BABY DRIVER di Edward WrightAnni fa su “Segnocinema” Bandirali e Terrone creavano la categoria cinematografica del “filmetto” e ne facevano l’apologia, contrapponendolo al “culto cinefilo” e all’”esibizionismo ermeneutico” del film d’autore. Anche se la loro categoria si applicava alla commedia, e pur non essendo sempre d’accordo con le loro deduzioni conseguenti, mi è tornata alla mente come una delle più adeguate a qualificare Baby Driver – Il genio della fuga di Edward Wright. Che è un gran bel filmetto. Un godimento cinematografico, per gli occhi, per le orecchie, per il cuore, che batterà fino all’ultimo al ritmo sincopato del film. Baby Driver è anche un film fumettistico, ma non nel senso deteriore del termine. Il tratteggio dei personaggi, delle situazioni, degli sviluppi narrativi ben si adatterebbero ad una graphic novel, cui il cinema però aggiunge però il fascino degli attori, ma soprattutto il vortice delle immagini in movimento e l’ineguagliabile potere emozionale della musica. Baby condivide in effetti alcuni dei caratteri basilari dei protagonisti delle saghe fumettistiche supereroiche: soffre di un handicap (nel suo caso di acufene, un disturbo dell’udito che provoca fischi, ronzii, fruscii, ecc.), vive con un genitore bisognoso di assistenza (un anziano padre adottivo di colore, oltre che sordomuto), è un solitario, alle prese con i turbamenti sentimentali dell’adolescenza ma anche con la presa di coscienza dei problemi e delle responsabilità che comporta il passaggio all’età adulta. Ma ha un superpotere che lo rende diverso dai suoi coetanei. Solo che nel suo caso il superpotere non ha nulla di fantascientifico o di sovrumano. Baby, semplicemente, malgrado la sua giovane età, sa guidare come pochi altri. Ma anziché mettere il suo talento al servizio del bene, come un Peter Parker, ad esempio, Baby, ricattato da un boss spietato e manageriale, è un autista al servizio del crimine. Il prologo in media res lo vede già in azione, faccia da bambino segnata dalla cicatrici di un passato crudele e cuffiette alle orecchie, su una potente macchina rossa parcheggiata all’esterno di una banca, mentre si esibisce in una solitaria e sentita interpretazione di Bellbottoms della Jon Spencer Blues Experience, in attesa che i complici armati fino ai denti lo raggiungano per iniziare una spericolata e adrenalinica fuga per le vie di Atlanta, inseguiti dalle auto della polizia accorse sul luogo della rapina. Nipote del Driver di Walter Hill e del pilota di Drive di Nicolas Winding Refn (tutti personaggi, come lui, privi di nome proprio), Baby dovrà lottare fino all’ultimo respiro e pagare un caro prezzo per emanciparsi dalla sua immaturità, dalla sua solitudine e dalla sua schiavitù al mondo del crimine. Efficacissimo action movie senza distrazioni e cedimenti (ma con un’aria anni ’70 che lo distingue dal cinema contemporaneo drogato di effetti speciali), con gli inseguimenti girati da stuntman con macchine vere (onore ai montatori Jonathan Amos e Paul Machliss), Baby Driver è pure nello stesso tempo film musicale, love story, crime story, romanzo di formazione. La trovata dei disturbi acustici del protagonista, che se ne difende con la musica perennemente ascoltata in cuffia, attira nel regno del diegetico una colonna sonora formidabile, che scandisce i tempi e gli umori del racconto, tra azione sfrenata e pause romantiche. Sfiorando il musical, le macchine schizzano al tempo della musica, Baby danza per le strade come un giovane e deviato Gene Kelly, i due giovani protagonista cercano di inventarsi un’identità ancora incerta grazie ai titoli delle canzoni. Fumettistico, si diceva; ma i personaggi sono stilizzati, non stereotipati. Basti dire che nel corso del film diversi personaggi attraversano la linea che separa “buoni” e “cattivi” (virgolette d’obbligo) e rivelano sfaccettature che, se non li fanno diventare personaggi a tutto tondo (non è quello che gli veniva richiesto), conferiscono loro spessore e sfumature. Purtroppo Wright, anche sceneggiatore, prima della fine si mette a costeggiare un altro genere cinematografico ancora (è il difetto principale del film), facendo dell’antagonista finale una sorta di mostro da horror movie, capace di risorgere più volte superando la soglia della credibilità realistica in cui fino a quel momento il film si era, con tutte le licenze, mosso. Wright tuttavia ama troppo i suoi giovani protagonisti (interpretati da Ansel Elgort e Lily James, più grande di età) per chiudere sullo scontro finale e prolunga il film con un epilogo di espiazione e redenzione. Peccato che gli ottimi villain, cui si deve buona parte del fascino del film (Jon Hamm, Jamie Foxx, Eiza González e il più manierista Spacey) siano tutti morti. Ci sarebbe stato materiale (e voglia) per un Baby Driver 2. Ah, a proposito di un film che si muove a suon di musica: molti degli attori del film (gli stessi Elgort, Foxx, González, ma anche Sky Ferreira, Flea, ecc.) hanno a che fare con il mondo della musica: cantanti, cantautrici, dj, pianisti, per non parlare di uno dei bassisti rock più famosi del mondo...)
