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HOLLYBLOOG
cosa c'è in giro da vedere

a cura di Mauro Caron

(NOVE) FINESTRE SUL MONDO

3/27/2018

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28° Festival del cinema africano, d'Asia e d'America latina:
Concorso "Finestre sul mondo":
KILLING JESUS (Colombia/Argentina) di Laura Mora Ortega 
SEVERINA (Brasile/Uruguay) di Felipe Hirsch 
THE NUMBER (Sudafrica) di Khalo Motabane 
NO BED OF ROSES (Bangladesh) di Mostafa Sarwar Farooki 
OF FATHERS AND SONS (Germania/Siria/Libano) di Talal Derki  
I AM NOT A WITCH (Francia/UK/Zambia) di Rungano Nyoni 
THE BOMB (Filippine) di Ralston Jover 
AZOUGUE NAZARETH (Brasile) di Tiago Melo 
THE SEEN AND UNSEEN (Indonesia/Olanda/Australia/Qatar) di Kamila Andini

Per una settimana, almeno a Milano e in un ambito ristretto ma prezioso, Africa, Asia e America Latina non sono state il teatro di guerre lontane ma non per questo meno terribili e cruente, o i concorrenti sleali delle nostre economie, o il remoto luogo di provenienza di immigrati stranieri, pericolosi e invasori, bensì terre ricche di racconti, di esperienze, di confronto.
Il Festival del Cinema africano, d'Asia e America Latina è quello che spesso manca e che se non ci fosse andrebbe inventato e moltiplicato: un'occasione di incontro, di conoscenza, di riconoscimento.
Dal 18 al 25 marzo, grazie al Coe e ai suoi numerosi partner istituzionali e privati, a Milano sono sfilati sugli schermi dei cinema San Fedele e Oberdan decine di film di diversi formati e di diversa provenienza.
Il festival (oltre ai riconoscimenti attribuiti da vari enti) ha assegnato i seguenti premi: Premio Comune di Milano - Miglior Lungometraggio Finestre sul Mondo a I Am Not a Witch di Rungano Nioni, (Francia/UK/Zambia, 2017); premio come miglior cortometraggio africano ad Aya di Moufida Fedhila (Tunisia/Francia/Qatar); Premio Extr’A a Babylonia mon amour di Pierpaolo Verdecchi (Italia/Spagna).
Io ho seguito in particolare il concorso dei lungometraggi “Finestre sul mondo”, con film provenienti dai tre continenti, e quello dedicato ai cortometraggi africani, oltre ad aver visto alcuni film fuori concorso di cui magari parlerò in separata sede.
Tra i lungometraggi in concorso, il migliore mi è sembrato senza alcuna ombra di dubbio (ma anche il pubblico del festival ha votato bene e lo ha decretato il suo film preferito) il colombiano Killing Jesus (Matar a Jesus) di Laura Mora Ortega. La regista racconta una storia dolorosa in parte autobiografica, anche se trasfigurata con elementi di finzione romanzesca. Siamo a Medellin, dove la protagonista, una studentessa che vive la sua vita come tante sue coetanee, tra amici, libri, spinelli e feste, vede il proprio padre ucciso per strada da due assassini in moto. Mentre la polizia trascina le indagini con inerzia e forse ignavia, la ragazza crede di riconoscere per caso uno degli assassini. Meditando vendetta, intraprende un percorso di avvicinamento al sospettato che avrà esiti, emotivi e morali oltre che narrativi, del tutto inaspettati. La regista, alla sua opera prima, racconta benissimo tutto, lo stordimento, il disorientamento, la rabbia, la fascinazione, la confusione, e gira tutto come va fatto, con un'empatia emotiva fortissima ma senza fronzoli e senza sottolineature retoriche. Le parole contano in effetti molto meno delle immagini in un racconto molto fisico e molto vicino ai personaggi, ma che diventa anche uno spaccato preciso di una società avvilita, violenta e derelitta. Molto efficaci i due giovani protagonisti, Natasha Jaramillo e Giovanny Rodríguez, entrambi non professionisti (la regista pensava ad un'attrice per la parte della ragazza, ma poi ha preferito la spontaneità di Natasha). Se mai ce ne fosse la possibilità, da vedere.
