giallo-thrilling grand guignol che tira fuori gli scheletri dagli armadi (quasi letteralmente) e rimette ordine nella confusione onirica, nelle colpe e nelle identità scambiate. Carte forse interessanti nelle mani del regista-sceneggiatore-produttore, e che sarebbero state sufficienti per almeno un paio di film, non fosse che lui decide di giocarsele tutte in un'unica medesima partita, una dopo l'altra e rimescolando continuamente il mazzo. Per apprezzarlo (non nego sia possibile) bisogna lasciarsi andare al flusso del film, lasciandosi divertire e sorprendere dalla girandola caleidoscopica dei salti di genere. Ma in un'operazione in cui lo stile dovrebbe essere ragion d'essere e fulcro centrale, Wright ne sceglie forse troppi. Lo sdoppiamento della sua eroina, soprattutto all'inizio - quando non sappiamo ancora se si tratta di un alter ego della protagonista, di una sua proiezione onirica, di una sua antenata, di un'altra persona vissuta nel passato -, grazie al quale la sbarazzina ragazzina contemporanea (interpretata dalla Thomasine McKenzie che si era già fatta apprezzare in Senza lasciare traccia e in JoJo Rabbit) si rispecchia – letteralmente - nella sofisticata e diversissima aspirante cantante degli anni '60 (la Anya Taylor Joy già magnetica Regina degli scacchi), suona abbastanza stridente. Sembra che a Wright interessi soprattutto disegnare, tessere e far ricadere le pieghe (per rimanere in tema con le aspirazioni della giovane protagonista) di un trip psichedelico (che diventa presto un bad trip) attraverso un'epoca mitica e mitizzata (in cui lui in realtà non era ancora nato), distribuendo omaggi al cinema del passato: dal Repulsion di Polanski (con la giovane bionda e sessuofobica che vaga nella wonderland alla rovescia di una Londra 1965, tanto effervescente quanto inquietante e rapace), da cui vengono tra l'altro le mani che fuoriescono dai muri e dal letto per ghermire l'eroina terrorizzata; ai profondi rossi alla Dario Argento e allo Psyco di sir Alfred Hitchcock (tra scale, soccorritori accoltellati e un'inquietante anziana signora, a sua volta doppio demoniaco del fantasma-angelo custode della madre reale), cui è debitore gran parte del finale del film. A far da testimonial sono due autentiche icone degli anni '60: Terence Stamp, seducente protagonista di tanto cinema d'autore di quel periodo, e Diana Rigg, l'indimenticata Emma Peel della serie tv Agente speciale (The Avengers), alla quale offriva un fondamentale apporto in termini di sex appeal e ironia (anche se i più giovani la conosceranno di più per la sua partecipazione al Trono di spade...). LA SCELTA DI ANNE (L’événement) di Audrey DiwanA Cannes ha vinto l’überfrau oltre la morale, oltre il genere sessuale e oltre l’umano di Titane; a Venezia l’Anne protagonista umanissima di un film umanistico giocato sui toni del realismo sociale. In entrambi i casi donne registe raccontano di gravidanze indesiderate, e mostrano gli sforzi delle protagoniste per liberarsi di un peso né scelto né voluto. Titane guarda ad un futuro da fantascienza (ma attraverso il filtro di una poetica cyberpunk già vista negli anni ‘80), raccontando di un’antieroina ingravidata da una Cadillac - sì, intesa proprio come automobile -, L’événement ad un passato in cui l’aborto era proibito e punito e il solo parlarne destava scandalo. E’ il 1963 e Anne si sorprende incinta, senza neppure aver realizzato pienamente che un rapporto sessuale occasionale con un coetaneo potesse condurre a questa conseguenza. La sua decisione è immediata: Anne non vuole trovarsi prigioniera di una maternità non prevista né voluta, insieme ad un ragazzo che non ama, non stima e che d’altra parte rifiuta ogni responsabilità chiudendosi a riccio in difesa della propria rispettabilità borghese e della propria egoistica libertà. Al contrario, Anne vuole istintivamente ma volitivamente uscire dall’ambiente proletario della sua famiglia, studiare, sostenere gli esami imminenti, leggere libri e magari scriverne; e la sua vita affettiva fa parte di un progetto futuro ancora nascosto e nebuloso dietro questo orizzonte. Scandito inesorabilmente dal trascorrere delle settimane dall’inizio della gravidanza, L’événement racconta del percorso tortuoso nel quale Anne si dibatte, in modo sempre più convulso e disperato, per interrompere la corsa