0 Commenti
L'INGANNO di Sofia CoppolaL'inganno può piacere o non piacere. Dipende se si è maschi o femmine, immagino, visto che parla di rapporti tra i sessi non solo in termini di seduzione, ma anche di potere, di manipolazione e di sopraffazione, oltre che delle dinamiche interne ad un gruppo femminile; e dipende se si è visto e se si ricorda il film diretto da Don Siegel (i distributori italiani tradussero The Beguiled con un ammiccante La notte brava del soldato Jonathan) e tratto dal medesimo romanzo di Thomas Cullinan. Il film di Siegel fu piuttosto scioccante per il pubblico di allora: un western ambientato durante la Guerra di Secessione in cui la maggior parte dei protagonisti insolitamente sono donne; un western con un protagonista western (il Clint Eastwood appena reduce dall'aver fondato una nuova epopea insieme a Sergio Leone ed Ennio Morricone), ma mescolato al melodramma, al gotico, all'horror. Un western teatrale fiammeggiante ma ambientato in gran parte negli stessi interni e comunque in una sorta di hortus conclusus. Un film dove, contrariamente a tutto il cinema di allora e a gran parte di quello successivo, è il maschio la vittima e le signore, signorine, ragazze e bambine le carnefici. E non si trattava di un maschio qualunque: siamo in guerra quindi l'uomo è un soldato, un guerriero; e non si trattava di un guerriero qualunque, essendo interpretato da un attore-divo famoso; e non si trattava di un divo qualunque: è Clint, appunto, un attore macho che si diceva avesse solo due espressioni: con la 357 Magnum e senza la 357 Magnum... Un maschio già handicappato in partenza da una ferita di guerra, per buona parte del tempo immobilizzato in posizione supina, già dall'inizio in debito verso le caritatevoli abitanti di un collegio femminile che si trova suo malgrado al crocevia delle truppe unioniste e confederate. Sofia prende pari pari il vecchio film (la sua sceneggiatura è basata su quella di quest'ultimo, oltre che sul romanzo), ma lo ripulisce, lo tranquillizza, lo riordina. Per citare un altro artista maschiaccio, ne fa un film pulito, illuminato bene (dalla luce di un Sud mite di clima, o da quella morbida delle candele). Tira fuori i vestiti eleganti, i bijou, i violini. Lascia la violenza fuori campo, sia quella della guerra sia quella che inaspettatamente spunta all'interno del collegio. Rende facile e indolore, un gioco da ragazze, tagliare un arto a una persona adulta (ci si può fare un'idea di quanto le cose siano differenti leggendo qualche pagina di Lettera a Berlino di Ian Mc Ewan). Ne fa un film che può piacere alle sue spettatrici, che saranno appagate dalla punizione esemplare di un maschio che si credeva un furbacchione; e grazie alle più femminili delle arti: un piatto cucinato ad arte, un buon lavoro di cucito. E al termine del quale si chiude il cancello, e si lasciano fuori i corpi estranei, i maschi che fanno casino e strappano i bottoni, le passioni che confondono e sporcano per terra. Se ne riparla sul numero 208 di Segnocinema in libreria a novembre: il mio "perché no" contro il "perché sì" di un altro critico della rivista. MEXICO! UN CINEMA ALLA RISCOSSA di Michele RhoIl Labour Film Festival del Cinema Rondinella di Sesto permette di recuperare alcuni lungometraggi della stagione connessi alla tematica del lavoro, ma anche di fare scoperte più o meno inedite tra il ricco calendario di documentari e cortometraggi proposti in rassegna per tutto il mese di settembre. Mi è molto piaciuto Mexico! Un cinema alla riscossa di Michele Rho, dedicato alla figura di Antonio Sancassani, gestore sui generis della storica sala milanese, perché vi ho ritrovato parte della mia storia sentimentale di spettatore. Il Cinema Mexico, dove sono stato molte volte, quell’angolo di via Savona, i cinema di Milano, soprattutto quelli che non ci sono più: tutti quei nomi che riempivano in ordine alfabetico i tamburini dei quotidiani e quei neon dai nomi evocativi che coloravano il centro città intorno a Corso Vittorio Emanuele, nella piccola Broadway milanese che ora, soprattutto nelle serate invernali, è ridotta a un triste deserto spopolato tra schiere di negozi di abbigliamento chiusi. Anche Sesto San Giovanni ha subito un depauperamento simile, perdendo nel giro di non molti anni tutte le sue sale cittadine: il mitico Alpha (sublimazione dello scalcagnato Rondò), l’Adelchi, l’Apollo, il Corallo, il Dante, l’Elena, il Manzoni, tutti chiusi e quasi tutti rimasti desolatamente vuoti e abbandonati. Morte anche tutte le arene cinematografiche estive, quelle private e quella comunale nel cortile di Villa Visconti d’Aragona, che ho accudito personalmente, a fianco dei vari partner, per quasi