La giuria ha premiato invece I Am Not a Witch, di Rungano Nyoni. Siamo nel pieno dell'Africa nera, in epoca contemporanea, e il film affronta la tematica, grottesca se non fosse tragica, delle donne accusate di stregoneria. Si tratta di donne generalmente anziane e sole, con scarse o nulle possibilità di difesa, che, accusate di stregoneria, vengono emarginate: capri espiatori, manodopera a costo zero, vittime di macchinazioni famigliari o di malevolenza di quartiere o di villaggio, le “streghe” finiscono in una sorta di campo-lavoro governativo, legate con dei nastri a dei grossi rocchetti in modo che non possano prendere il volo per compiere i loro malefici. Con un linguaggio che adotta i toni del grottesco amaro e del fantastico, la regista racconta la storia di Shula, una bambina orfana involontaria streghetta utilizzata di volta come operaia nel campi, come procacciatrice magica di pioggia, o come individuatrice di colpevoli in pseudo-indagini poliziesche. Ci si sente un po' a disagio identificandosi con i turisti bianchi che vanno a fotografare le povere recluse.
A tradizioni ancestrali si richiama anche Azougue Nazareth (Azougue Nazaré), del brasiliano Tiago Melo, che propone l'opera più bizzarra del festival. Al centro del film il maracatù, una danza rituale importata dagli africani deportati come schiavi nel continente americano, e ancora oggi praticata in particolare nello stato di Pernambuco. Tra danze tribali, spiriti che vagano tra le canne da zucchero, gare di versi goliardici tra samberos, confronti di religione tra evangelici e pagani animisti ed episodi boccacceschi, si sviluppa un film che avrebbe potuto essere una commedia sociale, un horror rurale, un documento folklorico-antropologico, e che è un po' di tutto questo in una mistura dal sapore inclassificabile.
Ancora la cultura tradizionale è al centro di The Seen and Unseen (Sekala Niskala), dell'indonesiana Kamila Andini. In una zona rurale di Bali, una bambina decenne segue il fratello gemello ricoverato in ospedale, colpito da una malattia che lo priva di coscienza e sensibilità. Il film racconta con immagini limpide e sospese il rapporto tra i due bambini, che si dipana sul filo del ricordo o dell'immaginazione fantastica. Tramite di comunicazione tra le dimensioni del visibile e dell'invisibile, del reale e dell'onirico, si fanno arti tradizionali balinesi come il teatro delle ombre e la danza tradizionale. Alcune sequenze, come quella del combattimento dei due bambini-gallo sui letti dell'ospedale, sono di bellezza definitiva e autorevole, da antologia. Il film ha ritmi lenti e la situazione narrativa è priva di sviluppo, per cui bisogna prepararsi a lasciarsi stregare esercitando l'arte della pazienza.
Più direttamente impegnati nella rappresentazione del sociale sono invece il sudafricano The Number e il filippino The Bomb (Bomba). Nel primo Khalo Matabane impagina un racconto quasi monocromatico ambientato in una prigione del Sudafrica post-apartheid: il film racconta i rapporti di potere tribale che si sviluppano tra i detenuti, comunque tutti neri. Duro e torvo, il film riserva comunque una speranza di redenzione anche per i più compromessi.
Nel secondo Ralston Jover racconta una storia di amore e emarginazione ai bordi di Manila, dove un uomo, muto e impegnato in umili lavori, vive con la figlia adolescente. Il film descrive la possibilità di un mondo di affetti e la ricerca di una normalità quotidiana pur in una situazione minacciata dal degrado (i due vivono dignitosamente in una baracca ai margini di una discarica) e dalla violenza (amplificata anziché rintuzzata dalla politica indiscriminata di uccisioni extra-giudiziali praticata dalla polizia di Rodrigo Duterte nell'ambito di una pseudo-guerra alla droga). Un personaggio venuto dal passato getterà scompiglio e una luce nuova sul rapporto tra i protagonisti. Finale alla Taxi Driver; inaspettato o forse no, visto il titolo del film.