del tempo che scandisce il suo destino. I medici, le amiche, gli amici e il padre del bambino che porta in grembo, le mammane che praticano aborti in clandestinità: Anne rimbalza come una pallina impazzita da uno all’altro, con angoscia sempre crescente, trovandosi spesso in vicoli ciechi e in situazioni sempre più pericolose. Il corpo di Anne perde da subito nel film l’attrattività sessuale, per diventare il campo di battaglia di una lotta che è individuale ma anche politica e sociale. La macchina da presa della Diwan pedina costantemente la sua protagonista - un’Anamaria Vartolomei costretta ad un notevole e riuscitissimo tour de force interpretativo - penetrando nella sua intimità, seguendola nelle visite ginecologiche, nei tentativi maldestri di procurarsi un aborto con le proprie mani, fin dentro le mutande sporche di sangue. Ma non c’è voyeurismo, non c’è morbosità, bensì un sentimento di vicinanza, di rispetto e di pietà nei confronti di una ragazza lasciata completamente sola alle prese con il proprio corpo improvvisamente nemico e con un destino ostile e indesiderato. Come in un altro film al femminile - ma questa volta scritto e diretto da un uomo - premiato a Venezia sempre nel 2021 nella sezione Orizzonti, A plein temps, la vita delle donne viene efficacemente raccontata con cadenze sincopate e quasi ansiogene; ma il film che forse si avvicina di più a L’événement, per tematiche, toni e drammaticità della narrazione, è 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (anche per La scelta di Anne si era pensato per il titolo italiano a 12 settimane), del rumeno Cristian Mungiu (Palma d’Oro al Festival di Cannes 2007), l’intenso racconto di un aborto clandestino nella cupa Romania di Ceasescu. FREAKS OUT di Gabriele MainettiSe non avessi visto Jeeg Robot premetterei che Freaks Out è un passo avanti e un salto di qualità nella ricerca di una via italiana al cinema di genere, con uno sforzo produttivo di scala inedita per il nostro cinema; ma alla fine liquiderei il tutto con una battuta dicendo che però, per raccontare la storia di un gruppo di fenomeni da baraccone, si è scelta la strada della baracconata. Invece ho visto Jeeg Robot, un film che mi aveva sorpreso e che ho amato, e quindi sento che devo fermarmi analizzare meglio, per rispetto ai suoi autori. In apparenza sembra esserci una linea di continuità rispetto al film precedente: il tema del supereroe (già presente nel corto Tiger Boy) involontario e riluttante, la diversità, la storia d'amore, il conflitto violento, l'ambientazione romana, il villain nevrotico con talento musicale. Ma come accade nei sequel – anche se Freaks Out non lo è -, si sceglie la strada dell'espansione: i supereroi diventano 4 o 5, il cattivo ha ha disposizione non una gang di periferia ma un poderoso esercito nazista, la storia diventa la Storia con la S maiuscola. A mio parere, però, si perdono per strada tutti quegli elementi che avevano fatto di Jeeg un film baciato dalla grazia: il disegno dei personaggi, ciascuno dei quali dotato al di là della caratterizzazione fumettistica di una propria verità umana; l'ambientazione local (determinante l'uso del dialetto romanesco) in un contesto global qual è quello dei film superomistici; la commistione di violenza, umorismo e tenerezza; la ben dosata mescolanza di elementi fantastici e di altri iperrealistici. Rimane solo per il pubblico italiano l'uso del romanesco, che tanto verrà spazzato via nelle eventuali versioni estere (al suo posto garantiscono il marchio geografico le inquadrature del Colosseo e dei Fori imperiali). Mainetti e Guaglianone hanno puntato con Freaks Out a una dimensione (e a un mercato) più ampi, complicando gli elementi produttivi (set, effetti speciali) ma semplificando quelli di contenuto. Freaks Out sotto questo punto di vista è o aspira ad essere davvero un prodotto globale (o meglio ancora glocal), che sembra guardare al modello - più che al Freaks di Tod Browning del 1932, evocato dal titolo e dall'ambientazione circense - degli esperimenti italiani di Garrone nel campo del fiabesco e del favoloso (con relative sfumature noir: Il racconto dei racconti e soprattutto Pinocchio), di alcuni autori europei (il cinema di Del Toro o di Jeunet), o di altri fenomeni hollywoodiani, più o meno nobili (il cine-fumetto della Marvel, il