un trentennio. L’unica monosala resistente è appunto l’encomiabile, splendido Rondinella, mentre il multiplex Skyline, sull’estrema linea di confine con Milano, si contende il pubblico con un altro multiplex situato a 800 metri di distanza in zona Bicocca. Ho usato non a caso l’aggettivo “resistente” poche righe sopra, perché ad una figura di resistente è dedicato Mexico! Antonio Sancassani (il santo protettore degli esercenti, diceva qualcuno interpretandone il cognome) è una splendida figura di imprenditore, uomo di cultura e di spettacolo che si è sempre conquistato e ha difeso con le unghie e con i denti la propria indipendenza. Dopo una prima parte della sua vita spesa nella natale Bellaggio, a dirigere il cinema Vittoria, Sancassani si trasferisce a Milano alla fine degli anni ’70 e qui rileva un vecchio cinema di via Savona (allora periferica, oggi contigua al quartiere trendy di via Tortona), che ristruttura e comincia a gestire (una malattia malvagia, proprio in questo momento critico, tenta di farlo fuori senza riuscirci). Ma la sua gestione appare subito anomala nel panorama della filiera cinematografica milanese. Sancassani è un imprenditore che ci tiene alla sua indipendenza e la difende con orgoglio, fierezza e testardaggine. Fin dall’inizio si rifiuta di sottostare alle regole delle agenzie di distribuzione (talvolta legate alle grandi case di produzione), che pretendono di imporre ai cinema la loro programmazione, imponendo e sottraendo titoli, allungando e accorciando a proprio piacere le teniture, ricattando, obbligando i gestori all’acquisto di pacchetti dove per avere un film desiderato bisogna magari accettarne un altro paio indesiderati e indesiderabili. Sancassani è di un’altra idea: il cinema è suo e vuole farci quello che vuole lui. Il che vuol dire emarginarsi volontariamente dal sistema, lavorare ai margini e di fantasia. E Sancassani se ne inventa. Il cinema musicale, il cinema in lingua originale. E poi arriva il colpo di genio, la prima grande svolta del Mexico, con l’approdo sul suo schermo di The Rocky Horror Picture Show. E’ un’opera rock, camp, kitsch, anomala e trasgressiva, destinata a conquista il pubblico milanese degli anni. Sancassani vede Saranno famosi, dove alcuni personaggi, studenti di una scuola per lo spettacolo, si danno appuntamento al The Rocky Horror, un cinema newyorkese con le sedie di legno dove il pubblico si traveste e reinterpreta in sala le scene che passano sullo schermo. Sancassani pensa: perché non posso farlo anch’io al Mexico? Va in una scuola di teatro milanese, dove un gruppo di studenti sta portando il Rocky Horror come saggio di canto, parla con uno studente sconosciuto, Claudio Bisio, e li ingaggia. Comincia così la leggendaria tenitura del film al cinema Mexico, che continua oggi a 36 anni dal suo esordio, con serate dedicate e aficionados di varie età e professioni che per decenni hanno dedicato una sera alla settimana a uscire da se stessi per entrare in questa strana fiaba dark contemporanea. Ma non si vive di solo Rocky Horror (benché siano oltre 250.000 gli spettatori che l’hanno visto nella Rocky Horror House di via Savona nel corso degli anni), così arriva la stagione del cinema indipendente: come un rabdomante Sancassani si mette alla ricerca di nuovo cinema, soprattutto italiano, quello dei giovani autori che, realizzato il film, magari con faticosi percorsi di crowfunding (o turlupinati da pseudoproduttori che, una volta raccolti i finanziamenti, ne destinano al film solo una quota, per disinteressarsi poi completamente della sua sorte, avendo già realizzato il proprio indebito guadagno) non trovano spazio in una distribuzione ancor oggi blindatissima. E ancora una volta arriva il colpo di fortuna o di genio, il miracolo di un piccolo film indipendente, Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, una storia di pastori ambientata in una valle occitana e parlato in italiano, francese e occitano, che inspiegabilmente conquista il cuore e il passaparola del pubblico milanese e che si tiene stretto lo schermo del Mexico per più di due anni consecutivi, tra incontri col regista, serate musicali e assaggi di formaggio di capra. A raccontare questa straordinaria parabola, questa vita romanzesca (anzi, cinematografica) c’è lo stesso Sancassani e il suo staff, ma anche i più noti critici cinematografici milanesi, Paolo Mereghetti, Maurizio Porro, Alberto Pezzotta, oltre a personaggi di cinema e di teatro come Luca Bigazzi, Moni Ovadia o Claudio Bisio. La storia continua: ancora oggi Sancassani saluta il suo pubblico nel foyer, chiede se il film è piaciuto, fiuta l’aria e i gusti; e intanto riceve decine di proposte da parte di nuovi filmaker che vedono in Sancassani un paladino del cinema indipendente e nel Mexico l’unica possibilità di far vedere il loro film in sala, si fa mandare i film, li guarda e li valuta, ospita quelli che