CIVIL WAR di Alex GarlandSi inizia che la rivolta contro il Presidente autocratico degli Usa è già iniziata e la guerra contro le repubbliche secessioniste e le forze armate degli Stati occidentali è in pieno corso. A New York disordini nelle strade, incendi, coprifuoco, mezzi dell'esercito a pattugliare le strade; dovunque guerra, sparatorie, cecchini appostati, case incendiate o semidistrutte, automobili abbandonate lungo le strade, cadaveri.
Non poteva esserci uscita più tempestiva per Civil War, presentata in anteprima mondiale il 14 marzo, proprio mentre Trump - dopo aver tra l'altro definito “animali” i migranti - paventava “un bagno di sangue” ("bloodbath") in caso di sua mancata elezione il prossimo 6 novembre. Civil War questo “bagno di sangue” l'ha già messo in immagini, fino al suo esito finale e fatale, dentro l'ufficio presidenziale della Casa Bianca (malgrado tutto un lieto fine? ma l'immagine che accompagna i titoli di coda è una foto macabra che emerge lentamente da uno schermo bianco per sprofondare poi in uno schermo nero). Il film suona pertanto come un tempestivo, molto sinistro ma per niente inverosimile ammonimento preventivo a tutto il popolo americano, al quale dice: ecco cosa succederà se veramente vorrete eleggere Trump buttando alle ortiche i due secoli e mezzo di storia della più antica Costituzione del mondo ancora vigente. Poiché sarebbe chiaramente indiscreto inserire nel film dettagli politici più precisi e imbarazzanti (già così è presumibile che l'uscita del film negli Stati Uniti, prevista per il prossimo 12 aprile, susciterà non poche polemiche), le ragioni della guerra civile non sono spiegate da Garland (sceneggiatore oltre che regista; britannico per nascita e formazione), né vengono esplicitate le malefatte del Presidente; il giudizio più “politico” che viene espresso nel film è una battuta che ne assimila la personalità mediocre a quelle di Gheddafi, Mussolini e Ceasescu. L'aspetto politico, per quanto sia il più eclatante e suggerisca i maggiori motivi di curiosità, non è però quello preponderante. In realtà Civil War, cosa non nuova, accumula ed intreccia ambiziosamente diversi generi cinematografici piuttosto classici, in un impasto ad alto tasso di spettacolarità. C'è prima di tutto l'on the road, con la struttura nomade e la narrazione episodica, fatta di incontri e scontri, fermate e ripartenze, soste e spostamenti, mentre i viaggiatori approfondiscono la conoscenza reciproca e si delinea il gioco delle relazioni. Perché Civil War è anche il racconto di una sorta di famiglia putativa, anche se tra i quattro protagonisti nessuno ha rapporti di consanguineità con gli altri. Si trovano infatti a condividere un po' per caso lo stesso automezzo, che deve percorrere più di 800 miglia in zona di guerra, uno strano quartetto composto da una pseudo-coppia genitoriale, una pseudo-figlia ribelle e uno pseudo-nonno saggio: sono in realtà Lee Miller (omonima di Lee Miller Penrose, che fu, oltre che modella e fotografa di moda, una delle prime corrispondenti di guerra negli anni '40 e la prima a documentare per immagini gli orrori dei lager nazisti dopo la liberazione), fotografa di guerra impersonata da Kirsten Dunst; il suo socio giornalista Joel (Wagner Moura), che ostenta il necessario cinismo richiesto dal mestiere; Jessie (Cailee Spaney – la Priscilla del film della Coppola), giovane fotografa che vuole emulare la sua compagna di viaggio più anziana e navigata; e il saggio giornalista veterano Sammy (Stephen McKinley Henderson), anziano, corpulento e claudicante. I quattro rappresentano anche un paradigma dell'atteggiamento nei confronti della guerra e della propria professione: l'inesperta Jessie che deve ancora mettere la propria vocazione alla prova dei fatti e dell'orrore; il cinico e pragmatico Joel; la matura Lee, indurita dall'esperienza ma ormai provata dalla sommatoria degli orrori cui ha dovuto assistere; l'anziano Sammy che vede le cose dalla prospettiva disincantata ma anche ricca di buonsenso dovuta all'età avanzata. Nello stesso tempo, ancora, Civil War è, ovviamente, un film di avventure bellica, con imprevisti, pericoli, salvataggi, fughe, prese in prigionia da una parte; stormi di elicotteri rombanti, campi militari e battaglie con carri armati, mitragliatrici e mitragliatori, fucili di precisione, esplosioni e quant'altro, dall'altra parte. Ma c'è di più: Civil War è ambientato nel noto e tranquillizzante paesaggio americano, dalle vie di New York ai notissimi luoghi simbolo del potere politico di Washington, passando attraverso la campagna bucolica dove gli uccellini