Ancora più spinto nei termini della rappresentazione della realtà è Of Fathers and Sons, girato in forma documentaria da Talal Derki nel nord della Siria dilaniata dalla guerra. Il regista, accettato come un fotografo simpatizzante, vive per alcuni mesi con una famiglia di jihadisti impegnati in una guerra parte motivata dal nazionalismo e parte dal fanatismo religioso. Le donne, come è intuibile (anche dal titolo) vengono lasciate fuori dalle inquadrature. E' una storia di uomini, che per scherzare in famiglia minacciano di morte i bambini, che si rallegrano perché il compleanno dei figli coincide con la strage delle Torri gemelle, che ascoltano canzoni guerrafondaie, che amano le proprie armi e intanto ripuliscono il terreno dalle mine dei nemici e guardano le bombe cadere in distanza. Dopo che il capofamiglia perde un piede durante un'operazione di sminamento, toccherà ai bambini essere inviati in un duro campo di addestramento militare, e poi alla morte, per proseguire una guerra senza soluzione di continuità, che si trasmette di padre in figlio. Una realtà molto difficile da comprendere e da accettare; il film dà qualche elemento di conoscenza in più, il che non vuol dire che aiuti a schiarirsi le idee.
Ci riportano a situazioni meno aliene gli altri due film visti nel concorso (mi è sfuggito solo l'egiziano Poisonous Roses, anche a causa di un ritardo nel programma di proiezione). Dal Bangladesh, fino a qualche decennio fa uno dei Paesi più poveri del mondo, arriva una storia di ambiente alto borghese, No Bed of Roses (Doob), in cui un regista (interpretato da Irrfan Khan,
già visto in film come The Millionaire, Lunchbox, Vita di Pi e in diversi blockbuster internazionali) abbandona moglie e figlia per intraprendere una relazione con una giovane attrice, amica di quest'ultima. Il regista Mostofa Sarwar Farooki aspira a dare una veste moderna al suo melodramma famigliare, ma ellissi narrative, salti repentini di spazio e di tempo, oltre che la somiglianza tra le due protagoniste femminili, non propiziano il godimento di un film che può dirsi complessivamente poco riuscito. Significativo il fatto che un gruppo di spettatori bengalesi, quando un personaggio all'interno del film rimprovera al regista la sua condotta immorale, scoppi a scena aperta in un applauso soddisfatto e liberatorio.
E' sicuramente più intrigante Severina, del brasiliano (ma il film è una coproduzione con l'Uruguay ed è parlato in spagnolo) Felipe Hirsch (cofondatore del gruppo di sperimentazione teatrale Ultraliricos), che racconta la storia di un libraio che si innamora di una sfuggente ladra di libri. Conoscerla meglio, e poi conviverci, non servirà minimamente a dissiparne il mistero. Severina, (che è il nome della protagonista, che non viene mai pronunciato nel film) è un noir basato su un amour fou, ma la sua particolarità deriva dalla letterarietà (Severina è un personaggio reale o non piuttosto un fantasma dell'invenzione letteraria?) e dai moventi dei personaggi, per i quali una donna può essere desiderabile quanto un libro, ed entrambi possono custodire misteri indecidibili. Forse un po' inconsistente la femme fatale interpretata da Carla Quevedo; nel ruolo di un ambiguo sedicente padre, e poi di un ingombrante cadavere, appare Raul Castro, attore feticcio di Pablo Larrain.

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    Mauro Caron

    Appassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione.

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