gli sembrano più interessanti, dando loro almeno un paio di settimane garantite di tenitura, per permettergli di conquistare l’interesse del pubblico e di generare un virtuoso passaparola. Tira le conclusioni lo stesso Sancassani, anziano, un po’ stanco, ma ancora fiero, inflessibile. Ha fatto il suo lavoro come ha voluto, è stato malato ed è guarito, ha messo da parte un po’ di soldi, si è tolto qualche soddisfazione, potrebbe anche smettere. Ma è sicuro che dopo qualche giorno si annoierebbe. E così resiste, alza tutti i giorni la saracinesca della sua sala, combatte ancora contro il drago della distribuzione accanto ai peones del cinema indipendente. ¡Que viva México! ERASERHEAD - LA MENTE CHE CANCELLA (1977) di David LynchHo visto per la prima volta Eraserhead nel gennaio del 1982, al cinema Cristallo, con il mio amico Diego. Uscendo dal cinema nel freddo milanese, credo che su una cosa fossimo d’accordo: David Lynch era pazzo. Avevamo una ventina d’anni, e avevamo già visto film forti e disturbanti (allora capitava più di oggi) e conoscevamo già quelli che oggi sono considerati i classici del cinema dell’orrore, Shining e Alien, Romero e Cronenberg, Hooper e Carpenter. Ma Eraserhead, che pure arrivava (cinque anni dopo la sua realizzazione) accompagnato dalla fama di midnight movie, di film maledetto, era diverso. E bisognava essere pazzi per girare una cosa così. Pur essendo ancora oggi uno dei film della storia del cinema che più partecipa della natura dell’incubo, non era un film dell’orrore. Non ne possedeva la struttura narrativa e drammaturgica, non ne rispettava alcun stilema, alcun topos. Il protagonista aveva una faccia e una pettinatura da commedia. Troppa parte vi aveva il grottesco, il nonsense, anzi, il gratuito e l’ermetico: una donna con le guance deformi canta su un palcoscenico illuminato sotto un termosifone, il protagonista perde la testa e ne viene fatta gomma da cancellare da mettere sulle matite. In realtà Eraserhead era, e continua ad essere, un oggetto a parte, che non ha la struttura narrativa e drammaturgica di un film tout court. La sua (non) struttura è appunto quella arbitraria e priva di logica dell’incubo, dell’allucinazione (come lo sarà molti anni dopo e con una certa maniera INLAND EMPIRE). Nel suo bianco e nero espressionista, nella sua quasi mancanza di dialogo, nella movenza e nelle pose dei personaggi, sembra a volte appartenere all’epoca del cinema del muto, un freak movie ripudiato, relegato e ritrovato in qualche archivio infernale. Molte sequenze appartengono al cinema di animazione a passo uno, con l’effetto perturbante di cose che si muovono, piangono, sanguinano, senza essere veramente umane e neppure animali. Molto altro da allora si è visto e molto si vedrà. Ma rivisto ancora oggi (alla sua uscita in occasione del quarantennale nel ciclo Il cinema ritrovato a cura della Cineteca di Bologna), credo che Eraserhead possa mantenere molto del suo carattere sconcertante. A cominciare dalla rappresentazione dell’ambiente famigliare e domestico come uno spazio concentrazionario di alienazione e angoscia. La famiglia, le relazioni con l’altro sesso, la procreazione e la genitorialità sono rappresentate con una forza disturbante ancora potentissima e raramente eguagliata. Credo che la rappresentazione del neonato, che rompeva il tabù dell’iconografia riservata all’infanzia, possa turbare ancora i ricordi di molti genitori che hanno visto il film. Lynch ha concepito il film, l’ha sceneggiato, diretto, montato; ne ha curato le musiche, le scenografie, gli effetti speciali. Eraserhead possiede quindi una straordinaria e rara coerenza autoriale, che ne lega indissolubilmente i diversi elementi: gli esterni postindustriali e gli squallidi interni domestici, le musiche e uno stupefacente sound design (realizzato quando ancora non sapevamo cosa fosse il sound design), lo svolgimento trasognato e le atmosfere oniriche. Eraserhead rimane, pur nella sua assoluta originalità e volontaria eccentricità e marginalità, un film-cardine dell’immaginario cinematografico (amato da Kubrick e da Bukowski), un’eco surrealista nipote dello scandaloso Chien andalou buñueliano, ma capace di (ri)generare studi, citazioni, imitazioni e di consacrare all’istante Lynch come un autore inevitabile, ancorché in certo modo indesiderabile, del cinema a venire. Forse solo un altro film, ma già di un decennio posteriore, gli accosterei per la radicalità della visione e per il suo estremismo forsennato e oltraggioso: Tetsuo, del giapponese Tsukamoto. Ma questo è un altro incubo. IL COLORE NASCOSTO DELLE COSE di Silvio SoldiniSoldini è partito dalla voglia e dall’intenzione di rappresentare la condizione della cecità da un punto di vista “normale”, della quotidianità di persone attive, curiose e autonome, lontano dai cliché della consueta gamma della iconografia cinematografica (dall’handicappato di cui