cinguettano e i placidi paesini della provincia, dove però ogni strada, ogni prato, ogni stazione di servizio ospita cadaveri, sangue e orrore; dagli edifici distrutti esce il fumo nero degli incendi, e i cieli sono solcati giorno e notte dai traccianti dei proiettili. Civil War assume quindi anche le caratteristiche di un film apocalittico e distopico, dove le situazioni più comuni – uscire per strada, fermarsi a fare rifornimento di carburante, andare in un parco-giochi - acquistano una tonalità sgradevole e perturbante. Infine, Civil War vuole anche essere, o così vuol far credere, un film sulla rappresentazione della guerra, e sullo strano mestiere e sull'etica peculiare che consiste nel fotografare la violenza e la morte, senza dovere né volere intervenire – né per combattere, né per salvare, né per soccorrere. Ma purtroppo, a mio parere, Civil War, dopo aver messo tutta questa carne al fuoco e aver mescolato questi diversi ingredienti narrativi, non eccelle nel portarne a cottura (per continuare con l'improprio paragone culinario) nessuno. L'idea forte di fondo, con un'America divisa e lacerata da una guerra intestina, con un Presidente che ha abusato dei propri poteri tanto da aver suscitato secessione e rivolta, non viene sviluppata più di tanto. Il film inizia già in media res, anzi in extrema res, visto che siamo già vicini all'epilogo drammatico, e poco o nulla ci viene detto su come e perché si sia giunti a questa situazione, né vengono approfondite le lacerazioni di una lotta fratricida che vede su fronti opposti americani contro americani, ora nemici ma presumibilmente avvinti da mille legami. L'on the road impone l'andamento episodico, dove ogni segmento è basato su un'idea che si vorrebbe forte e straniante, come ad esempio i torturatori alla stazione di servizio, il cecchino al parco di divertimento invernale, i soldati alla fosse comune. Quest'ultimo è effettivamente l'episodio più riuscito (per quanto risolto in maniera corriva), con la visione infernale dei cadaveri cosparsi di calce ammucchiati nella fossa comune nella quale cade la giovane fotografa, e soprattutto con la tensione creata l'interrogatorio del soldato dagli occhiali rossi, dove la vita e la morte (che tocca in modo ovvio ai personaggi più sacrificabili) dipendono dalla risposta che si dà alla domanda “da dove vieni?”. I personaggi tuttavia non progrediscono più di tanto passando da una situazione all'altra, in uno sviluppo che conferma quelli che già si intuivano i caratteri di partenza: l'anziano grasso e zoppicante ma saggio e disposto all'eroismo; la ragazzina ambiziosa messa alla prova dalla realtà della guerra; il cinico non immune al dolore per la perdita di un amico; la burbera dalla dura corazza ma affaticata e protettiva verso quella che vede una versione giovanile di se stessa. Anche le scene di combattimento, per quanto girate con professionalità da Garland (regista che ha dato già prova di un talento visionario nei suoi film precedenti), non sono particolarmente innovative o emozionanti e sono spezzate dalla interpolazione degli “scatti” degli ardimentosi war reporter; e se i protagonisti sono spesso a pochi centimetri di distanza dai combattenti, sempre esposti al fuoco incrociato e indiscriminato e alle pallottole vaganti, tanto già sappiamo che i proiettili li colpiranno mai. La maggiore novità (relativa) è forse il fatto di essere ambientate in luoghi che negli americani, come già si diceva, devono per forza indurre una sensazione di straniamento e di perturbamento, come il Lincoln Memorial o la Casa Bianca (in un epilogo con tanto di ralenti colpevolmente scontato). Come il tema politico, anche quello etico imperniato sui reporter di guerra appare poco o nulla approfondito. Ancora una volta, rispetto a opere come Urla dal silenzio, Salvador o Un anno vissuto pericolosamente, la maggiore novità consiste nell'ambientazione, non nei cortili d'America, ma direttamente in casa sua, fin dentro la Casa americana per eccellenza, quella Bianca. Nel trattare il tema delicato dei confini dell'etica giornalistica e del diritto alla rappresentazione della guerra, dell'orrore e della violenza, però, non si va oltre l'alternanza tra i sentimenti adrenalici dei protagonisti: eccitazione vs terrore, fascinazione vs repulsione, attrazione morbosa vs insensibilità. I nostri eroi si catapultano in mezzo alle azioni di guerra o sopra mucchi di cadaveri: in genere senza paura, nemmeno per se stessi, ma anche senza pietà e senza ritegno per le vittime.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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