revisionismo storico alla Tarantino – vedere morire i nazisti è sempre un piacere – fino al vintage d'autore dello scorsesiano Hugo Cabret). Ma Mainetti da una parte osa, dall'altra cerca di andare al sicuro, con risultati paradossalmente molto discutibili. Da un lato ad esempio affresca un mondo all-freaks, dove sono mostri il gruppo dei buoni, è ovviamente un mostro il cattivo (Franz) e i cattivi (i nazisti) e sono mostri pure gli alleati dei buoni, un gruppo di partigiani composto da monchi, orbi, amputati e derelitti vari. Tra i pochi “umani” sono i “diversi” per eccellenza, gli ebrei, rastrellati e deportati: ma rimangono purtroppo delle silhouette senza carattere, comparse per le scene di massa, riempitivi per i vagoni, bersagli per i nazisti dopo che il treno è stato fermato. Ma molto più grave è la semplificazione e il poco risalto dato al disegno dei personaggi protagonisti: sembra che Guaglianone e Mainetti si siano limitati ad attribuire a ciascun personaggio un potere, una particolarità fisica e un carattere della personalità, rinunciando a qualsiasi complessità o evoluzione. C'è così il peloso e pragmatico uomo forzuto; l'albino uomo degli insetti strafottente ma insicuro; il nano magnetico e segaiolo (con tanto di gratuito nudo integrale full frontal e rotatorio); la ragazzina elettrica carina e volitiva (perdonatemi, ma a volte mi ha ricordato un po' il Cappuccetto Rosso televisivo che pubblicizza i telefoni con i tasti grossi); il folle nazista ambizioso e frustrato, pianista con sei dita; il vecchio mago ebreo. Ogni attore deve conformarsi quindi allo stereotipo che rappresenta, recitando dietro una maschera che a volte è letterale, come nel caso di Santamaria, irriconoscibile per tutto il film, nascosto sotto il pelame da uomo-lupo. Se non più spessore, hanno almeno qualche pennellata di vitalità (il partigiano gobbo di Max Mazzotta) o di pietà umana (Irina, l'amante di Franz) un paio di personaggi laterali. Il mago Israel all'inizio preannuncia che “nulla è come sembra”, invece sembra proprio il contrario: i superpoteri sono reali, i colpi di scena latitano, e lo sviluppo narrativo vorrebbe forse essere picaresco – oltre che celebrare l'epopea di personaggi proletari -, ma assomiglia di più a una serie di circoli viziosi utili a separare e far rincontrare i vari personaggi. Mainetti dissemina qualche particolare sgradevole per cercare di speziare un po' il gusto naïf della storia, ma mescola anche elementi fantastici incongrui come smartphone divinatori e amanti in volo alla Chagall sparati fuori da un cannone. Freaks Out dovrebbe sbalordire con la visionarietà del cinema, ma, come accade talvolta in prodotti simili, appare da subito zavorrato dal gusto un po' teatrale dei costumi, del make-up, della scenografia. E c'è poi un problema di tempi e ritmi narrativi. Si intuisce dal prologo, in cui vengono mostrati in modo prolisso i “numeri” dei vari membri della compagnia circense; ma subito dopo scoppia l'inferno, e il tendone del circo viene spazzato via dai bombardamenti; ci si dice allora che la lunga sequenza serviva a infonderci meraviglia e falsa sicurezza prima di sorprenderci facendo irrompere il disordine e l'orrore della tragedia. Ma Mainetti adotta poi effettivamente uno stile registico calligrafico, in cui ogni sequenza deve esaltare la sua perizia tecnica, o l'effetto speciale impiegato. In una narrazione già di per sé non stringente, che - spiace dirlo - non riesce ad appassionare più di tanto, le sequenze si dilatano oltre il dovuto, quasi a sforzarsi di sfruttare fino all'osso le risorse inaspettatamente a disposizione. Se in Jeeg gli effetti speciali volavano basso, adeguati ad un budget modesto, e avrebbero meritato maggior respiro, forse in Freaks Out, paradossalmente, un po' meno di effettismo avrebbe giovato alla credibilità e alla godibilità della storia. Mainetti e Guaglianone hanno dimostrato con Jeeg di saper costruire personaggi e storie e un mood narrativo efficace e suggestivo; con Freaks Out di poter aspirare ad un racconto di respiro internazionale maneggiando budget più importanti; ora – a meno che Mainetti non venga cooptato in qualche produzione hollywoodiana - si tratta di trovare una giusta mediazione: aspettiamo con fiducia il terzo film perfetto. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|