aver pietà al non vedente dei thriller o dei super-hero movie che ha sviluppato in massimo grado gli altri sensi, quando non addirittura superpoteri). Il punto di partenza è con tutta evidenza Per altri occhi – Avventure quotidiane di un manipolo di ciechi, il documentario girato dal regista nel 2013 che l’ha portato ad avvicinare e conoscere diverse persone non vedenti nella loro realtà di ogni giorno. La condizione della cecità diventa qui un elemento di un classico melodramma amoroso, dove la diversità è motivo di attrazione (come è accaduto altre volte nella filmografia di Soldini, da Un’anima divisa in due a Pane e tulipani o Cosa voglio di più) e nello stesso tempo di sconcerto e di spaesamento. L’attenzione di Soldini e dei suoi cosceneggiatori (Davide Lantieri e la fedelissima Doriana Leondeff, che scrive con Soldini fin dal 1997 de Le acrobate) si concentra in realtà, più ancora che sulla figura di Emma (una Valeria Golino impeccabile nel ruolo della non vedente attiva, orgogliosamente autonoma, e nello stesso tempo anche desiderabile), sulla parabola esistenziale di Teo, interpretato da un efficace e spettinato Adriano Giannini. Teo è un pubblicitario affermato (lui lavora con l’immateriale e con le immagini; lei non può vederle e fa l’osteopata, immersa in un mondo di sensazioni tattili) felicemente celibe, fidanzato ma infedele. L’attrazione verso Emma, di cui ascolta la voce roca e sensuale durante una visita al buio (un appuntamento al buio, un vero e proprio blind date che si rivelerà fatale), che mira a far conoscere alle persone normodotate le condizioni di vita di chi non può vedere, nasce per curiosità, per una smania erotica collezionistica (“timbrare” una cieca), quasi per scommessa. Si rivelerà invece un’esperienza di conoscenza, di condivisione, di ascolto delle esigenze dell’altro, di cura da dare (e da ricevere), che cambierà la sua visione delle cose (a rendersi conto del loro colore nascosto) e della vita, portandolo a riconsiderare tutta la sua esistenza, i suoi rapporti e prospettive. Soldini racconta la storia dei suoi amanti con partecipazione e naturalezza (dote che mancava del tutto ad esempio in un altro titolo programmatico di questa stagione italiana, La tenerezza), con uno stile di regia fluido e vicino ai personaggi. Si rivela un’ottima idea vincente quella di “sporcare” la linea narrativa introducendo il personaggio ironico e buffo dell’ipovedente Patti, amica di Emma (interpretata dalla brava attrice, soprattutto teatrale, Arianna Scommegna), che porta una nota di disordine e di scompiglio in una progressione drammatica altrimenti facile da immaginare. E’ invece soprattutto il rapporto con la giovane non vedente Nadia, nella quale rivede se stessa e la difficile accettazione della propria menomazione, e che a sua volta subirà nel corso del film una parabola positiva e trasformatrice, a dare spessore alla figura di Emma, della quale veniamo a conoscere un, fino a quel momento inaspettato, dolorosissimo episodio del proprio passato. Se si vuole trovare un punto debole in un film comunque complessivamente riuscito (che fa dimenticare l’imperdonabile passo falso veteromoralistico de Il comandante e la cicogna, l’ultimo film firmato da Soldini prima di questo), lo si potrebbe individuare proprio nei momenti in cui il naturalismo della narrazione cede lo spazio all’intenzione metaforica, soprattutto nel sottofinale che vede la “conversione” di Teo: se già il personaggio di Orazio, il robot aspirapolvere di Teo, è un po’ (letteralmente) un artificio simbolico, l’intenzionalità diventa più scoperta in tutta l’episodio del ritorno di Teo al paese natale, che decide il suo ritorno a una prospettiva che recupera i valori degli affetti famigliari e delle relazioni umane più autentiche, ma che allinea tutta un’iconografia scopertamente retorica che va dall’antico borgo arroccato alla mano sul ventre della sorella gravida, sino alla plastica pietà in grembo alla madre nel cimitero, l’immagine più formale (e una delle preferite del regista) in un film altrimenti vitale e non schematico. Soldini (come già aveva fatto, ma in un’unica sequenza, il Xavier Dolan di Mommy), alterna poi il formato di ripresa e proiezione, espandendo e contraendo lo schermo con un ritmo (non così evidente allo spettatore) che asseconda le varie fasi della relazione tra Emma e Teo, e apre e chiude il film sullo schermo completamente nero, punto di partenza e di arrivo di un rapporto che va dal primo approccio a una diversità aliena alla sua accettazione e appropriazione. DUNKIRK di Cristopher NolanNel maggio del 1940, nel primo anno di guerra, le panzer division tedesche sbaragliano le forze anglo-francesi in Francia e le spingono verso nord, finché centinaia di migliaia di soldati alleati si trovano insaccati in un perimetro sempre più ristretto, incapaci di contrastare il nemico che li accerchia da tre lati e davanti al mare della Manica che gli preclude un’ulteriore ritirata dal quarto. L’unica soluzione sembra un’evacuazione via mare, visto che poche decine di chilometri li separano dalla salvezza sulle coste inglesi, ma i tedeschi bombardano i ponti e i britannici lesinano sulle navi e sugli aerei in soccorso, preferendo serbarli per non trovarsi sguarniti in caso di un probabile imminente attacco nemico. In questa situazione di stallo pazzesca, con centinaia di migliaia di uomini disperati e intrappolati su un territorio che ormai è ridotto alla località del titolo (ma è Dunquerque – siamo in Francia! – e non Dunkirk come anglicizzato dalla distribuzione internazionale), l’Inghilterra decide di tentare una carta inaspettata (la cosiddetta Operazione Dynamo), mobilitando centinaia di imbarcazioni private da mandare attraverso la Manica ad evacuare i soldati imprigionati, risparmiando le navi militari e utilizzando navigli più piccoli in grado di avvicinarsi alla spiaggia anche in assenza di moli e porti. L’operazione, nella disfatta generale che vide gli alleati sconfitti e rigettati in mare, decine di migliaia di prigionieri, una quantità enorme di armi, mezzi e attrezzature abbandonati a terra e bottino dei tedeschi, e un numero elevato di barche, navi e aerei colpiti dai nemici, si concluse comunque con un successo consolatorio, che vide il ritorno in patria di oltre 300.000 soldati inglesi oltre al salvataggio di molti commilitoni francesi. Nolan, inglese, anche se di casa nel cinema americano (ha diretto film di culto come i tre episodi del Cavaliere oscuro, Inception, Interstellar, oltre al geniale Memento), sceglie questo grandioso episodio di epica negativa per realizzare un progetto di cinema puro, che non sposa né la narratività classica né la coralità (autorizzata dal soggetto e portata alle estreme conseguenze nel war movie da La sottile linea rossa di Malick), frammentando la storia su tre episodi conduttori (un allusivo omaggio alle tripartizioni kubrickiane?), in cui la definizione dei protagonisti conta meno della gigantesca dinamica degli eventi messi in scena. Protagonisti e fili conduttori delle tre sottostorie sono un fante inglese, alla ricerca disperata nel disordine generale di un riparo o di un mezzo di fuga dalla costa francese; un marinaio inglese che parte in mare col suo peschereccio alla volta di Dunquerque, con a bordo due adolescenti; e due piloti della Raf, inviati a supporto delle operazioni di evacuazione e a contrastare i bombardieri tedeschi, che ingaggeranno una serie di duelli aerei con i nemici. La passione per gli elementi e per i paradossi temporali rendono Nolan un regista che si potrebbe definire presocratico: la narrazione si sviluppa infatti tra terra, acqua e aria, tutti segnati dalla presenza del fuoco degli spari, degli incendi e delle esplosioni. Nello stesso tempo Nolan non rinuncia a quello che è ormai un suo marchio d’autore (qui forse più un vezzo che una vera necessità filosofica o narrativa), e cioè il gioco sulla dimensione temporale. Le tre storie, infatti, contrassegnate da altrettanti titoli nei primi minuti del film, durano rispettivamente una settimana, un giorno, un’ora. Poiché ciascuna ha punti di contatto con le altre, lo spettatore si ritrova ad assistere più volte agli stessi episodi da prospettive differenti, in una temporalità che si contrae e si espande, aumentando il senso di vertigine complessivo. Pur essendo ambientato in massima parte in sconfinati spazi aperti (il cielo, il mare, la spiaggia sulla Manica amplificata dalla bassa marea – lo stesso scenario e la stessa situazione storica erano stati raccontati dieci anni fa con un memorabile piano-sequenza in Espiazione, di Joe Wright), la sensazione dominante che Nolan infligge ai personaggi e suscita negli spettatori è quella della claustrofobia. Il senso di imprigionamento, di dibattersi in uno spazio senza vie d’uscita, è insito nel soggetto ma ricorre ed è continuamente sottolineato dalle situazioni narrative: gli interni delle imbarcazioni squassate dalle esplosioni o forate dai proiettili, come terribili trappole invase dall’acqua; il rifiuto dei soldati traumatizzati salvati dalle acque di trovare riparo in sottocoperta; la difficoltà dei piloti dei caccia inglesi a evadere dai rispettivi abitacoli dopo essere stati colpiti e abbattuti. La sensazione di chiusura, di soffocamento è ulteriormente amplificata dall’espediente drammaturgico di rendere il nemico invisibile, una sorta di fantasma implacabile e persecutorio ma assente dalla visione, a cui è quindi impossibile reagire e da cui è impossibile sfuggire. Delle truppe tedesche si vede solo qualche aereo (oltre a delle sagome sfocate di soldati in una delle ultime sequenze), di cui è anche difficile riconoscere le insegne. Le parole “tedeschi” o “nazisti” non vengono mai o quasi mai pronunciate durante tutto il film (sostituite nella maggior parte dei caso con locuzioni come “il nemico”). Assente dallo schermo e dai dialoghi, rappresentato iconicamente con macchine volanti o con buchi che si aprono nella paratia di una nave, o con il rumore degli spari sotto i quali cadono uno dopo l’altro i soldati inglesi nel prologo del film, il nemico finisce così per perdere una connotazione storica (il film, tutto concentrato sull’azione o sull’inazione permessa ai personaggi, ben poco si interroga sulle dinamiche e sulle ragioni storiche e strategiche degli eventi narrati) per assumere contorni quasi metafisici. Prevalentemente disinteressato ai suoi personaggi, Nolan si dedica all’orchestrazione di una grande sinfonia audiovisiva, riducendo i dialoghi al minimo e puntando ad offrire allo spettatore un’esperienza immersiva (forse è uno dei quei film che vale la pena di vedere su schermo Imax), dove la fotografia (dello svizzero Hoyte Van Hoytema, che aveva già filmato per Nolan Interstellar) stende su tutto l’affresco tonalità fredde (gli eventi hanno luogo in realtà tra la fine di maggio e i primi di giugno), gli effetti digitali sono resi impercettibili dal realismo della rappresentazione e il sound design estremamente curato (la colonna sonora è firmata da Hans Zimmer, ma il sound department include decine di nomi) contribuisce in misura decisiva a mantenere elevatissima la tensione per tutta la durata del film. Il riferimento che sorge spontaneo è quello alle scene dello sbarco in Normandia narrato da Spielberg nella prima parte di Salvate il soldato Ryan (anche se Nolan risparmia generosamente i particolari più truculenti), che si avvitava però nel seguito nelle maglie terribilmente strette di una narrazione convenzionale e grondante di una retorica drammaturgica e ideologica che Nolan riserva solo in minime dosi nelle scene finali dell’epilogo inglese. Dunkirk, al contrario della maggior parte dei film di guerra, si configura invece come un grandioso affresco sull’impotenza, in cui le azioni concesse agli individui protagonisti sono comunque un monito alla responsabilità individuale, non erosa o distrutta neppure di fronte alla potenza soverchiante degli eventi. IN DUBIOUS BATTLE - IL CORAGGIO DEGLI ULTIMI di James FrancoA James Franco la possibile immagine di attore hollywoodiano belloccio sta evidentemente stretta. Così oltre che come attore cinematografico e televisivo si è cimentato come produttore, regista, sceneggiatore, interprete; e poi pittore, poeta, novellista, filosofo. Come attore ha recitato nella parte di James Franco, di omosessuali, di pornografi, di criminali devianti, di Goblin sfigurati, di una salsiccia (maschio) ansiosa di penetrare in un panino (femmina); è stato premiato con il Golden Globe e nominato come peggior attore dell’anno ai Razzie. Come regista ha diretto documentari, cortometraggi, lungometraggi, film tratti da McCarthy, Faulkner, Steinbeck, metafilm su stesso, videoinstallazioni, video musicali. Generosità? Incoscienza? Eclettismo? Dilettantismo? Velleitarismo? Genialità? Ansiosa e ansiogena ricerca di identità? Una parte di queste categorie (genialità a parte, purtroppo) potrebbe servire a spiegare in parte In Dubious Battle – Il coraggio degli ultimi, che ha scritto, prodotto, interpretato, diretto. Franco prende un romanzo di un grande della letteratura americana, Steinbeck, lo riscrive, coinvolge una serie di vecchie glorie hollywoodiane (Duvall, Harris, D’Onofrio, Sam Shepard, in una delle sue ultime apparizioni prima della morte avvenuta nemmeno due mesi fa) e imbastisce un film politico e militante ambientato nei primi anni ’30 del ‘900, nel periodo della Grande Depressione, ma che allude all’oggi, quando ancora una volta i padroni della finanza producono sconquassi le cui conseguenze verranno pagate dalla gente comune, dagli umili senza potere, dagli ultimi. Bel gesto; ma purtroppo il film è di una pochezza imbarazzante. Didascalismo spinto, dialoghi didattici, sceneggiatura sciatta, regia priva di invenzioni e di carattere. E interpretazioni che volenti o nolenti si adeguano al contesto. Lo spessore dovrebbe essere dato dallo sguardo problematico e disincantato con cui si guarda ai due agitatori politici che si sono mescolati ai braccianti raccoglitori di mele californiani (ma il film è girato in Georgia), sfruttati, vessati e sottopagati dai capitalisti terrieri, per indurli ad uno sciopero ad oltranza in difesa dei propri diritti. Mac (il cui ruolo Franco riserva a se stesso) è un cinico che il buon fine dell’emancipazione degli oppressi spinge ad adottare metodi non ortodossi, a costo di sacrificare i propri compagni e i lavoratori pur di portare la situazione ad un punto di crisi e provocare la reazione degli sfruttati; Jim (Nat Wolff) è il giovane che lo affianca e che ha ancora uno sguardo più vergine e ingenuo sui metodi della lotta politica. Lo sviluppo della sceneggiatura porterà ad un ribaltamento dei ruoli, che vedrà indurirsi il carattere di Jim mentre Mac si rivelerà un sentimentale capace del sacrificio supremo a favore della causa. E non può mancare inoltre una pleonastica sottotrama platonico-romantica tra giovane agitatore e ragazza madre. Ma In Dubious Battle, malgrado l’ispirazione marxista e anticapitalista poco hollywoodiana, è un film pesantemente convenzionale, pur senza avere un respiro classico; malgrado la veemenza della storia raccontata è fiacco e senza nerbo (incapace di raggiungere quell’afflato retorico che qualsiasi mestierante dell’industria cinematografica statunitense sarebbe riuscito a trarre da un soggetto del genere); ha la pretesa di voler stare dalla parte degli umili ma non smette mai di sembrare un film in costume recitato da filodrammatici travestiti da poveri. Guardandolo si sente la nostalgia e la voglia di rivedere altri film, che so, Splendore nell’erba di Kazan, o Matewan di Sayles, Adalen ’31 di Widerberg, o anche I compagni di Monicelli. Il pregio maggiore del film sta nelle informazioni che ci vengono fornite nelle didascalie finali, che ricordano come gli scioperi, le proteste e le agitazioni dei lavoratori (molti dei quali vennero uccisi, arrestati o picchiati nel corso degli scioperi che solo nel 1934 si contarono in oltre 2000, con la partecipazione di circa un milione e mezzo di persone) portarono da lì a pochi anni a nuove leggi più eque in materia di salari e orario e condizioni di lavoro. Un po’ poco. Pazienza. Provaci ancora, James. EASY - UN VIAGGIO FACILE FACILE di Andrea MagnaniSi potrebbe fare metà della recensione giocando sul titolo del film (Easy è un film esile, Easy è un film facile facile) o sulla corpulenza del protagonista (Easy, al contrario del suo protagonista, è un film senza peso, e così via). Easy è il diminutivo di Isidoro, ex-promettente pilota di go-kart e oggi nullafacente depresso e obeso. Sua mamma è una milf che si tiene in forma, suo fratello un imprenditore edile senza scrupoli che, quando un operaio ucraino, naturalmente irregolare, muore cadendo da un’impalcatura, carica fratello e bara con cadavere imbarazzante da sbarazzare e li spedisce verso il confine magiaro-ucraino. E’ ovvio che il viaggio non andrà come previsto. Non è la prima volta che il cinema racconta di viaggi con bare e cadaveri, dando luogo a volte a commedie ridanciane a volte a racconti tragici. Easy sceglie un’altra strada, tra astrazione e sommesso umorismo. Astrazione che Andrea Magnani, regista esordiente, esibisce fin dal gusto paesaggistico delle prime sequenze, che rivela una netta preferenza per le direttrici orizzontali. Anzi, volendo, il film potrebbe essere letto come una verticalizzazione e una ripopolazione progressiva del paesaggio, dalle linee piatte del tetto su cui tondeggia il corpo di Easy nell’immagine del titolo e della laguna nel prologo, fino alle montagne, alle pinete e ai gruppi di persone della parte finale. Forse è Easy stesso che in qualche modo si rialza, dall’encefalogramma piatto e abulico dell’esordio alla progressivamente sempre più impellente necessità di darsi da fare per cavarsela (e per portare caparbiamente a termine la sua inutile e assurda missione). Le immagini, d’altra parte, contano quasi più delle parole in un film (un'inedita coproduzione italo-ucraina) dove si parla (non molto) ma non ci si comprende, per le differenze linguistiche innanzitutto, ma anche perché si appartiene a mondi e interessi diversi e apparentemente inconciliabili (perfino il navigatore ad un certo punto si mette a parlare una lingua incomprensibile). Easy attraversa l’Europa con lo sguardo stupito di un novello Candide, portando a spasso il suo corpaccione incongruo (con barba/senza barba) e uno straniamento che avrebbe potuto essere di Tati, affrontando disavventure a volte malinconiche ma che più spesso inducono al sorriso. Ma cosa ci racconta questo film rarefatto, dall’ironia sottile (al contrario del protagonista: e rieccoci)? Non molto, mi pare. Il motivo reale che ha spinto Easy a ritirarsi dalle gare e dalla vita non presenta particolari sorprese, colpi di scena o rivelazioni di senso; il percorso che lo conduce dall’Italia faccendiera ad un’Ucraina bucolica che sembra appartenere ad un altro pianeta non ci dice poi molto né dell’Europa d’oggi né delle persone che Easy incrocia nella sua deriva; e il finale aperto rimane sospeso su una storia e su un protagonista troppo fragile (malgrado la mole) per sostenerlo. A Nicola Nocella, premiato a Locarno, viene richiesto poco più che un’espressione continua di candido stupore, mentre la Bouchet e De Rienzo si limitano a camei. Visto che alla fine è quasi inevitabile tornare alle metafore sul corpo del protagonista, diciamo che a dispetto della stazza, Easy è un film che, per estrarne quel po’ di succo, va spremuto bene. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|